Il commento di Daniele Scalise
Daniele Scalise, giornalista e scrittore. Scrive su 'Prima Comunicazione'.
E' autore di
Cose dell’altro mondo. Viaggio nell’Italia gay-Zelig
Il caso Mortara-Mondadori
I soliti ebrei -Mondadori
Lettera di un padre omosessuale alla figlia-Rizzoli http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=33806
La parola speranza è, tra le tante del lessico politico, una delle più manipolate. Si parla di speranza e si allude a un vago ottimismo che spesso nulla a che vedere con la realtà. E’ bello, encomiabile e facile essere speranzosi guardando il tramonto settembrino da un attico romano o da un elegante appartamento del Marais, un po’ meno se vivi a Gerusalemme, a due passi da una minaccia costante. Eppure la speranza in Israele ha sorretto e guidato lo Stato fin dalla sua rifondazione tanto da intitolare l’inno nazionale. In Israele la speranza che non mi è mai parsa un’aspirazione fumosa o non un desiderio lussuoso o un simbolo retorico quanto piuttosto - lo dimostrano non solo gli ultimi sessantacinque anni di storia ma anche gli ultimi 5774 - un impegno e insieme un metodo.
Senza speranza Israele non ce l’avrebbe mai fatta a sopportare (e vincere) guerre e minacce, a vivere in costante tensione e nello stesso tempo a non impazzire di angoscia ma continuando a crescere e a progredire. Senza speranza non avrebbe mantenuto standard democratici invidiabili rinunciando ad usare gli stessi strumenti che sono in mano ai suoi, ai nostri nemici. Epperò quella di Israele è una speranza ben diversa da quella che sovente si pratica nel Vecchio Continente o nei circoli dei democrats americani dell’Upper East Side. In Israele la speranza è e resta vigile ed armata. Non quindi un balocco per intellettuali ispirati da buoni quanto fatui sentimenti, ma elemento reale e partecipato di una intera società e della politica che ne è l’espressione diretta. Pensavo a questo leggendo le cronache – tutte simpaticamente raggianti – che danno conto del contatto telefonico tra il presidente degli Stati Uniti Barack Obama e l’iraniano Hassan Rohani, il primo dopo la funesta salita al potere dei khomeinisti. Leggendo i commenti della stampa nazionale e internazionale verrebbe da pensare che molti degli autori siano degli adolescenti cresciuti su Marte. Capisco la necessità di persuadersi, dopo aver appena sfiorato la possibilità di un angosciante conflitto, che tutto-va-bene-madama-la-marchesa ma forse un più meditato senso della realtà dovrebbero guidare le osservazioni e persino gli auspici.
Se la speranza non è un gioco infantile ma un impegno adulto, credo che dovremmo riflettere meglio su Israele che di quella speranza ha fatto il proprio centro e che con quella speranza ha edificato metro dopo metro la patria ebraica. Ma, appunto, la speranza non può essere disarmata, non può servire a chi è animato da spirito distruttivo per prendere tempo e rinforzarsi. Ciò che gli europei (e per europei intendo alcuni settori non irrilevanti delle élite politiche e intellettuali) fingono di ignorare è in Medio Oriente non si sta giocando una partita brutale ma remota tanto da richiedere al massimo l’intervento di qualche apparato diplomatico. Non è una bega condominiale tra forze islamiche fratricide o, peggio ancora, una questione che riguarda solo quei rompiscatole degli israeliani. Connettere speranza a coscienza e conoscenza è esercizio faticoso e di certo poco consolatorio ma credo anche vitale. Per tagliar corto: personalmente spero che il signor Obama e il signor Rouhani tornino a parlarsi e spero con tutto il cuore che le comunicazioni non saltino per qualche improvviso black-out. Ma posso permettermi di sperare tutto questo perché so con certezza che Israele non abbasserà mai la guardia, nemmeno quando intona “la speranza due volte millenaria di essere un popolo libero nella nostra terra”.