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Il Giornale-La Repubblica-Corriere della Sera Rassegna Stampa
29.09.2013 Onu: superlativa la regia di Rohani, sempre più simile a Hitler
la bufala bene organizzata. Commenti di Fiamma Nirenstein, Federico Rampini, Cecilia Zecchinelli

Testata:Il Giornale-La Repubblica-Corriere della Sera
Autore: Fiamma Nirenstein-Federico Rampini- Cecilia Zecchinelli
Titolo: «Una telefonata non assicura la pace-E' iniziata l'operazione disgelo, ma Obama deve convincere Israele-Dall'Olocausto alle frasi su Twitter, Rohani e l'arte delle 'due versioni'»

Il Giornale-Fiamma Nirenstein: " Una telefonata non assicura la pace "


Fiamma Nirenstein    Rohani, Obama

Una telefonata storica, dal '79 non si era visto niente di simile, una svolta, un passo strategico, una vittoria per Obama. I media non si sono risparmiati. Se poi il saluto in farsi di Obama a Rohani (khodafez, «che Dio ti accompagni») e il «have a nice day» di Rohani a Obama preludano a vere trattative sul nucleare, solo un indovino lo può prevedere, per ora parole gentili sono state aggiunte a parole, il fantasma del perfido Ahmadinejad è fugato, che sollievo, e tutti sperano che la bomba a tempo più paventata, quella degli ayatollah destinata a stabilire il califfato mondiale e a distruggere Israele, possa essere stata disinnescata, con i pericoli di guerra. Obama si muove a fin di bene, come ha fatto anche col discorso del Cairo, o quando ha chiamato la Fratellanza Musulmana «una forza prevalentemente laica». Sbagliava. E oggi? La telefonata di quindici minuti, è stata richiesta dagli iraniani, certo un segno di grande interesse. Obama vi si è detto ancora una volta disponibile a trattative, ma non non ha parlato di promesse nella confernza stampa post-telefonata: solo di un'apertura di rapporto che potrebbe portare a una «soluzione complessiva»; la via è, dice, «piena di ostacoli»; e Rohani giunto in patria, dove è stato accolto da evviva ma anche da scarpate, si è vantato dei grandi onori ricevuti come di una svolta, ma ha detto subito che gli impianti nucleari sono «l'orgoglio» irrinunciabile del popolo iraniano. Un vero dilemma: nucleare per uso civile, come ha detto a New York. Difficile davvero crederlo. Rohani è un presidente partorito dal leader supremo Khamenei, l'unico vero capo. Gli altri candidati sono stati esclusi o incarcerati; è il negoziatore che nel 2005, quando l'Agenzia Atomica rivelò che l'Iran aveva nascosto le strutture per un nucleare aggressivo, disse: «Parliamo con gli europei a Teheran e installiamo strutture a Isfahan. Creando un ambiente rilassato, siamo riusciti a finire il lavoro».
Obama ha citato la dichiarazione di Rohani sulla proibizione religiosa a fare armi di distruzione di massa, ciò che è in contraddizione completa sia con la realtà dei fatti in tutto l'Islam (il Pakistan ha almeno 200 bombe atomiche, e quasi tutto il Medio Oriente ci ha provato), quanto all'Iran ci sono dozzine di prove della sistematica costruzione della bomba. In più si sa bene che c'è la mumatilah, una tattica sviluppata dai mullah nei secoli: temporeggiare per raggiungere lo scopo. Inoltre un cedimento iraniano non è concepibile per chi si ritiene il suo capo, la sua testa di ponte, segnerebbe una sconfitta complessiva.

Tuttavia l'Iran, per far togliere le sanzioni, che è la promessa elettorale di Rohani, può trattare per accatastare il suo uranio arricchito, aprire in parte all'Aiea, gestire a lungo una trattativa che soddisfi il mondo e in particolare Obama. La bomba non sparirebbe dall'orizzonte ma sarebbe rimandata. Quando Obama il 9 ottobre del 2009 ricevette il Premio Nobel, molti giudicarono avventato quel gesto: non lui. È invece del tutto probabile che quell'evento che commentò auspicando tolleranza fra popoli di diverse fedi, razze e religioni e invocando l'eliminazione dell'arma nucleare lo abbia influenzato per sempre. A ogni costo, Obama vuole rendere reale il suo Nobel. E Rohani vuole che si sollevino le sanzioni sull'Iran. Ci basta?

La Repubblica-Federico Rampini: " E' iniziata l'operazione disgelo, ma Obama deve convincere Israele "


Federico Rampini   Bibi Netanyahu

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
NEW YORK
— La prossima missione per Barack Obama, domani, sarà “vendere” l’operazione-disgelo con l’Iran al più scettico di tutti: il premier israeliano Benjamin Netanyahu in arrivo alla Casa Bianca. Verso la destra americana Obama ha già segnato dei punti. Lo spettacolo delle contestazioni contro Hassan Rohani al suo ritorno a Teheran, conferma che la svolta del neopresidente non è un bluff, scatena resistenze tra i pasdaran.
Nell’indagare i retroscena della svolta storica, sfociata nella prima telefonata tra i presidenti americano e iraniano in 34 anni, si scopre che a prendere l’iniziativa sono stati gli iraniani. Anche se la telefonata è partita dalla Casa Bianca, la richiesta l’aveva fatta la delegazione di Teheran poco prima di lasciare New York. Spettava a loro, in un certo senso. Perché erano stati loro a “ritirare la mano”, quando martedì sera all’Onu lo staff di Obama li aveva sondati per improvvisare un faccia a faccia diretto. Di fronte a un evento così
clamoroso, il timore di reazioni durissime a Teheran aveva consigliato alla delegazione iraniana di soprassedere. E così il colloquio telefonico è avvenuto venerdì proprio mentre la colonna di auto scortate dalla polizia, con Rohani in partenza verso l’aeroporto, stava cimentandosi con il traffico impazzito di Manhattan (donde le “scuse” di Obama all’ospite straniero, per gli ingorghi stradali). 15 minuti di conversazione telefonica, conclusi con ciascuno che salutava nella lingua dell’altro (“Have a nice day”, “Khodahfez”), hanno rotto l’incomunicabilità che durava dalla crisi degli ostaggi americani a Teheran nel 1979. L’ultimo segnale era arrivato proprio poche ore prima della partenza della delegazione iraniana: nella conferenza stampa finale Rohani aveva citato Stati Uniti e Iran come “due grandi nazioni”, un linguaggio insolitamente rispettoso per il leader di un paese dove il nome America veniva spesso accompagnato dalla definizione Grande Satana.
In America le diffidenze non sono certo dissipate. Se ne fa portavoce il leader della maggioranza repubblicana alla camera, Eric Cantor, che attacca Obama per non avere denunciato il sostegno dell’Iran a gruppi estremisti (Hezbollah in testa) e gli abusi contro i diritti umani che continuano ad essere perpetrati a Teheran. Cantor riprende un leitmotiv familiare, sottolineando che non è Rohani l’uomo forte del regime bensì l’ayatollah Ali Khamenei, a cui spetta la parola su questioni strategiche come lo sviluppo del nucleare. Peraltro, a quest’obiezione Rohani aveva risposto in diverse interviste a media americani prima di lasciare New York, nelle quali si era premurato di confermare l’appoggio di Khamenei alla sua linea di negoziato sul nucleare.
Per Obama l’avvio del disgelocon l’Iran resta però la prima notizia positiva sul fronte della politica estera, che gli ha riservato scarse soddisfazioni in Medio oriente. Ancora pochi giorni fa un sondaggio delNew York Times
rivelava che la maggioranza degli americanigli assegna un voto basso in politica estera. È la conseguenza di quanto accaduto nelle primavere arabe, dove gli eventi in Libia e in Egitto hanno smorzato gli entusiasmi e messo a nudo errori, contraddizioni, tentennamentidella politica americana. Fino alla vicenda siriana, dove Obama si era spinto a chiedere l’autorizzazione del Congresso per l’intervento militare, e rischiava di non ottenerla. Sull’Iran forse inizia un’inversione di tendenza. Tantopiù significativa, perché il “giovane Obama” si era esposto moltissimo nella prima campagna presidenziale, dichiarandosi nel 2008 «pronto a incontrare i leader iraniani senza porre condizioni preliminari», annuncio che allora fu subissato di critiche da destra.
Ora la Casa Bianca è attenta a non eccedere nell’ottimismo. «È troppo presto – dice la responsabile della sicurezza nazionale Susan Rice – per scommettere su un accordo nucleare. Non ci facciamo illusioni. Ma se si riuscisse a cominciare da una soluzione sul programma nucleare, e aggiungervi la fine del sostegno iraniano al terrorismo, allora comincerà una discussione seria sul futuro».

Corriere della Sera-Cecilia Zecchinelli: " Dall'Olocausto alle frasi  su Twitter, Rohani e l'arte delle 'due versioni' "


Cecilia Zecchinelli           Christine Amanpour

 Hassan Rouhani, presidente moderato d’Iran, è rientrato ieri a Teheran accolto da centinaia di sostenitori che salutavano il disgelo con gli Stati Uniti e il mondo, o almeno il suo inizio, gridando «Sì alla pace, no alla guerra». Subito dopo un gruppo di oppositori gli ha invece tirato uova e sassi, perfino una scarpa, urlando «Morte all’America». Immagini simbolo della divisione del Paese e delle difficoltà che attendono in patria il successore di Ahmadinejad, dopo la maratona diplomatica che lo ha visto debuttare all’Onu di New York insieme alla nuova strategia della Repubblica Islamica. Un’inedita politica basata sull’apertura all’Occidente (il tempo dirà quanto sincera e proficua), consacrata dalla storica telefonata del presidente Barack Obama al leader iraniano poche ore prima. A dare notizia di quella chiamata dallo Studio Ovale, mentre la limousine di Rouhani correva all’aeroporto Jfk, era stato un tweet sull’account del leader iraniano (non scritto né controllato da lui, peraltro), seguito da molte frasi della conversazione durata 15 minuti. Frasi però sparite nelle ore successive. Nemmeno la tv di Stato ha dato notizia della chiamata. Più che mirare a tenere la gente all’oscuro (anche in Iran ormai si sa tutto), la censura indica le difficoltà del regime nel gestire la svolta, lancia un segnale che niente è ancora deciso nè definitivo. Altri piccoli indizi, per restare nell’ambito della comunicazione, lo confermano.
Come il fatto che Rouhani, appena arrivato a Teheran, abbia detto alla stampa locale che la telefonata era stata un’«iniziativa americana» non sollecitata. Cosa smentita da fonti dell’Amministrazione Usa: il presidente Obama ha fatto quella chiamata quando gli iraniani avevano manifestato disponibilità a parlare al telefono dopo aver invece respinto un più delicato incontro bilaterale, con tanto di stretta di mano sotto ai riflettori. Ma nemmeno sollecitare una telefonata del «Grande Satana» sarebbe stato accettabile per i «falchi» di Teheran, capeggiati dai Pasdaran o Guardiani della Rivoluzione, che ieri hanno infatti commentato la telefonata (nella versione corretta) definendola una prova dell’«importanza dell’Iran». Gli stessi Pasdaran, creati da Khomeini come esercito rivoluzionario e poi diventati Stato nello Stato con aziende, commerci, interessi enormi, avevano sollevato una tempesta per l’intervista concessa da Rouhani alla Cnn . Il network aveva tradotto in inglese le parole dell’iraniano attribuendogli il termine «Olocausto», accanto alla condanna per i crimini nazisti. Ma quella parola Rouhani non l’aveva detta, sostenevano i Pasdaran. E in effetti, è poi emerso, è stato un errore della Cnn. Perché prendersela tanto? Questione di lana caprina? Non tanto: dopo otto anni di Ahmadinejad che l’Olocausto lo negava o di cui comunque dubitava, una svolta a 180 gradi sarebbe clamorosa. E va digerita in Iran. Dove come sempre, al di là della visibilità dei suoi presidenti, il grande regista di tutto è la Guida Suprema Ali Khamenei. L’onnipotente successore di Khomeini dopo la rottura con il suo ex protetto Ahmadinejad ora ha deciso di puntare sui moderati, sperando nella fine delle sanzioni che sempre di più pesano sull’economia e sulla stabilità del regime. Ma con cautela e attenzione, ovvero con ambiguità.

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