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Abbiamo infangato Hannah Arendt ? 18/09/2013

Ho letto il pezzo dedicato alla Arendt e devo confessarvi di aver provato enorme indignazione per le semplificazioni in esso contenute. Che la figura di Hannah Arendt sia vista come una spina nel fianco da una parte della Diaspora, in virtù della Banalità  del Male, è  cosa vecchia, così come lo è l'orribile strumentalizzazione che della sua figura è stata fatta da parte della sinistra antisionista. Ma mi delude profondamente venire a sapere che la Lipstadt, che conoscevo come storica accurata e donna coraggiosa, abbia deciso di unirsi al coro delle banalitè .
Per evitare facili polemiche, premetto di aver letto molto sulla Shoah, inclusi i due tomi dello Sterminio degli ebrei d'Europa di Hilberg, oltre che lo stesso testo della Arendt e, per quel che qui soprattutto rileva, la biografia della filosofa "Per amore del Mondo". Ebbene confesso di non aver mai avvertito questo disprezzo per Israele, di cui sia la Lipstadt che Minerbi parlano nel corso dell'articolo.
Ma veniamo alle loro contestazioni, iniziando dalla più cretina (scusatemi ma non trovo altro termine per esprimere quel che penso), ovverosia la presunta degiudaificazione della famiglia Arendt-Cohn, in cui la filosofa ebbe modo di formarsi. Nessuno, tanto meno la stessa Arendt, ha mai negato che i suoi genitori fossero non religiosi. Ma di qui ad odiare se stessi, ce ne corre, ed eccome. In numerose interviste, la Arendt dichiara che sua madre era solita raccomandarle di avvisarla, qualora un'insegnante avesse osato proferire insulti antisemiti, di modo che potesse intervenire ad esercitare proteste, ma nel contempo le aveva insegnato a sbrogliarsela da sola con i suoi coetanei, senza lasciarsi mai sottomettere, sottolineando con forza di aver sempre considerato normale il suo esser ebrea, proprio perchè così i suoi parenti le avevano insegnato. Trattasi di un metodo pedagogico non molto comune tra la borghesia ebraico tedesca dell'epoca, semmai propensa a negare le proprie radici ed a sminuire i commenti antisemiti come un qualcosa di passeggere, cui non prestar considerazione.
Sia Minerbi che la Lipstadt tendono poi ad omettere (mi chiedo se in malafede) il rapporto esiziale che intercorse tra la Arendt e Kurt blumenfeld, storico leader del sionismo tedesco, da lei considerato un surrogato della figura paterna mancatale in tenera età  ed artefice del suo impegno giovanile nel movimento sionista, le dichiarazioni nette che la Arendt scrisse a Gershom Scholem nel loro carteggio infiammato sulla Banalità  del Male (in cui la filosofa ebbe a chiarire di aver sempre considerato il suo essere ebrea un dato di fatto), la sua volontà  a non assumere il cognome del secondo marito, Blucher, così da non celare le sue origini.
Non ho poi ben compreso da dove la Lipstadt tragga la sua confortante tesi di un odio d'Israele, insito nella Arendt. E' innegabile che la Arendt non avesse simpatia alcuna per la conduzione del processo da parte di Ben Gurion, ma contestare le scelte della leadership non equivale a disprezzare un intero paese.
Se la Lipstadt o Minerbi avessero avuto la pazienza di documentarsi meglio, saprebbero che nella sua corrispondenza la Arendt dichiarò sempre di aver tremato infinitamente per Israele e la sua sopravvivenza, e che negli ultimi anni della sua vita la filosofa riprese a partecipare a cerimonie ebraiche con i suoi amici.
Chiariti i punti sull'ebraicità  della Arendt vorrei passare al nodo più doloroso, ovverosia quello concernente il rapporto con Eichmann, e soprattutto con il Sionismo. Leggendo questo pezzo, sembra che la Arendt fosse una nemica del movimento, il che è una falsità  storica. Tralasciando il suo attivismo nelle organizzazioni sioniste, sono il primo ad affermare che la Arendt ebbe con la leadership sionista un rapporto tormentato, non condividendone le scelte di approccio col mondo arabo. Il suo pezzo Riconsiderare il Sionismo venne da molti considerato un tradimento della causa, e le attirò inimicizie che esplosero in pieno con la pubblicazione di Eichmann a Gerusalemme.
Indubbiamente le tesi arendtiane sulle scelte perseguite dalla leadership sionista possono non piacere (e difatti non piacciono nemmeno a me), ma vorrei ricordare che l'analisi in questione non mirava affatto a negare le basi del movimento, che la Arendt non disconobbe mai, quanto a darne una diversa lettura, in un quadro di analisi democratico.
La Lipstadt potrà  legittimamente esser critica di simili posizioni, ma questo non le da il diritto di tacciare la sua autrice di odio anti israeliano, a meno che non voglia approdare nel campo delle dietrologie psicologiche.
Tra l'altro, sempre ad attestare la sua carenza di documentazione, la Arendt censurò molte frasi pronunciate da Ben Gurion, relative al diritto all'autodifesa degli ebrei, e che pur essendo giuste presentavano toni tali da poter esser strumentalizzati. Fosse stata così anti israeliana, avrebbe avuto buon gioco ad citarle nella loro completezza, utilizzando il suo eccezionale talento descrittivo. Veniamo infine al nucleo della questione, ovverosia il ritratto di Eichmann fatto dalla Arendt, con il corollario relativo agli Judenrate. Personalmente, non sono mai stato un fanatico assertore della valenza assoluta della teoria filosofica insita nel reportage (che invece la Lipstadt sembra curiosamente avallare), non foss'altro che l'animo umano è ontologicamente unico ed irripetibile per prestarsi a simili universalismi. Le stesse lettere di Karl Jaspers, mentore filosofico della Arendt, attestano irrevocabilmente che molti suoi amici non erano convinti dell'assenza di un male assoluto. Semplicemente, a differenza della Lipstadt e di Minerbi, ritenevano legittimo consentire al prossimo di formarsi una propria concezione sulla questione, sulla scia del lessinghiano pensare autonomamente. Ancora più assurda è poi l'accusa lanciata dalla Lipstadt alla Arendt, relativamente alla questione degli Judenrate, specie alla luce della documentazione e della corrispondenza oggi disponibile. La Lipstadt non sa forse che persino la biografa della Arendt ha tranquillamente dichiarato che uno dei suoi più clamorosi errori fu quello di trattare sommariamente il punto, omettendo considerazioni invece presenti nel suo epistolario. Ai suoi amici, la Arendt scrisse sempre di considerare essenziale tracciare una linea oltre la quale non era più possibile pretendere che gli ebrei agissero per difendersi. Agli amici d'Informazione vorrei sottolineare che, oltre tutto, fu proprio la Arendt una delle prime a scrivere, nelle Origini del Totalitarismo, pagine toccanti sull'impossibilità  morale di scelta, per gli ebrei intrappolati nell'Europa Nazista. Quando la scelta è tra la morte tra atroci sofferenze dei tuoi cari e di te stesso, e quella di un tuo amico, nessuno può ritenersi vincolato agli ordinari canoni morali. Quest'idea fu formulata per la prima volta proprio nelle Origini del Totalitarismo, ad attestare che la Arendt aveva ben presente la sofferenza del suo popolo. Quel che però non riteneva tollerabile era la collaborazione della dirigenza ebraica protratta sino al punto di non ritorno.
Ho trovato amaramente divertente la voluta omissione, nel pezzo da voi tradotto, all'Affaire Kastner, concernente l'ebreo ungherese, dirigente israeliano, che non aveva esitato a condannare a morte centinaia di migliaia di suoi correligionari per salvare la pelle a sè ed ai suoi cari, e che invece la Arendt riporta nel suo reportage, insieme alle testimonianze della resistenza ebraica; se Minerbi ritiene che la fedeltà assoluta al suo popolo debba esser tale da omettere la condanna degli assassini e dei collaborazionisti che possano celarsi tra gli ebrei, allora c'è da che preoccuparsi sulla tenuta morale della nazione israeliana. So che quanto ho scritto può suonare irritante, ma ho ritenuto necessario esporvi il mio allarme per un pezzo poco obiettivo.
Criticare la Arendt è legittimo, in un gioco democratico, ma la critica non deve trascendere nella menzogna e nel linciaggio morale. Ed accusare la Arendt di odiare se stessa ed Israele è  ridicolo, non foss'altro che la sua esistenza, il suo carteggio e la sua condotta attestano ben altro. Utilizzare la Banalità del Male come metro di giudizio della sua intera opera non soltanto è¨ moralmente abietto, ma anche intellettualmente offensivo. La Arendt non è stata una sionista di ferro, ed ha espresso giudizi molto divisivi e controversi, ma non può essere paragonata ad una Naomi Klein. Fu una sionista di sinistra, ed un'ebrea incapace di evitare la rottura di dolorosi taboo, ma ciò non toglie che rimase pur sempre una figlia del proprio popolo. Il mio auguro è che il vostro sito possa quanto prima ospitare qualche articolo un po' più equo al riguardo.
Vi rendereste conto che in questo caso si è di fronte ad una figura meno semplicistica di quanto ci si possa attendere.

Giuseppe Gigliotti

Hannah Arendt fu molto criticata per le sue corrispondenze sul processo Eichmann, uscite  sul settimanale americano The New Yorker. Quelle parole, diventate poi famose, "la banalità del male", influenzarono in modo negativo il progetto che Ben Gurion aveva in mente quando capì che occorreva far conoscere al mondo la reale dimensione della Shoah, ancora largamente sconosciuta agli inizi degli anni '60. L'interpretazione che diede la Arendt - con l'aggiunta degli attacchi alla conduzione dello stesso processo- causarono un danno enorme alla azione di informazione che il goveno israeliano si proponeva. E' questa l'accusa, e non altre, che appartenevano in fondo alla sua vita privata, ad avere oscurato la sua immagine di ebrea.
Sergio Itzak Minerbi seguì quotidianamente il processo, ne tu lucido e corretto testimone,  fu prova il libro che scrisse - "la belva in gabbia"- ristampato di recente. Minerbi divenne poi lo storico conosciuto e rispettato come lo studioso più esperto del rapporto Isarele-Vaticano, materia che segue tuttora con commenti e analisi pubblicati sulle riviste internazionali più prestigiose. IC ha pubblicato questo suo intervento estremamente equilibrato sulla figura di Hannah Arendt con l'intento di fornire ai propri lettori un'opinione che aiuti a meglio comprendere il film in uscita quest'autunno di Margarethe von Trotta sulla filosofa tedesco-americana. Non l'abbiamo ancora visto, ma conoscendo le opere precedenti della regista tedesca, riteniamo utili gli argomenti contenuti nel commento di Minerbi, così come quelli della storica americana Deborah Lipstadt, il cui libro su Eichmann - purtroppo non tradotto in italiano - vinse il National Jewish Book Award quando uscì.
IC redazione


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