Riportiamo dal MANIFESTO di oggi, 19/09/2013, a pag. 9, l'articolo di Michele Giorgio dal titolo "Palestina occupata e «da bere»".
Michele Giorgio Lo slogan preferito di Giorgio
Michele Giorgio si lamenta perché i tremendi coloni israeliani non solo 'colonizzano', ma si permettono pure di farlo coltivando la terra, costruendo infrastrutture e dando lavoro nelle loro aziende anche a dipendenti palestinesi. Un modo di agire che denota la perfidia degli israeliani, ovviamente. Non sia mai costruire strade, fabbriche e coltivare la terra su un suolo che, per il momento è conteso (non occupato). Meglio lasciare tutto inutilizzato e, soprattutto, guai mischiare palestinesi ed israeliani perché i primi potrebbero rendersi conto che il terrorismo paga meno del lavoro onesto, che l'Anp ha come interesse la cancellazione dello Stato ebraico più della fondazione di quello palestinese.
Ecco il pezzo:
Abu Mohammad Rifai parla delle sue terre occupate dai coloni israeliani come se fossero le figlie. «Vorrei prendermene cura io, hanno bisogno di attenzioni, di amore e invece loro (i coloni) le hanno abbandonate - spiega asciugandosi il sudore della fronte - erano di mio nonno, le hanno ereditate mio padre e suoi fratelli, poi anche io ho avuto la mia parte. Ecco, guarda qui, questi sono i documenti del catasto turco e di quello giordano». Abu Mohammed i suoi terreni, regolarmente registrati, non li hai mai potuti sfruttare. Poco alla volta, a partire agli anni '80, i coloni li hanno recintati e, grazie alla compiacenza dell'Esercito, "annessi" ai loro insediamenti. Siamo sotto Anata, un sobborgo di Gerusalemme est. La resistenza contadina, oltre il Muro Da queste parti corre il Muro israeliano di «separazione» e intorno sono state costruite colonie di grandi dimensioni tra le quali Maale Adumin (40 mila abitanti), Mishor Adumin, Kfar Adumim e Anatot. La requisizione di terre palestinesi in quest'area è stata sistematica, non solo di quelle che Israele descrive come "demaniali" - è la Cisgiordania, quindi un territorio occupato militarmente che, secondo le risoluzioni dell'Onu, deve essere restituito ai palestinesi - ma anche di quelle agricole private. Inoltre la costruzione delle infrastrutture per le colonie e delle strade si è rivelata devastante per le comunità beduine. Ne sanno qualcosa quelli di Khan al Ahmar che hanno difeso con tutte le loro forze dalla demolizione la scuola di gomme che la ong italiana "Vento di Terra" ha costruito qualche anno fa per i loro bambini. Gli ettari di proprietà di Abu Mohammad in gran parte non sono sfruttati. In un punto però domina una "macchia" verde. E' un vigneto, ben tenuto. E' il simbolo del trend che da due-tre anni anima i coloni israeliani. Sviluppare il "turismo della colonizzazione", poggiandolo sugli "itinerari del vino", sui cibi genuini, organici, è la via maestra che i settler stanno seguendo per arrivare al loro riconoscimento come "residenti normali" di una parte di Israele e non più di "occupanti" del territorio palestinese. Il governo Netanyahu appoggia questi sforzi di normalizzazione per "un unico popolo", da Tel Aviv alla Giudea e Samaria (come la Cisgiordania viene chiamata nella Torah). «E' una trovata geniale dal punto di vista politico - spiega l'attivista Yehuda Shaul - ormai spuntano come i funghi le pubblicità, soprattutto in inter-net, di weekend in questa o in quella colonia. Gli inserzionisti offrono ai clienti passeggiate tra le colline, un ambiente sano dove gustare formaggi freschi e, più di tutto, un wine tasting speciale». Proprio come in Toscana o in Sicilia. Siamo alla concorrenza tra settler Certo, solo palati inesperti possono dare voti di eccellenza ai rossi e bianchi prodotti e serviti nelle colonie. Eppure gli "itinerari del vino" si stanno rivelando una miniera d'oro e molte colonie si sono attrezzate per sfruttarla nel quadro dello sviluppo turistico di «città e villaggi israeliani in Giudea e Samaria». Il vino dei settler in Cisgiordania peraltro comincia a fare concorrenza a quello dei più esperti e famosi colleghi dello "Yarden", con vigneti sulle Alture siriane del Golan, occupate da Israele nel 1967 come i territori palestinesi. Tra i più lanciati nel turismo ci sono senza dubbio i coloni di Psagot, tra Gerusalemme e Ramallah. Arroccato in cima a una collina, a due passi dal comando militare di Beit El, gli abitanti di Psagot invitano i viaggiatori a guardare oltre le jeep militari che pattugliano la zona circostante e a godere della natura, di siti archeologici e vigneti nella regione che porta il nome della tribù ebraica di Beniamino, "il cuore di Israele". Tre anni fa hanno aperto un centro turistico che fa un quadro idilliaco dei coloni, non più pionieri con il mitra in mano pronti a far valere la loro legge sugli «arabi» e ma ambientalisti difensori del patrimonio naturale circostante, cultori della produzione di cibi sani, proprio come i sempre più numerosi vegani di Tel Aviv. E i palestinesi? Quelli che vivono presso le colonie sono elementi decorativi del paesaggio bucolico. Di tutti gli altri poco importa, perché sono chiusi nelle loro città isolate, percorrono strade diverse, hanno bisogno di permessi-dell'esercito per potersi spostare...sono distanti! la colonia di Shilo, non lontana da Nablus, è un'altra di quelle che maggiormente punta sul turismo, con sorgenti naturali e vino di qualità, almeno sulla carta. Gli accademici europei: «Sanzioni» Normalizzare le colonie tra gli europei- non sarà facile. notizia di qualche giorno fa la lettera inviata da oltre 500 accademici, in gran parte dei Paesi dell'Ue, all'Alto Rappresentante agli Affari Esteri, Catherin Ashton, in cui si esprime l'auspicio che l'Europa mantenga le sanzioni decise recentemente che tagliano i finanziamenti alle colonie israeliane, in particolare i fon-• di del Consiglio Europeo della Ricerca e di Horizon 2020, il prossimo programma di finanziamento della ricerca europea. La lettera esorta a resistere alle pressioni che il Segretario di Stato statunitense John Kerry sta facendo pressione sulla Unione per annullare le nuove linee guida. Invece sugli altri israeliani, quelli che vivono lungo la costa, a Tel Aviv, e su molti turisti americani il wine tasting nelle colonie riscuote un successo crescente. Grazie anche al progetto "La storia di ogni Ebreo", con cartelloni pubblicitari ovunque, che esorta gli israeliani a «tornare alle proprie radici». «Vogliono che la gente pensi che sia normale perché quelle aree sarebbero parte di Israele», dice Hagit Ofran di "Peace Now". «Si percepisce la colonizzazione (israeliana) solo come una attività edilizia, invece la confisca e l'occupazione delle terre agricole palestinesi, quasi sempre private, ha un peso enorme», dice al manifesto Dror Ektes, un ricercatore che da anni monitora. gli insediamenti israeliani. «Questa appropriazione è un fenomeno in grande crescita, specialmente nel nord della Cisgiordania e nelle colonie religiose e militanti che più delle altre invocano la normalizzazione». L'altra area è la Valle del Giordano dove, mentre si espande la presenza delle colonie "agricole", procede il contenimento, della popolazione palestinese. L'altro giorno i bulldozer militari hanno demolito Khirbet Makhool, comunità beduina nella Valle del Giordano. Centoventi persone sono rimaste senza un tetto sopra le testa. Violazioni quotidiane che non scuotono Abu Mohammad Rifai di Anata. «Un giorno riavremo le nostre terre, ne sono sicu-, ro. Quello che ci è stato tolto dai coloni tornerà nelle nostre mani», dice tranquillo accennando un sorriso.
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