Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 26/09/2013, a pag. 1-44, l'articolo di Sergio Romano dal titolo " Ora i due giocatori si guardano ". Dalla STAMPA, a pag. 1-33, l'articolo di Roberto Toscano dal titolo " Obama-Rohani, il dialogo ha molti nemici ".
Ecco i pezzi:
CORRIERE della SERA - Sergio Romano : " Ora i due giocatori si guardano "
Sergio Romano : "Non ho mai creduto che l'Iran volesse costruire immediatamente un ordigno nucleare".
Sergio Romano prende sul serio le affermazioni di Rohani e scrive : "ha detto di essere pronto a iniziare trattative limitate nel tempo e orientate verso risultati concreti, e ha ripetuto che il suo Paese non intende creare un arsenale nucleare". Questo in barba a tutti i rapporti dell'Aiea che denunciano il lavorio frenetico degli ayatollah alla costruzione di un ordigno nucleare.
Ma Sergio Romano preferisce dare credito a Rohani, su quali basi, poi, non è dato saperlo.
L'Iran è il centro del terrorismo internazionale e sta costruendo ordigni nucleari, è impossibile continuare a dare credito ai discorsi di Rohani, a meno che non li smantelli pubblicamente.
I negoziati cominciano quando ciascuno dei contendenti si accorge che la propria linea politica non è riuscita a modificare quella dell'avversario. L'Iran di Ahmadinejad credeva di potere realizzare il programma nucleare senza cedimenti, ed era convinto che le sanzioni non avrebbero piegato il Paese. Gli Stati Uniti speravano che le punizioni economiche inflitte all'Iran avrebbero suscitato la rivolta della società e intaccato la stabilità del regime. Nessuna delle due linee ha prodotto il risultato desiderato.
Gli Stati Uniti e i loro alleati non hanno rinunciato a pretendere impegni e garanzie che l'Iran ha sinora rifiutato, ma hanno dovuto constatare che le sanzioni non bastano e che il regime può addirittura confermare, con l'elezione di un presidente alquanto diverso dal suo predecessore, il buon funzionamento del proprio sistema politico. Restano beninteso gli ultimatum e il ricorso alla forza (extrema ratio di ogni negoziato fallito), ma gli amletici zig zag di Obama nella questione delle armi chimiche siriane hanno reso l'intervento militare molto più difficilmente credibile. Se speravano che l'America avrebbe rinunciato a pretendere garanzie, gli iraniani sbagliavano. Se sperava in una nuova «onda verde» o addirittura nella punizione militare dell'Iran (un chiodo fisso della politica neoconservatrice e della lobby filoisraeliana) l'America sbagliava.
Quello a cui abbiamo assistito nell'Assemblea generale dell'Onu è il dialogo a distanza fra due giocatori che debbono anzitutto sgombrare il terreno da tutti gli ostacoli sorti nel corso del tempo. Rouhani ha buttato via il lessico insolente e roboante di Ahmadinejad, ha detto di essere pronto a iniziare trattative limitate nel tempo e orientate verso risultati concreti, e ha ripetuto che il suo Paese non intende creare un arsenale nucleare. Ha persino riconosciuto, in un'altra circostanza, il genocidio ebraico, anche se l'agenzia dei Pasdaran (i Guardiani della rivoluzione) si è affrettata a correggere la versione della Cnn e a diluire le sue parole aggiungendo altri crimini nazisti a quello commesso contro gli ebrei. Ma ha detto altresì che le sanzioni economiche sono un atto di violenza e che l'Iran non intende rinunciare all'arricchimento dell'uranio. Obama, dal canto suo, ha cercato di coinvolgere l'Iran nell'intesa internazionale contro le armi chimiche siriane con un cenno ai soldati iraniani uccisi dai gas iracheni durante la guerra degli anni Ottanta. Ha detto di essere disponibile al negoziato e di averne dato l'incarico al Segretario di Stato. Nessuno dei due ha rinunciato al punto fondamentale della propria linea politica. Ma sembrano esistere ormai le condizioni per una nuova trattativa.
Esistono anche quelle per un accordo? Non ho mai creduto che l'Iran volesse costruire immediatamente un ordigno nucleare, ma ho sempre pensato che voglia essere nelle condizioni del Giappone, vale a dire capace di costruirlo e minacciarne l'uso, all'occorrenza, nel più breve tempo possibile. Cambierebbe idea, forse, se gli Stati Uniti fossero disposti ad adoperarsi per lo smantellamento dell'arsenale nucleare israeliano. Benjamin Netanyahu lo sa ed è per questo che ha definito il discorso di Rouhani «cinico e pieno d'ipocrisia». La minaccia di un nucleare iraniano è divenuta in questi anni la migliore giustificazione del nucleare israeliano. Prima o dopo gli Stati Uniti dovranno scegliere fra due posizioni possibili: convivere con un Iran potenzialmente nucleare o fare pressioni su Israele perché rinunci al proprio arsenale.
La STAMPA - Roberto Toscano : " Obama-Rohani, il dialogo ha molti nemici"
Roberto Toscano
Come Sergio Romano, anche Roberto Toscano si lascia incantare dallo show di Rohani all'Onu.
Secondo Toscano Israele è il maggiore avversario del dialogo Usa/Iran.
"Sarebbe fare un torto agli israeliani ritenere che davvero credano che l’Iran ha tendenze suicide da realizzare con lo sviluppo di ordigni nucleari e il loro uso per la distruzione di Israele (fra l’altro sterminando insieme ebrei e palestinesi, e distruggendo uno dei luoghi più sacri dell’Islam, Gerusalemme/Al Quds). La loro vera preoccupazione è che la normalizzazione dei rapporti Washington-Teheran faccia uscire gli iraniani dall’attuale isolamento, permettendo loro di fare sentire il loro peso nella regione sul piano politico e diplomatico". La minaccia nucleare iraniana è ben definita, non è una 'scusa' usata dagli israeliani per mantenere il presunto isolamento politico dell'Iran.
Per quanto riguarda Gerusalemme (citata con il nome il arabo, perché?) come uno dei luoghi più sacri dell'islam, non si capisce da dove derivi questa convinzione. Gerusalemme non è mai citata nel Corano. I musulmani fanno il loro pellegrinaggio alla Mecca, non a Gerusalemme. Da dove deriverebbe il titolo 'uno dei luoghi più sacri dell'islam' ? Può una menzogna diventare realtà?
Ecco il pezzo:
Il giorno dopo l’apertura della sessione annuale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con gli attesi interventi dei Presidenti di Stati Uniti ed Iran, c’è chi si concentra non su quello che è stato detto, ma piuttosto su quello che non è avvenuto: l’incontro (che si immaginava potesse essere «casuale» e pilotato nello stesso tempo) fra Obama e Rohani.
Certo, una foto vale più di molte parole per segnare una svolta politica, ma sembra di poter condividere quello che ha detto Stephen Walt, professore di Harvard, quando ha osservato che questo è il momento dello statecraft, non dello stagecraft (delle doti degli uomini di Stato e non di spettacolo) e anche il commento del Ministro degli esteri iraniano Zarif, che ha auspicato che «si smetta di comportarsi come venditori di tappeti».
Ebbene, né Obama né Rohani si sono comportati come venditori di tappeti, bensì come politici prudenti ma anche disposti a rischiare per districare quel nodo di ostilità e sospetti che dal 1979 impedisce fra Stati Uniti e Iran anche quel minimo di rapporti che normalmente intercorrono anche fra Paesi radicalmente contrapposti.
La convinzione che si tratti di disponibilità reali non la si ricava certo da una cieca fiducia nella loro ostentata buona volontà, ma dalla realistica considerazione dei loro reciproci interessi.
Obama, che si sta a fatica liberando dalla micidiale eredità delle guerre di Bush, non ha nessuna intenzione di scivolare nel coinvolgimento in un intervento militare contro il regime siriano, e sa che le chiavi di una soluzione negoziata a quell’atroce guerra civile, una guerra che nessuna delle due parti riesceavincere,sono sia a Mosca che a Teheran, due Paesi che appoggiano Assad ma che perseguono finalità che vanno ben oltre il dittatore siriano. Putin non vuole rinunciare ad un’influenza russa in una Siria del post-Assad e vuoleimpedire,preoccupato del radicalismo islamista nel proprio territorio, una Siria in mano ai jihadisti. E l’Iran? Per l’Iran, e per il suo nuovo presidente, la partita va ben oltre la Siria e la stessa regionemedio-orientale.L’Iranpersegue da un lato il riconoscimento della propria legittimità politico-istituzionale e – cosa che è molto importante nella tradizionale cultura persiana -, il rispetto. Obama ha dimostrato di averlo capito, quando nel suo discorso ha escluso esplicitamente che l’America persegua un cambiodiregimeinIrane,parlando dellaquestionenucleare,hadefinito la sua soluzione «un passo essenziale sulla strada di un rapporto diverso, basato su interessi reciproci e sul mutuo rispetto». Ma, e qui le cose si complicano, l’Iran, oltre ad una normalizzazione dei rapporti internazionali indispensabile per la propria economia, ambisce anche ad essere riconosciuto come importantepotenzaregionale.Lohadetto in modo non ambiguo Rohani, quando ha deplorato «gli sforzi tesi a privare soggetti regionali del loro naturale campo d’azione».
Paradossalmente non è sulla questione nucleare che Obama e Rohani troveranno gli ostacoli maggiori ma sulla questione medio-orientale nel suo complesso, su quel «campo d’azione» rivendicato dall’Iran che qualcuno ritiene tutt’altro che naturale, e comunque inaccettabile.
Sarebbe fare un torto agli israeliani ritenere che davvero credano che l’Iran ha tendenze suicide da realizzare con lo sviluppo di ordigni nucleari e il loro uso per la distruzione di Israele (fra l’altro sterminando insieme ebrei e palestinesi, e distruggendo uno dei luoghi più sacri dell’Islam, Gerusalemme/Al Quds). La loro vera preoccupazione è che la normalizzazione dei rapporti Washington-Teheran faccia uscire gli iraniani dall’attuale isolamento, permettendo loro di fare sentire il loro peso nella regione sul piano politico e diplomatico, e non solo – come ora–conl’appoggio a Hezbollah,strumento importante ma limitato. In questo gli israeliani sono del tutto allineati con i sauditi, impegnati in una partita globale che arriva fino al Pakistan a sostenere con fondi, operazioni di intelligence e aiuti militari una vasta offensiva sunnita contro lo sciismo e in particolare lo sciismo impiantato su base statuale in Iran e Iraq. Un’offensiva apparentemente religiosa, ma che in realtà riflette obiettivi di natura geopolitica.
Anche senza la stretta di mano, la partita Iran-Usa si è comunque aperta, e nei prossimi giorni prenderà corpo in un negoziato sul nucleare che finalmente vedrà gli americani (in concreto con un faccia-a-faccia Kerry-Zarif) impegnati nella ricerca di una soluzione che non potrà se non riproporre l’unico schema possibile: riconoscimento del diritto dell’Iran all’arricchimento dell’uranio ma con limitazioni quantitative e con l’applicazione di forme di controllo ed ispezione internazionale particolarmente stringenti.
Ma sono in troppi i soggetti che temono la normalizzazione Usa-Iran: Israele, con Netanyahu che parla di Rohani come «lupo vestito da agnello» e traccia improbabili paralleli Iran-Nord Corea, l’Arabia Saudita, disgustata da quella che ritiene l’imperdonabile ingenuità del presidente americano e pretenderebbe invece il suo appoggio a una sistematica politica di rollback di iraniani, sciiti, Fratelli Musulmani.
E vi è poi il Congresso americano, dove Obama troverà, nel suo intento di risolvere la questione iraniana senza il ricorso alla forza (da notare l’assenza nel suo discorso all’Onu dell’ormai canonico riferimento al fatto che «tutte le opzioni rimangono sul tavolo»)tanteostilitàquantoquellechedeve affrontare per la realizzazione del suo programma in politica interna.
Da ultimo, ma non meno pericoloso, è il potenziale sabotaggio che può venire dalle correnti più radicali all’interno della Repubblica Islamica. Come ha scritto ieri un iraniano-americano, «i lupi di Teheran si sono forse ritirati nelle loro tane, ma restano pronti a saltare addosso a Rohani appena commetterà un primo passo falso».
Anche il regime iraniano, come il sistema americano, si presenta con due possibili registri. L’aquila che simboleggia la Repubblica americana è raffigurata con un ramoscello d’ulivo in una zampa e un fulmine nell’altra. Per la Repubblica islamica, invece, il riferimento tende ad essere religioso, ma si articola anch’esso su un’alternativa binaria. È molto singolare ed interessante, che – per interpretare la frase del Leader Supremo sulla necessità di applicare in questa fase «una flessibilità eroica» – si sia risaliti al VII secolo e al secondo imam sciita, Hassan che, come narrato in un libro tradotto dall’arabo dallo stesso Khamenei, accettò per il bene della causa sciita un compromesso con i nemici, ovvero quelli (sunniti) che si opponevano alla successione al Profeta per discendenza familiare e sostenevano il tradizionale metodo di elezione tribale.
Ma Hassan venne poi ucciso, e il fratello Hossein, terzo imam sciita, scelse invece di combattere anche se in condizioni di disperata inferiorità e fu sconfitto e ucciso nella battaglia di Karbala – tragico e mitico evento fondatore dello sciismo che viene ricordato dai fedeli nella annuale rievocazione dell’Ashura con un dolore sempre rinnovato. Kayhan, quotidiano ultraconservatore molto vicino a Khamenei, ammonisce: «Oggi nessuno è in grado di imporre al mondo islamico la pace che Hassan accettò allora. E se cercheranno di esercitare troppe pressioni, si tornerà a Karbala».
Dialogo e compromessi sono sia necessari che possibili. Ma non sarà un percorso facile, né per Barack Obama né per Hassan Rohani.
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