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Il Foglio Rassegna Stampa
28.09.2013 Da Amnesty alla Jiahd
Commemto di Giulio Meotti

Testata: Il Foglio
Data: 28 settembre 2013
Pagina: 2
Autore: Giulio Meotti
Titolo: «Spose di morte»

Sul FOGLIO di oggi, 28/09/2013, a pag.II, con il titolo "Spose di morte", l'articolo di Giulio Meotti sul percorso da Amnesty alla Jihad della terrorista inglese Samantha Lewthwaite.

i due logo, Amnesty e Jihad

Il 7 luglio 2005 Germaine Lindsay, un cittadino britannico di diciannove anni originario della Giamaica, cristiano convertito all’islam, si fa esplodere nella metropolitana presso Russell Street, nel centro di Londra, provocando la morte di ventisei “infedeli”. Germaine è uno dei quattro terroristi suicidi, tutti britannici, autori della prima strage islamica in Gran Bretagna, ed è stato il primo caso accertato di un cristiano convertito all’islam diventato un terrorista suicida. La sua vedova, Samantha Lewthwaite, ventuno anni e anche lei cristiana convertita all’islam, in un’intervista al Sun dirà, affranta: “Mio marito era un uomo semplice e generoso. Era cambiato da quando aveva iniziato a frequentare la moschea. Gli hanno avvelenato il cervello. Spariva continuamente, andava sempre a pregare nella moschea. E’ sparito anche la sera prima dell’attentato: l’ho sentito entrare nella stanza di Abdullah (il figlio di diciassette mesi), baciarlo e quindi uscire. Poi ho ricevuto un messaggio sul cellulare: ‘Ti amerò per sempre. Vivremo per sempre insieme’”. Samantha e Germaine si erano conosciuti a una marcia pacifista contro la guerra in Iraq a Hyde Park nell’ottobre del 2002. “Jamal (il suo nome islamico, ndr) voleva diventare un avvocato dei diritti dell’uomo, era un uomo di pace, io facevo parte di una sezione di Amnesty International, volevamo cambiare il mondo, ho davvero pensato di aver trovato il miglior marito”, aveva confessato Samantha alla stampa. La Lewthwaite era il simbolo perfetto del multiculturalismo liberal britannico: bianca, donna, con un’istruzione universitaria, figlia di un soldato, Andy Lewthwaite, che aveva combattuto contro i terroristi in Irlanda del nord, ma poi iscrittasi a una famosa ong dei diritti umani, sposata a un musulmano, madre di figli di sangue misto. Questa settimana, dopo una latitanza lunga sei anni, Samantha Lewthwaite è riapparsa, con il nickname di “Vedova Bianca”. Il Guardian l’ha ribattezzata “nemico pubblico numero 1”. Il suo volto ha invaso le prime pagine dei tabloid britannici. Sembra che la ragazza sia coinvolta nel massacro di sessantasette persone nel centro commerciale di proprietà israeliana a Nairobi, in Kenya. “Provo orrore per le atrocità di Londra”, disse Samantha ai quotidiani britannici, diventando uno dei volti della campagna inglese a discolpa della comunità islamica nazionale. “Era una ragazza timida, non c’era nulla di straordinario in lei”, dice Niknam Hussein, vicino di casa dei Lewthwaite. Si ritiene che oggi Samantha abbia istruito molte donne somale a diventare kamikaze per gli Shebab, i qaidisti del Corno d’Africa. Nel settembre 2012, Samantha ha progettato l’attentato a colpi di bombe a mano contro un hotel di Mombasa, costato la vita a tre persone che guardavano gli Europei di calcio. Dopo l’attentato postò su internet una poesia sul martirio, intitolata “Forse il Paradiso, domani”. Scrive la moglie del kamikaze: “Mi guardo intorno e vedo quanto è bello il jihad, è vivo in Kenya, è vivo in me”. Samantha si converte all’islam a quindici anni e conosce il futuro marito, “Jamal”, mentre si appassiona alle materie africane e orientali all’Università di Londra. Quando lui – uno dei “macellai con lo zaino”, come li definì il Sun – si fa esplodere, lei è incinta, all’ottavo mese. Samantha e Jamal erano grandi amici di Mohammad Sadique Khan, l’altro kamikaze che lavorava come insegnante in un centro per ragazzi disabili, dove la moglie si “occupa di educazione”. Il mite insegnante di sostegno, segnalato ai servizi segreti dopo un viaggio in Pakistan, si era rivolto così ai governi occidentali: “Finché vi sentirete sicuri, sarete il nostro obiettivo. Fino a quando non smetterete di bombardare, uccidere con il gas, imprigionare e torturare, noi non fermeremo questa guerra”. Il suo video sarebbe diventato un culto tra i giovani jihadisti: “La nostra motivazione non deriva dalle comodità di questo mondo”. Farida, la sua matrigna, era stata premiata a Buckingham Palace dalla regina per la sua attività di insegnamento ai giovani dei suburbia di Leeds. Nel 2002, Khan aveva dato un’intervista al supplemento del Times: “La felicità? Quando i miei alunni dicono che questa è la migliore scuola dove sono stati, io mi sento realizzato”. Un anno fa i servizi africani sono arrivati molto vicini a Samantha e hanno catturato un membro della sua cellula, un altro convertito all’islam, un altro cittadino inglese di nome Jermaine Grant, originario di Newham. Secondo i servizi, Samantha ha tre case fra la Somalia e il Kenya, dove ha insegnato ai suoi uomini come fabbricare bombe. Gli uomini di Scotland Yard hanno trovato il suo certificato di conversione all’islam, scritto da un imam londinese, in un appartamento affacciato sull’oceano Indiano a Mombasa. Non sembra rimanere nulla della ragazza pallida che negli anni Novanta si faceva fotografare in discoteca con le amiche, nata in Irlanda del nord nel 1983 da genitori cattolici e affascinata dall’islam sin dalle prime lezioni a scuola. Samantha era una fan di David Beckham e collezionava giornali di gossip sulla musica pop. Oggi viaggia con uno stock di passaporti falsificati che le hanno permesso di vivere e spostarsi con tre bambini piccoli al seguito. La storia della Lewthwaite è quella di tante altre donne bianche e occidentali che hanno scelto al Qaida. Come Nicole Mansfield, una madre americana di Flint, nel Michigan, mamma single di una bambina di nome Triana. Nicole è morta da “martire” in Siria lo scorso maggio mentre combatteva assieme ai gruppi qaidisti anti Assad. Nelle fotografie, Nicole ha il volto coperto dal velo, nonostante il padre operaio della General Motors, l’avesse educata a essere una cristiana battista. Lo sceicco sunnita Yusuf al Qaradawi, rettore di studi islamici all’Università del Qatar e fra le massime autorità dell’islam sunnita, ha giustificato questa falange rosa: “La partecipazione delle donne nelle operazioni di martirio è uno dei più lodevoli atti di devozione”. Tutto è iniziato con la kamikaze palestinese Wafa Idris. Alla madre Wafa aveva detto: “Ci vediamo più tardi. Vado al lavoro”. Ma Wafa non l’hanno più vista. Ha raggiunto Jaffa Street a Gerusalemme. Si è attardata qualche istante in un negozio di scarpe, poi è tornata in strada. E ha ucciso un passante. Sua madre oggi bacia la sua foto e dice: “Ringrazio Dio per quello che è avvenuto, lei adesso è la figlia della Palestina”. Saddam Hussein le dedicò un memoriale a Baghdad. Ayat al Akhras aveva diciotto anni, si fece esplodere in un supermercato di Gerusalemme. Ammazzò due persone, ma prima avvertì due anziane donne arabe. Voleva solo gli ebrei. Le donne cecene da anni stanno terrorizzando i russi partecipando a missioni suicide. Le chiamano “vedove nere”. Nell’assedio del Teatro Dubrovka di Mosca, nell’ottobre 2002, la metà dei terroristi erano donne. In Cecenia le donne hanno condotto il 43 per cento degli attentati suicidi dal 2000. Nella propaganda e nella retorica jihadista, l’invasione delle terre islamiche è intimamente legata alla violazione delle donne musulmane. Dall’Olanda venivano le “sorelle di Allah”, definizione usata dalle due giornaliste olandesi Janny Groen e Annieke Kranenberg. L’olandese Soumaya aveva progettato di uccidere la deputata olandese Ayaan Hirsi Ali, l’intellettuale di origine somala condannata a morte con il regista Theo van Gogh. Soumaya era stata scelta come boia perché donna, “per provare al mondo che Hirsi Ali non rappresenta le musulmane”, dirà la sua cellula. Per queste donne è una ispirazione Malika El Aroud, “la trascinatrice della guerra santa in Europa”. E’ la vedova del tunisino Abdessater Dahmane, uno dei kamikaze che su ordine di Osama bin Laden uccisero il leader afghano Ahmed Shah Massud alla vigilia degli attentati dell’11 settembre 2001. Malika è una cittadina belga che ogni mese riceve circa settecento euro di sussidio di disoccupazione dal generoso welfare belga. “Io ho un’arma. E’ lo scrivere. E’ il parlare. Questo è il mio jihad. Anche scrivere è una bomba”, scrive Malika, “un modello, un’icona abbastanza coraggiosa in cui identificarsi” come la definisce Claude Moniquet, presidente dell’European Strategic Intelligence and Security Center di Bruxelles. Malika svolge lo stesso compito di propaganda della giornalista turca Defne Bayrak, la moglie di Human Khalil Abu Mulal al Balawi, il medico giordano che ha ucciso sette agenti della Cia in Afghanistan. “Quando leggi i versetti e gli hadith che parlano di jihad e lasci correre l’immaginazione su ciò che Allah ha preparato per i martiri, la tua vita diventa di poco peso, tutte le abitazioni stravaganti e le macchine costose e l’abbellimento diventano disgustosi ai tuoi occhi”, aveva lasciato scritto il marito. Defne ha scritto libri come “Bin Laden: Che Guevara of the East”. “Sono orgogliosa di mio marito, il martirio è una priorità della mia famiglia”, ha detto la donna. C’è Aafia Siddiqui, la scienziata pachistana laureata al famoso Massachusetts Institute of Technology e condannata per aver tentato di uccidere alcuni ufficiali americani al momento della sua cattura nel 2008 in Afghanistan. Madre di tre figli, unica donna nella lista dei most wanted di al Qaida, Aafia è come Colleen LaRose e Jamie Paulin-Ramirez, soprannominate dai media americani “Jihad Jane” e “Jihad Jamie”, due donne americane, bianche e bionde, accusate di aver preso parte a un complotto per uccidere Kurt Westergaard, l’autore della famosa vignetta su Maometto. “Sono pronta a morire pur di raggiungere il mio scopo”, aveva scritto Colleen La- Rose, originaria di Pennsburg, Pennsylvania. Una storia di emarginazione che ricorda quella di una ragazza belga di Monceau- sur-Sambre, una cittadina di ex minatori. Lì, al numero 33 di Avenue de l’Europe, abitava la prima donna europea morta in Iraq come kamikaze. Si chiamava Muriel Degauque, si è fatta saltare a bordo di un’auto chiara imbottita di esplosivo sulla strada per Baquba, sessanta chilometri a nord di Baghdad. E’ difficile capire che cosa annunciava quel destino oscuro e ferino, che cosa abbia divaricato, ad esempio, il cammino di Muriel da quello di Susanne Osthoff, la tedesca convertita all’islam e anch’essa finita in Iraq, ma a fare l’archeologa, e salita alle cronache per essere stata sequestrata, non per essere diventata terrorista. Muriel è nata a Charleroi, la capitale del carbone e di quel sobborgo di Marcinelle nei cui cunicoli trovarono la morte 136 minatori italiani. Lì Muriel era cresciuta, aveva fatto le scuole e trovato lavori saltuari. Poi si era trasferita a Bruxelles, dove viveva in un appartamentino a pochi passi dalla Gare du Midi con un belga di origine marocchina. Un islamista fanatizzatosi in Europa. Muriel cambia quindi il proprio nome in Myriam (un congedo dalla famiglia, una famiglia operaia) e indossa il velo. E’ lei con il compagno a imporre le regole quando sono ospiti a casa dei genitori: i due uomini mangiano in una stanza, le due donne in un’altra. Guai ad accendere la televisione, aprire una birra proibito. Nei giorni scorsi, parlando da Aylesbury, dove è nata Samantha Lewthwaite, il politico Raj Khan, amico della famiglia della terrorista, ha dato la più succinta e migliore definizione della ragazza: “Normale, inglese, giovane, ordinaria”. Sono tutte così. Bombe rosa d’occidente. Ricordano quell’infermiera minuta come una bambina ma spietatissima con le sue vittime che era Fusako Shigenobu, l’amazzone del terrore, “la regina” mai pentita delle decine di persone fatte ammazzare dai suoi “samurai rossi” del Giappone. Nel maggio 1972 un suo commando, di cui faceva parte anche il marito di Fusako, attaccò l’aeroporto di Tel Aviv: ventisei gli ebrei uccisi. Il Mirror definisce Samantha Lewthwaite “la più temuta donna terrorista dai tempi di Ulrike Meinhof”, quando una piccola borghesia colta e occidentalissima in nome della lotta di classe voleva, come disse Jean Genet, piantare una lancia “nella carne troppo grassa della Germania”. Allora fu la camicetta bianca a quadretti giallo- viola che portava la Meinhof quand’è morta a Stammheim. “La strega rossa con la kefiah di seta”, come venne chiamata Ulrike. Oggi è il burqa nero di Samantha. Entrambe, Lewthwaite e Meinhof, rivoluzionarie e madri affettuose di due bambine. Siamo sempre lì, alla divisione del mondo della Rote Armee Fraktion fra “i porci” e “gli esseri umani”. Samantha e i suoi li chiamano “empi”. L’ultima fotografia di Samantha in abiti occidentali risale a quando ha sedici anni alla Grange Secondary School. Si offre all’obiettivo, in camicetta bianca e cravatta da liceale. Dopo si nasconde nel burqa e diventa la strega bianca del jihad.

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