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La Stampa Rassegna Stampa
01.10.2013 La lenta nevicata dei giorni
l'anticipazione del libro di Elena Loewenthal

Testata: La Stampa
Data: 01 ottobre 2013
Pagina: 29
Autore: Elena Loewenthal
Titolo: «Com’è difficile amare sulla cenere della Shoah»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 01/10/2013, a pag. 29, l'articolo di Elena Loewenthal dal titolo "Com’è difficile amare sulla cenere della Shoah".


Elena Loewenthal, La lenta nevicata dei giorni (ed. Einaudi)

Con «la lenta nevicata dei giorni» si conclude una breve, bellissima poesia di Primo Levi. È la neve grigia del tempo che passa ad Auschwitz, dentro le persecuzioni, la morte e la paura. La lenta nevicata dei giorni è il titolo del nuovo romanzo di Elena Loewenthal, da oggi in libreria per Einaudi (pp. 244, 17,50), di cui anticipiamo un brano dalle pagine iniziali. È il 1944: André e Fernande escono vivi dalla guerra, e la promessa di poter tornare alla casa del sogno, intravista durante la fuga in barca da Villefranche, diventa una realtà. In quella casa sotto il faro bianco del Capo, Fernande vivrà intensamente, amerà in un modo strano e indecifrabile il Poeta che tatuerà quei muri con i suoi affreschi, il suo dolore, la loro storia. Ma il passato resta sempre lì, non un’eco ma una presenza costante, terribilmente dolorosa: e nella seconda parte del romanzo diventa una trama di vicende che passano per la Costa Azzurra, Torino, Parigi, Praga, i vagoni piombati, le fosse comuni. La lenta nevicata dei giorni è un romanzo non sulla, ma dentro la Shoah.

Ecco l'anticipazione del libro:

Alla fine della guerra, tornarono a casa.

Era una bella giornata di sole, non troppo calda, con una brezza che rischiarava il cielo e lucidava il mare laggiù, sempre più lontano.

André e Fernande camminavano lungo la strada, verso la stazione addossata alla collina. La guerra non era finita dappertutto, ma soltanto nel tratto di costa dove avevano vissuto in quegli ultimi venti mesi, lunghi come un’eternità. Fernande si muoveva lenta dietro ad André, gli occhi quasi sempre fermi sulle sue spalle un poco curve, come di vecchio. Ogni tanto si voltava a guardare il mare, che era sempre più piccolo e lontano, nascosto fra le case e gli alberi infoltiti dalla stagione gentile che era venuta, incurante della guerra.

Davanti alla stazione c’era una folla scomposta, mucchietti di gente sparpagliata, qualche carretto, molte valigie. Tanti sguardi sperduti, che si alzavano spesso verso il cielo fatato di quella giornata. Ma dentro, nel piccolo atrio che non aveva più porte perché qualche bombardamento lontano le aveva sfondate tempo prima, c’era il caos. Una massa informe di anime che si muovevano, stavano ferme, correvano qua e là fra i binari. André entrò per primo, fece due passi e poi si girò per cercarla. Si guardarono un momento negli occhi, lui le porse un braccio, lei lo afferrò. Le girava la testa e non solo quella. Lo stomaco, il cuore, la pancia. – Sto male, André. – Lo so. Aggrappati a me, – sorrise. – Dopo tanto tempo, ti fa paura la gente. Il mondo. Vieni, tesoro.

Fernande appoggiò la testa contro la sua spalla, cercò un nido in quell’incavo caldo e morbido mentre con la coda dell’occhio riprovava a guardarsi intorno. C’era odore di umanità smarrita che non sapeva dove andare perché non c’era più nessuna destinazione che sapesse anche solo vagamente di casa. Eppure partivano ugualmente, come se muoversi fosse l’unico modo per riprendersi la vita.

Fernande conosceva quell’odore, l’aveva già sentito e proprio in quel luogo, ma André non poteva immaginare che lei avesse più paura del passato che del presente, molta di più, e che il capogiro fosse un déjà-vu preciso come uno specchio appena lustrato, lo sgomento di un ritorno in quel luogo, in quel momento, in quella stessa situazione. Solo che ora era dentro, precipitata nella vita, mentre allora era capitata lì per caso.

Dopo molto tempo, André prese la valigia in una mano e Fernande nell’altra. S’incamminarono verso il binario 2, quello dove la palina indicava NICE. André si augurò che la guerra non avesse capovolto anche l’orientamento, ma non chiese informazioni a nessuno. Avanzavano facendosi strada fra la gente, sembrava impossibile riuscire a percorrere quei pochi metri. Fernande si teneva stretta alla mano di André, ma era scivolosa di sudore e ogni tanto le sfuggiva e allora lei si spingeva in avanti, si tuffava verso di lui per non perderlo. Avanzavano uno dietro all’altra, come una lama fra la folla.

Il treno arrivò poco dopo. André lo vide che sbuffava ancora in lontananza, si voltò verso Fernande e le sorrise, come a dirle: vedi che siamo fortunati! vedi che tutto ricomincia, che forse la buona stella è tornata, che non devi avere paura…

Il treno si avvicinò lentamente, si sgranò lungo il binario sempre più piano, vagone dopo vagone: sembrava non dovesse fermarsi più, condannando la gente ad aspettarlo invano, a vederlo passare adagio adagio, vagone dopo vagone e poi più niente. Era carico di un’altra folla, ammassata negli scompartimenti, affacciata ai finestrini per respirare, per vedere. A un certo punto André – senza mai lasciare la mano di Fernande – s’incamminò velocemente in senso inverso, cercando di rincorrere la coda di quel treno che non finiva mai. Sgomitò e si scontrò con qualche spalla: sperava che laggiù in fondo sarebbe stato più facile salire a bordo. Il treno non era ancora fermo del tutto, che André spinse Fernande su per gli scalini di ferro dell’ultimo vagone. La porta non c’era più, come se la guerra si fosse divertita a scardinare le barriere. Fernande passò fra due persone che ostruivano il passaggio sgusciando fra una e l’altra senza vederle, poi si voltò. Ma André non stava salendo.

– Vai avanti, trova un posto! – urlò da fuori. – Provo a passarti la valigia dalla finestra, che da qui non ci riesco di sicuro!

Fernande fece no con la testa ma André non se ne accorse: la faccia di lei era quasi sparita dietro la massa di gente stipata nel vagone. Allora attraversò lo stretto corridoio, dirigendosi verso la testa del treno: scavalcò bambini e fagotti, qualche valigia ogni tanto. Giunta al terzo scompartimento, un po’ meno pieno dei primi due, si tuffò dentro, quasi cascando addosso a un signore con un cappotto pesante, malgrado l’inizio d’estate. Chiese scusa e s’affacciò al finestrino per ritrovarlo. – André! Era un poco più in là, si voltò. In quell’istante, il treno si mosse. Ancora non avanzò: produsse uno scossone accompagnato da un cigolio sordo e lungo. Poi sbuffò, s’incamminò ma frenò subito, facendo sobbalzare persone e cose, scivolò indietro di qualche metro, qualcuno fischiò e il treno partì.

Fernande lanciò un grido che non era neanche più «André!», ma solo sgomento.

Non lo vedeva più, in mezzo alla folla rimasta a terra che si sbracciava e gridava delusa. E si sentì morire, di una morte lenta e torturante, infinitamente più lenta dei venti mesi trascorsi nel nascondiglio, ad aspettare che la guerra finisse e che i tedeschi la smettessero di dare la caccia agli ebrei. Era impietrita, in piedi, accanto al finestrino abbassato, stretta fra corpi e gambe, sul collo il fiato caldo di un bambino in braccio a sua madre, che piagnucolava piano, per non disturbare.

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