Non si stupiscano i nostri lettori se riprendiamo l'articolo di Tonia Mastrobuoni dalla STAMPA di oggi, 21/09/2013, a pag.11. con il titolo
" Islamici parassiti, nella Berlino che odia l'euro e gli immigrati ". Descrive, in maniera equilibrata e lucida, come in un grande paese l'immigrazione islamica può finire fuori controllo, dando origine a scontri sociali la cui responsabilità è da attribuirsi soltanto a leggi sbagliate, e quindi nocive. Ormai queste rivolte stanno succedendo in molti paesi europei, quelli che credevano possibile l'integrazione dei musulmani in un sistema democratico. Una utopia rivelatasi tale. Un ammonimento a guardare - se c'è ancora tempo - alla realtà italiana.
Tonia Mastrobuoni I quartieri di Berlino
L’ altra Germania è a qualche fermata di autobus dal centro di Berlino. Ha il viso tondo di Bettina e le mani nodose di Karl. È la capitale che non ti aspetti, quella che ha perso il treno del nuovo miracolo economico targato Schröder-Merkel, che nasconde tra i casermoni sovietici e i centri commerciali una miriade di esistenze sotto la soglia di povertà. In quest’area umanizzata solo da un grande parco, a Hellersdorf, un quartiere dormitorio degli Anni 80 sulla linea della metro che porta a Est, Bettina e Karl si sono uniti alle proteste dei vicini contro i rifugiati. «Guardala, guarda che pancia». Bettina quasi urla, indicando una donna velata che sta passando mano nella mano con il marito: «Quando avrà partorito andrà a chiedere i soldi al nostro Stato, e quello glieli darà. Che schifo». Scuote la testa, cerca con lo sguardo Karl, che sta aggiustando il guinzaglio a un cane microscopico che indossa un cappottino con la scritta «peluche da combattimento».
Qui, di fronte alla scuola «Max Reinhardt», sembra tutto tranquillo oggi. C’è persino il sole a scaldare un po’ questa fredda giornata d’autunno. Ma è una calma apparente: un gruppetto di teste pelate che staziona accanto all’edificio ci ha cacciati a male parole, quando abbiamo tentato di fare qualche domanda. Un sintomo evidente della tensione attorno a questo posto: da settimane la scuola ospita circa 180 rifugiati provenienti da zone calde o aree di guerra, famiglie che arrivano dalla Siria, dal Kosovo o dalla Cecenia. E da quando gli immigrati sono arrivati, il quartiere è in subbuglio e i neonazisti della Npd tentano di cavalcare le proteste. Si è formato persino un gruppo di «iniziativa cittadina» per cacciarli. «Il giorno che è stato annunciato il centro – ci ha raccontato un politico locale della Linke, Klaus Jürgen Dahler – i nazi hanno talmente monopolizzato la discussione con le loro urla e bugie, che si era creato un clima da Rostock-Lichtenhagen». Un precedente agghiacciante: nel 1992, dopo giorni di proteste violente, i neonazisti diedero fuoco con delle bombe molotov a un centro di rifugiati vietnamiti.
«Io non voglio avere niente a che fare con questi maiali, con le teste rasate», sostiene Bettina, quando le raccontiamo del paragone. Si accende una sigaretta: «Però, a manifestare contro gli immigrati ci sono venuta anche io, e tante volte. Trovo molto stupido che voi giornalisti scriviate che siamo tutti nazi, non c’entra niente. È che è assurdo che questa gente venga qui. Se lo Stato ha soldi da buttare, ce li dia a noi che siamo tedeschi».
Bettina ha 43 anni e tre figli: due grandi e un bimbo di sei che va alle elementari. È prepensionata. Ride, battendosi la tempia con l’indice: «I medici dicono che sono matta. Ma le dirò una cosa: io sono ricca, rispetto ai miei vicini di casa, mi danno 382 euro al mese». Annuisce e poi indica Karl con il mento: «Lui è molto più povero. Lui non ha un bambino, come me».
Non è solo una metafora: lo Stato tedesco è notoriamente generoso con i bambini. E senza il suo assegno per il figlio, Bettina non arriverebbe alla quarta settimana del mese. Invece, dice con orgoglio, «posso ancora comprarmi le sigarette e un paio di scarpe, ogni tanto». Vacanze ovviamente no, «le facciamo sul balcone», si intromette Karl, ridendo. Lui è disoccupato da due anni, vive di sussidio, ogni tanto i genitori ottantenni lo aiutano. Ha 49 anni.
Mentre stiamo percorrendo i lunghi vialoni senza ombre lungo le «Plattenbauten», i tipici edifici operai della ex Germania Est, e Bettina continua a gesticolare inveendo contro gli immigrati, si aggrega un ragazzo più giovane, attorno alla trentina. Stefan ha i capelli ingelatinati e un’enorme catena d’argento al collo. Sono le undici del mattino ma lui tiene già in mano una bottiglia di birra quasi vuota. È un «mini-jobber», lavora saltuariamente e guadagna 350-400 euro al mese. Il resto glielo garantisce il sussidio che lo Stato deve dare a molti precari che non riescono a mettere insieme i soldi per sopravvivere.
Anche Stefan ha protestato contro i rifugiati. «Lo sa come funziona, no? Me l’ha spiegato una volta un vecchio turco. Si registrano dicendo di avere sei figli, e magari ne hanno la metà, gli altri sono in Turchia, magari sono i figli della sorella, tanto chi controlla? E incassano un sacco di assegni». Secondo Stefan, uno dei tantissimi berlinesi doc costretti a spostarsi dal centro alla periferia perché «ormai per un buco di appartamento a Friedrichshain ci vogliono 600 euro», la colpa «è dell’euro». Con la rinuncia al marco, dice, «ci hanno raddoppiato i prezzi e dimezzato gli stipendi». Chi voterà domani? Ovvio, il partito che in questo quartiere vanta percentuali bulgare, attorno al 40%: la Linke. «Oppure - aggiunge, con una pausa teatrale, mentre apre una seconda bottiglia di birra - la Alternative für Deutschland. Magari ci riescono loro, a ridarci il marco». Gli facciamo notare che uno è il partito più a sinistra e l’altro quello più a destra dell’attuale quadro politico – fatta eccezione per i nazisti. Ma è un dettaglio. «Beh – si stringe tra le spalle – sono gli unici partiti che non fanno finta che la Germania sia il paradiso in terra e che non ci fanno sentire in colpa perché non ce la facciamo ad arrivare alla fine del mese».
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