Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 26/09/2013, a pag. 45, la risposta di Sergio Romano ad un lettore dal titolo " Vittime cristiane nell'islam, ma non è uno scontro di civiltà ".
Sergio Romano
Secondo Romano non c'è nessuno scontro di civiltà fra l'islam e quelli che sono considerati 'infedeli'.
A suo avviso, infatti, i massacri di cristiani nei Paesi islamici hanno delle differenze. Quali, non è ben chiaro. Ciò che li rende tutti simili, invece, è il bersaglio, sempre lo stesso.
Romano, poi, sostiene che, in certi casi, siano i cristiani ad essere i carnefici. Non potendo citare a tal proposito un esempio dei giorni nostri, torna indietro di qualche decennio, in Libano "Vale la pena di ricordare, tuttavia, che in quella guerra i cristiani furono spesso i provocatori e i responsabili, come accadde nell'attacco contro i palestinesi dell'aprile 1975, che dette il via agli scontri, e nell'operazione, coperta dalle truppe israeliane, contro i campi di Sabra e Shatila nel settembre 1982". Su quali basi Romano si permette di sostenere che le truppe israeliane coprirono il massacro di Sabra e Shatila?
Una Commissone appositamente costituita per indagare sui fatti (la Commissione Kahan) accertò che Ariel Sharon, allora generale di Tzahal, non fu direttamente responsabile di quell'eccidio.
Per Romano i risultati delle inchieste non hanno alcun valore?
Ecco lettera e risposta di Sergio Romano:
Perché così poca copertura da parte dei media sui continui massacri di cristiani in Pakistan, sempre in occasione della messa domenicale, ultimo della serie domenica a Peshawar: 80 morti, 100 feriti. Si confronti con l'enorme spazio dato a quanto successo a Nairobi. Perché la persecuzione dei cristiani (vedi anche i copti in Egitto e i cristiani in Iraq costretti ad andarsene) non fa notizia? Si teme forse di constatare che tutto questo avviene sempre da coloro che si rifanno all'Islam?
Lorenzo Cesari
Logacesari@aol.com
Caro Cesari,
È certamente vero che nell'attacco al grande centro commerciale di Nairobi il commando degli integralisti musulmani ha preso deliberatamente di mira i cristiani. Il fatto non è stato trascurato dalla stampa italiana e internazionale, ma l'avvenimento andava inquadrato anzitutto nella strategia regionale delle milizie islamiste che cercano di estendere la loro influenza ad altre zone del corno d'Africa per ricongiungersi alle formazioni sorelle dello Yemen, del Sudan, della Nigeria e del Sahel. Un nuovo fronte dell'Islam radicale si sta formando attraverso l'Africa e non è meno minaccioso di quello che attraversa alcune regioni del Caucaso (Daghestan, Cecenia, Inguscezia), l'Afghanistan, il Pakistan e, anche se in forma meno grave, l'Indonesia. Gli attacchi contro i cristiani servono a dimostrare la «purezza» religiosa dei movimenti jihadisti, a trasformare il conflitto in una missione spirituale, a meglio reclutare seguaci nelle fasce più devote della società. La guerra, in ultima analisi, non è tra l'Islam e la cristianità, ma fra musulmani divisi da diverse concezioni della religione e dello Stato. Un fenomeno analogo si è verificato in Iraq dopo l'invasione americana del marzo 2003 e potrebbe verificarsi oggi in Siria. La guerra di Bush ha creato uno spazio su cui Al Qaeda si è affrettata a piantare la propria bandiera, e il cristiano della porta accanto ha smesso di essere il vicino di casa per diventare il nemico da spogliare dei suoi beni, cacciare dal Paese, uccidere. Dopo quel conflitto la comunità cattolica caldea in Iraq si è dimezzata e molti sono emigrati in Siria dove il regime di Assad ha offerto ospitalità e, sino agli ultimi avvenimenti, sicurezza. In Libano invece i cristiani continuano a rappresentare un terzo della popolazione, ma un milione di maroniti ha lasciato il Paese durante i quindici anni della guerra civile. Vale la pena di ricordare, tuttavia, che in quella guerra i cristiani furono spesso i provocatori e i responsabili, come accadde nell'attacco contro i palestinesi dell'aprile 1975, che dette il via agli scontri, e nell'operazione, coperta dalle truppe israeliane, contro i campi di Sabra e Shatila nel settembre 1982. Un cenno infine ai copti egiziani, una comunità che rappresenta circa il 6% della popolazione. Qui il conflitto, quando esplode, è spesso più sociale che religioso, ma si è certamente acuito durante il breve regime della Fratellanza musulmana. Nel Paese esiste tuttavia una lunga tradizione di convivenza e tolleranza che autorizza un po' di ottimismo per il futuro. In conclusione, caro Cesari, è necessario che la stampa parli di questi avvenimenti, ma senza leggerli e presentarli come uno scontro di fedi e di civiltà. La realtà cambia da un Paese all'altro ed è sempre più complicata di quanto possa sembrare a prima vista.
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