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La Stampa Rassegna Stampa
28.09.2013 Il nuovo libro di André Aciman
L'intervista di Paolo Mastrolilli

Testata: La Stampa
Data: 28 settembre 2013
Pagina: 1
Autore: Paolo Mastrolilli
Titolo: «Nelle città d'ombra sogno di vivere altrove»

Riprendiamo dalla STAMPA/TUTTOLIBRI di oggi, 28/09/2013. a pag. I, la recensione di Paolo Mastrolilli, con il titolo "Nelle città d'ombra sogno di vivere altrove" al libro di Andrè Aciman " Città d'ombra", che consigliamo vivamente ai nostri lettori.

Andrè Aciman

Le città di Italo Calvino erano invisibili; quelle di André Aciman sono reali, concrete, piene di angoli che parlano al cuore e alla memoria, eppure fatte apposta per sparire. Per illudersi di essere altrove e perdere la propria identità. Città d’Ombra , come il titolo del suo nuovo libro, in uscita da Guanda.

Aciman è nato ad Alessandria d’Egitto, da una famiglia ebrea di origini turche, che parlava francese. Da ragazzino fu costretto a fuggire a Roma, prima di trasferirsi a New York. Auguri, se volete incardinare in qualche schema la sua identità di esule. La nostalgia dei luoghi per lei comincia sempre con la per­ dita di Alessandria: tornerà mai a viverci? «Non credo. Avrei potuto farlo vent’anni fa, ma ormai è impossibile. Con l’antisemitismo che domina l’Egitto, avrei paura ad essere l’unico ebreo rimasto». Cosa sta succedendo al suo Paese d’origine? «Un fatto meraviglioso. Può sembrare un giudizio inusuale, ma ho parlato con molti egiziani illuminati, non fanatici di destra o di sinistra, e tutti convengono che non siamo pronti

per la democrazia. Io non amo violenza e massacri, ma forse in questo momento abbiamo proprio bisogno di un dittatore, possibilmente illuminato. Di sicuro non avrebbe fatto bene al Paese, se tra cinque anni i Fratelli Musulmani fossero stati ancora al potere». Lei descrive Roma prima co­ me un incubo, quando ci era arrivato da profugo, e poi co­ me la città più bella del mon­ do, quando ci è tornato da adulto: cosa è accaduto, nel frattempo? «Roma era difficile per me perché avevo perso la città della mia infanzia, e vivevo all’Alberone, un quartiere orribile. Eppure proprio là sono rinato. Mi nascondevo nella mia casa a leggere libri, oppure nelle vie del centro, dove scappavo dalla realtà per immergermi nel sogno classico e rinascimentale. Così ho sviluppato un amore per Roma che non finirà mai». Non è troppo generoso, con un paese addormentato sul passato? «Non c’è alcun romanticismo in me. Ogni volta che torno nel vostro Paese noto il malessere italiano, l’egoismo, il tentativo di imbrogliare il sistema. Siete sull’orlo del precipizio, e vi salvate solo grazie all’ottimo sistema di assistenza sociale. Questo però non toglie che passeggiare per Roma resta un’esperienza mistica». NewYorkèla«cittàd’ombra» per eccellenza, perché le con­ André Aciman, nato nel ’53 ad Alessandria d’Egitto, insegna letteratura alla City University di New York; nel ’65 fu costretto a lasciare l’Egitto da Nasser (come raccontato in «Ultima notte ad Alessandria»), di lui Guanda ha pubblicato, «Notti bianche» e «Chiamami col tuo nome» Foto Mirco Toniolo/Errebi sente di immaginare di essere ovunque. E’ un luogo vero o un feticcio? «Un feticcio. Ma è anche vero. Per amare una città serve un’illusione, un’immagine diversa dalla realtà. In questo New York è perfetta, perché qui posso pensare di essere trasportato rapidamente a Roma, Parigi, Londra, ovunque». Per amare un luogo bisogna es­ sere lontani? «Serve uno schermo fra te e la realtà, che poi non vediamo mai. Se vuoi sopravvivere, devi inventare un’immagine da sovrapporre a ciò che hai davanti. Tomasi di Lampedusa mi fece innamorare di Roma. Vidi al Gattopardo a Parigi, e per un motivo ignoto sentii nostalgia per questa città che non avevo mai saputo di amare». Dobbiamo perdere una città per apprezzarla? «No, però ci serve un’illusione. Dobbiamo vederci altro. Non amiamo la cosa in sé, ma l’immagine che ci creiamo di essa».

Lei dà l’impressione di essere alla ricerca della sua identità, in tutti questi luoghi: dunqueanchelasuaidentitàèun’illusio­ ne? «E’ sempre in dubbio. Forse non c’è, e sono pronto ad accettarlo. Sono un ebreo incerto. Ho passato la vita a ripudiare la mia identità ebraica, perché non aveva senso. E’ quello che sono, ma non mi sento ebreo, non lo capisco. Quando sono con gli ebrei mi sento cristiano, e quando sto con i cristiani mi sento ebreo».

Perché questo ripudio? «E’ una domanda per il divano dello psicanali­ sta. Tutti cerchiamo di farci piacere quello che siamo, credere che abbiamo uno scopo. Ma in realtà a nessuno piace se stesso. Non pensiamo di essere normali, e siamo costantemente in lotta con l’immagine di ciò che vorremmo esse­ re. Io sono solo conscio di non essere chi sono». Nel libro lei confessa di aver mentito su come andò la sua «ultima notte ad Ales­ sandria», prima dell’esilio. Uno scrittore ha il diritto di barare, per creare l’immagi­ ne a cui vorrebbe aderire? «Sì, è perfettamente accettabile. La metà delle volte in cui mentiamo non sappiamo nemmeno di farlo, e quando pensiamo di dire la verità la stiamo rimodellando. Io non so più se ho men­ tito o no: ci sono molte versioni della mia ulti­ ma notte ad Alessandria, e ce ne saranno altre ancora, se continuerò a parlarne». Chi non scrive, come costruisce le sue illu­ sioni? «E’ condannato a soffrire. Tutti però abbiamo scritto poesie, nei momenti difficili, perché crediamo che le parole possano riordinare la realtà». In sostanza lei parla di cose molto reali, come le città, per fuggire dalla realtà e creare illusioni. «Esatto. Tutti noi interpretiamo male le nostre vite, soprattutto nel privato. Io racconto come fraintendo la mia: se vi piace, significa che capi­ ta anche a voi».

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