Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 19/09/2013, a pag. 15, l'articolo di Paolo Mastrolilli dal titolo " Mosca stoppa la risoluzione. L’America prepara il piano B ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 56, l'articolo di Bernard-Henri Lévy dal titolo " Aiutare Assad non avvicina la pace. Il prezzo (pesante) d'un accordo ". Dal FOGLIO, a pag. 3, l'articolo dal titolo " Nella guerra delle prove in Siria ci sono anche sigari e suore", a pag. IV, l'articolo di Pio Pompa dal titolo " Ecco la lista aggiornata dai sauditi con i combattenti stranieri in Siria, numero e provenienza ".
Ecco i pezzi:
La STAMPA - Paolo Mastrolilli : " Mosca stoppa la risoluzione. L’America prepara il piano B "
Paolo Mastrolilli Sergei Lavrov
Le distanze sulla risoluzione Onu per disarmare la Siria sono ancora molto significative, al punto che la finalizzazione dell’accordo tra Usa e Russia rischia di essere rimandata a dopo l’apertura dell’Assemblea Generale, se non saltare del tutto. Si capisce dal testo su cui stanno lavorando i diplomatici di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, e dalla reazione apertamente negativa di Mosca.
La precondizione per applicare il piano concordato a Ginevra dal segretario di Stato Kerry e dal ministro degli Esteri Lavrov è che la Organisation for the Prohibition of Chemical Weapons approvi il framework, perché poi toccherà ai suoi esperti andare sul terreno per trovare e distruggere le armi chimiche. Nei giorni scorsi ci sono stati problemi, ma ora la Opcw sta discutendo un nuovo testo, che potrebbe essere approvato entro domani. A quel punto il Consiglio di Sicurezza dovrebbe incardinarlo nella risoluzione che ha lo scopo di dare legittimità all’intera operazione.
Martedì i P3, cioè Washington, Londra e Parigi, hanno incontrato i colleghi di Russia e Cina per presentare la loro proposta, e il vertice non è andato bene: silenzio da parte dei rappresentanti di Pechino, bocciatura da parte di quelli di Mosca. Così il dossier è stato rimandato alle rispettive capitali, per ricevere istruzioni, e poi ieri pomeriggio i P5 sono tornati a riunirsi.
Secondo indiscrezioni, le differenze nascono dal fatto che la risoluzione dei P3 è molto netta. È scritta in base al Capitolo 7 della Carta delle Nazioni Uniti, che autorizza l’uso della forza in caso di violazioni. Condanna in maniera esplicita il regime di Assad per l’attacco chimico del 21 agosto, e chiede che i responsabili siano incriminati presso il Tribunale penale internazionale, per quelli che «potrebbero costituire crimini di guerra» commessi a Ghouta. Stabilisce un forte sistema di controlli per l’embargo sulla vendita delle armi, che richiede l’ispezione di tutti i cargo in arrivo e in partenza dalla Siria. In altre parole, qualunque nave russa ancorata alla base portuale di Tartus, o qualunque aereo iraniano diretto all’aeroporto militare siriano di Mezzeh, dovrebbero essere aperti e ispezionati. La risoluzione poi darebbe ad Assad appena 24 ore di tempo per accettarla, dopo la sua approvazione, e richiederebbe rapporti all’Onu sulla sua attuazione ogni trenta giorni. L’obiettivo finale sarebbe quello di creare le condizioni per rilanciare il processo politico di soluzione della guerra civile, attraverso il meccanismo della conferenza di Ginevra II, programmata a maggio e mai convocata.
La determinazione di americani, inglesi e francesi sta anche nel fatto che l’intelligence in loro possesso conferma senza ombra di dubbio la responsabilità del regime, nonostante le obiezioni finora poco sostanziate di Mosca. Non solo la traiettoria dei razzi, che sono piovuti dal Mount Qasioun, roccaforte della Guardia repubblicana, ma soprattutto intercettazioni che al momento gli occidentali non vogliono pubblicizzare. I britannici sono particolarmente attivi, perché Cameron ha accusato il colpo del no del Parlamento all’intervento, e nella successiva e imbarazzata telefonata con il presidente americano Obama ha promesso di dimostrare che Londra tiene «con tutto il cuore» alla «special relationship».
La Russia punta i piedi perché ritiene che i P3 non hanno molte alternative: una volta rinunciato ai raid, o si accordano con Mosca, o perdono l’opportunità di disarmare Assad. Però il Cremlino vuole evitare che la risoluzione diventi poi un pretesto per attaccare il suo alleato, dandogli tempo fino alla metà del 2014 per vincere la guerra e le elezioni presidenziali.
I diplomatici che conducono il negoziato pensano che la Russia non cederà e, per non far saltare l’accordo di Ginevra, i P3 dovranno fare concessioni. La più probabile è che la risoluzione venga scritta in base al Capitolo 6, più morbido, e le misure da adottare in caso di violazioni siano rimandate ad altre consultazioni. In cambio, i P3 potrebbero restare fermi sulla richiesta di accountability davanti al Tribunale penale internazionale. Questo negoziato però richiede tempo, e forse nuovi vertici dei leader. Kerry e Lavrov hanno già appuntamento il 28 settembre a New York, ma potrebbero vedersi prima, anche con gli altri membri dei P3. Perciò il voto sulla risoluzione potrebbe slittare a dopo l’apertura dell’Assemblea Generale, il 24 settembre, se non proprio saltare.
CORRIERE della SERA - Bernard-Henri Lévy : " Aiutare Assad non avvicina la pace. Il prezzo (pesante) d'un accordo "
Bernard-Henri Lévy
Vorremmo credere che l'accordo russo-americano di sabato sulla Siria costituisca davvero il «passo avanti» di cui ci si riempie la bocca quasi ovunque. E preghiamo affinché la fermezza della Francia — l'unica a dimostrarla! — sia una volta ancora proficua e finisca per trascinare la comunità internazionale. Ma per il momento, che bilancio! Non parlo del documento dell'accordo, al cui proposito gli esperti hanno subito osservato che era: 1) inapplicabile (come si può, in un Paese in guerra, raggruppare e poi distruggere mille tonnellate di armi chimiche disseminate su tutto il territorio?); 2) incontrollabile (sarebbe necessario, secondo le stime più ragionevoli, un numero venti volte maggiore d'ispettori rispetto a quelli mobilitati dalle Nazioni Unite l'estate scorsa, la maggior parte dei quali rimasero chiusi in albergo o furono portati in giro dal regime); 3) non finanziabile (gli Stati Uniti hanno investito fra gli otto e i dieci miliardi di dollari per distruggere le proprie armi chimiche e, vent'anni dopo, il lavoro non è finito); 4) sottoposto a un calendario (la «metà del 2014») che, oltre a non significare tecnicamente nulla, suona come una farsa in un Paese dove da due anni e mezzo vengono uccisi, con armi convenzionali, centinaia di civili al giorno; 5) equivalente a un gioco di destrezza il cui principale effetto sarà, scaricando il problema sugli ispettori, d'«esternalizzare» la tragedia e di tornare, con la coscienza perfettamente tranquilla, a dormire il sonno dell'Ingiusto (pensiamo, a prescindere dai morti, a quegli imprenditori mascalzoni che, all'alba della crisi finanziaria degli anni Duemila, isolavano i loro attivi tossici nelle filiali fantasma dove non li si vedeva più, ma da dove continuavano a emettere le loro radiazioni malefiche)...
Parlo invece di Bashar Al Assad che, come per incanto, passa dallo status di criminale di guerra e contro l'umanità (Ban Ki-moon dixit) a quello d'interlocutore inevitabile, addirittura corretto e di cui, scommetto, non si tarderà a riconoscere lo spirito di cooperazione e di responsabilità. Parlo di Putin che compie l'impresa — facendo intanto dimenticare i propri crimini in Georgia, in Cecenia, in Russia — di presentarsi come uomo di pace con la stessa disinvoltura con cui si presentava, l'estate scorsa e le precedenti, come l'atleta superman che stronca le tigri, le balene o i lucci giganti. Parlo dell'America esitante, timorosa, che abbiamo visto — nell'incredibile sequenza in cui entrarono in contraddizione il saggio e forte discorso di John Kerry e quello, stranamente indeciso, di Barack Obama — assumere successivamente e quasi simultaneamente tutte le posizioni geopolitiche disponibili; parlo dell'America che si fa debole senza ragione e che lo stesso Putin, con la sua scandalosa lezione di morale democratica pubblicata sulle colonne del New York Times, si è concesso il lusso di andare a umiliare a domicilio.
Parlo della Corea del Nord o dell'Iran dove si avranno buone ragioni di pensare, ormai, che la parola dell'Occidente, le sue messe in guardia, le promesse fatte ai suoi alleati, non valgono niente: sarà falso? Imprudente? E gli stessi che avranno concesso ad Assad il permesso di uccidere s'irriteranno, quando saranno gli ayatollah a varcare la soglia del nucleare? Forse. Ma il solo fatto che si possa pensarlo, il fatto che un qualsiasi islamista fanatico o un qualsiasi dittatore folle credano di poter godere, d'ora in poi, di un'impunità stile Damasco, costituisce nelle relazioni internazionali una fonte di malinteso, quindi d'instabilità, incomparabile con quello che sarebbe stato il colpo d'avvertimento militare programmato, poi abbandonato, dal Pentagono e dalla Francia.
Infine penso, nella stessa Siria, ai civili che ancora non sono stati uccisi, né messi in fuga dai bombardamenti e che si trovano più che mai stretti in una morsa: da un lato, l'esercito governativo, appoggiato dai suoi consiglieri russi, dai suoi ausiliari Hezbollah e dai suoi Guardiani della rivoluzione giunti da Teheran; dall'altro, i gruppi jihadisti che inevitabilmente addurranno a pretesto la dimissione dell'Occidente e si presenteranno, più che mai, con tutte le conseguenze che si possono immaginare, come l'unico scudo per un popolo allo stremo.
Nel vile sollievo che si percepisce quasi dappertutto all'idea che, qualunque siano le conseguenze, «si allontani la prospettiva dell'intervento armato», c'è un segnale che può solo far venire in mente odiosi ricordi. Poiché la Storia ha più immaginazione degli uomini, supponiamo che Assad, inebriato da questa incredibile dilazione, commetta un nuovo «massacro di troppo»; o che un tragico contatore superi un altro record (150 mila morti? 200 mila?), improvvisamente ritenuto insopportabile dall'opinione pubblica che ormai decide sulla pace e sulla guerra; o che le ispezioni prendano una svolta drammatica di cui non si osa formulare lo scenario ma che obbligherebbe, stavolta, a una risposta e a un intervento militare. Allora ci si ricorderà, fatte le debite proporzioni, di queste celebri e funeste parole: «Per evitare la guerra, abbiamo scelto il disonore; in fin dei conti, avremo avuto e il disonore e la guerra».
Il FOGLIO - " Nella guerra delle prove in Siria ci sono anche sigari e suore"
“Quando si guardano i dettagli delle prove che gli ispettori hanno presentato – è inconcepibile che altri rispetto al regime abbiano usato il sarin”.
Barack Obama intervista a Telemundo, 17 settembre
L’appendice 5. Il rapporto Sellström pubblicato lunedì è il risultato dell’inchiesta degli ispettori delle Nazioni Unite sugli attacchi chimici in Siria: stabilisce che il gas sarin è stato utilizzato, il 21 agosto scorso, ma non dà informazioni esplicite sui responsabili dell’attacco, perché questo non era l’obiettivo della missione. L’appendice 5 del documento è tecnica ma interessante: descrive la dimensione e la struttura dei due sistemi di lancio utilizzati e rivela la traiettoria dei razzi, soprattutto la base di provenienza. “Il luogo di impatto numero uno (Moadamiya) e il luogo di impatto numero quattro (Ein Tarma) forniscono prove per tracciare, con un sufficiente grado di accuratezza, la traiettoria dei proiettili”. Il lavoro congiunto di Human Rights Watch e del New York Times ha permesso di analizzare gli elementi contenuti nell’appendice 5 e visualizzarli nella cartina qui a fianco. Partendo dallo “schermo vegetale” da cui è passato un razzo ispezionato poi finito vicino a un muro, valutando i gradi di spostamento rispetto al suo ritrovamento e rifacendo il percorso a ritroso, è possibile identificare un’area piuttosto circoscritta e piuttosto famosa attorno a Damasco. “Non è una conclusione definitiva”, precisa l’analista di immagini satellitari che s’è occupato dei calcoli e della ricostruzione per Human Rights Watch, Josh Lyons, “ma è parecchio suggestiva”.
“Non è sufficiente dire ‘le armi chimiche sono state usate’, proprio come non era sufficiente dire che ‘i machete sono stati usati’ in Ruanda. Bisogna condannare l’utilizzatore- Assad”
Samantha Power su Twitter, ambasciatrice americana all’Onu
Il Monte Qasioun. Le caverne di questo monte, a pochi chilometri da Damasco, sono avvolte da religione e leggenda: in una avrebbe abitato Adamo, in un’altra Caino avrebbe ammazzato Abele. Oggi il monte ospita ristoranti e aree con panchine per godersi Damasco dall’alto, ma soprattutto “è il centro di gravità del regime”, come ha detto al New York Times Elias Hanna, un ex generale dell’esercito libanese che ora lavora all’Università americana di Beirut. Qui abitano e operano i fedelissimi del clan Assad, le forze speciali e soprattutto la 104esima Brigata della Guardia repubblicana di Bashar el Assad. Il compito della Guardia repubblicana è quello di proteggere la famiglia presidenziale e il suo entourage, garantendo la sicurezza del palazzo e dei quartieri vicini: il comando della Guardia è del fratello di Bashar, il famoso Maher, che però pare sia stato colpito da una bomba e ferito gravemente. Secondo alcuni esperti, il Monte Qasioun è stato scelto proprio perché è una delle roccaforti della Guardia repubblicana che potrebbe assumersi la responsabilità degli attacchi in modo indipendente rispetto al regime (manovra evidentemente pretestuosa, ma ogni sotterfugio è buono, in questa crisi). C’è naturalmente la possibilità remota che i ribelli siano riusciti a infiltrarsi in questa zona e lanciare l’attacco chimico, ma un’azione del genere avrebbe praticamente determinato la caduta del regime. Le prove di Assad. Ieri il regime di Damasco ha presentato agli alleati russi le prove degli attacchi chimici perpetrati dalle forze ribelli e Mosca ha fatto sapere che le mostrerà all’Onu. Gli ispettori avrebbero dovuto verificare e analizzare tre diversi attacchi, ma poi si sono concetrati su quello del 21 agosto. I russi sostengono che con un’analisi accurata anche degli altri episodi si potrebbe scoprire la verità, verità che il regime di Damasco custodisce e che ora ha consegnato a Mosca. Martedì sera c’è stato un incontro del Consiglio di sicurezza dell’Onu per discutere della bozza della risoluzione che prevede la consegna e la distruzione dell’arsenale chimico siriano sotto il controllo internazionale: i russi, con la complicità dei cinesi, s’oppongono all’introduzione del capitolo 7, quello secondo cui, laddove fallissero le misure previste per ottenere gli obiettivi della risoluzione, si può intervenire militarmente. Dopo l’incontro del Consiglio di sicurezza, c’è stata una conferenza stampa dei ministri degli Esteri durante la quale Sergei Lavrov, re della diplomazia di Mosca, ha detto ai giornalisti di guardare bene che cosa dice una suora libanese, che ha le prove del fatto che gli attacchi chimici sono una provocazione dei ribelli siriani ai danni di Assad. La suora si chiama Madre Agnès-Mariam de la Croix, carmelitana, ed è spesso citata nei media russi e dagli assadisti sparsi per il mondo: in particolare, ha scritto un documento di 50 pagine in cui analizza immagine per immagine i video dei bambini con la schiuma alla bocca del 21 agosto e “dimostra” che si tratta di una montatura.
“Lavrov, gran fumatore di sigari, ha volutamente ignorato gli sforzi dell’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan di vietare il fumo negli uffici delle Nazioni Unite, dicendo: non è mica suo il palazzo”.
New York Times, 17 settembre
La prima deadline. Tra due giorni scade la prima deadline concordata dal patto Lavrov- Kerry: entro sabato Damasco deve fornire un inventario del suo arsenale chimico. Ieri sono continuati i raid aerei delle forze del regime contro i ribelli in un’area vicino alla capitale. Secondo alcune fonti, i ribelli hanno abbattuto un elicottero del regime vicino a Hama. “Trovare e distruggere tutto l’arsenale chimico della Siria è difficile ma penso fattibile. Certo, sarà un lavoro stressante”. Ake Sellström, capo degli ispettori dell’Onu in Siria
Il FOGLIO - Pio Pompa : " Ecco la lista aggiornata dai sauditi con i combattenti stranieri in Siria, numero e provenienza "
Re dell'Arabia Saudita
Gli unici ad avere una lista pressoché completa degli effettivi di Jabhat al Nusra, il più temibile e organizzato gruppo armato filoqaidista schierato contro il regime di Bashar el Assad, sono i servizi segreti sauditi abilmente diretti dal principe Bandar bin Sultan. “La lista di Bandar – racconta al Foglio una fonte araba d’intelligence – oltre a consentire la visione immediata della identità, in molti casi anche fotografica, dei combattenti di al Nusra opportunamente suddivisi per nazione di provenienza, rappresenta un documento di eccezionale importanza sull’afflusso in Siria di 769 jihadisti, quasi tutti salafiti, provenienti da diversi paesi europei e, in misura ridotta, persino dagli Stati Uniti. Al primo posto figura la Gran Bretagna con 175 mujaheddin, seguita dalla Francia con 163, dalla Germania con 151, dalla Spagna con 93, dall’Italia con 54, dall’Olanda con 45, dalla Danimarca con 38, dalla Svezia con 32 e, last but not least, dagli Stati Uniti con 18 qaidisti naturalizzati. Inoltre, da informazioni in nostro possesso sembra che i servizi sauditi stiano attualmente stilando una lista del tutto simile riguardante sia i membri della formazione qaidista dello Stato islamico d’Iraq e del Levante sia degli oltre 600 miliziani salafiti provenienti dal nord Africa e facenti capo soprattutto ad al Qaida nel Maghreb islamico (Aqmi)”. In buona sostanza “la lista di Bandar” (così viene chiamata dagli uomini dell’intelligence saudita), insieme alle altre che verranno, conferma la scelta strategica adottata, specie negli ultimi dieci anni, dall’Arabia Saudita nei confronti del movimento salafita ritenuto un elemento di destabilizzazione del mondo islamico, come hanno dimostrato le varie primavere arabe e l’epilogo della recente crisi egiziana, e una minaccia per la sicurezza nazionale che va combattuta con ogni mezzo. Da qui la decisione assunta da Bandar bin Sultan di tenere sotto stretto controllo, a partire da Jabhat al Nusra, i gruppi armati salafiti e filoqaidisti, che costituiscono il nocciolo duro dello schieramento anti Assad, evitando accuratamente di rifornirli di armi e riservando tutto il sostegno militare ai ribelli ritenuti “buoni”. Non poteva essere diversamente dato che sarebbe lui l’estensore di un documento segreto, fatto circolare appositamente negli ambienti dei servizi occidentali per metterli in guardia dal pericolo costituito dalle cellule salafite presenti nei loro paesi, dove attacca duramente l’ideologia, le dottrine e i principi di tale movimento, per poi soffermarsi lungamente sull’organizzazione e sui metodi che consentono, in particolare ai salafiti-takfiri, di praticare il jihad alimentando il terrorismo internazionale. “In questo momento – continua la nostra fonte d’intelligence – Bandar bin Sultan appare assai preoccupato, specie dopo il mancato intervento americano in Siria che doveva essere diretto anche contro le milizie islamiste, dell’indifferenza mostrata da diversi servizi occidentali non solo nei confronti della causa dei ribelli siriani ma della migrazione di centinaia di jihadisti quasi tutti confluiti tra le fila di al Nusra. Per non parlare poi dell’Amministrazione Obama che avrebbe sistematicamente evitato di ascoltarlo, nonostante i profondi legami con l’America dove Bandar ha soggiornato per 22 anni come ambasciatore saudita, sulle dinamiche interne alla crisi siriana consentendo che degenerasse progressivamente fino al ricorso da parte di Assad alle armi chimiche culminato nella strage del 21 agosto. Ora i servizi sauditi stanno implementando la fornitura di armi moderne, leggere e pesanti, ai ribelli del quasi dimenticato Free Syrian Army con l’obiettivo di isolare per quanto possibile al Nusra e le altre milizie islamiste dove qualcuno parla anche l’italiano”.
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