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Il Foglio Rassegna Stampa
18.09.2013 Vladimir Putin ha ribaltato la percezione nel mondo degli Usa
con l'aiuto di Barack Obama. Commento di Mark Steyn

Testata: Il Foglio
Data: 18 settembre 2013
Pagina: 5
Autore: Mark Steyn
Titolo: «L'audacia di Vlad»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 18/09/2013, a pag. I, l'articolo di Mark Steyn dal titolo "L'audacia di Vlad".


Mark Steyn          Vladimir Putin

Per generazioni, le più prestigiose penne del New York Times sono andate in estasi per gli uomini forti stranieri, dall’elogio dell’utopia stalinista di Walter Duranty, vincitore del Pulitzer, alle più recenti effusioni di Thomas Friedman con l’“illuminato” Politburo cinese. Quindi era inevitabile che il Times, privo di fondi, escogitasse un modo per eliminare l’intermediario e andasse direttamente al dittatore. Ed ecco spiegato l’impressionante debutto di Vladimir Putin con il suo op-ed della scorsa settimana. Mi secca ammettere che Vlad fa l’opinionista molto meglio di quanto io potrei fare il torturatore del Kgb. La sua “richiesta di cautela” è una parodia squisita, magistralmente scritta, dei luoghi comuni liberal, molto migliore di ciò che può attualmente produrre gran parte dei redattori del Times. Parla bene dell’Onu e della legge internazionale, è messo in allarme da un possibile intervento militare americano, e si preoccupa del fatto che l’America non venga più vista come un “modello di democrazia” ma come un insieme di cowboy inaffidabili “che cercano di raffazzonare coalizioni al suono di ‘siete con noi o contro di noi’”.
Mette in guardia dal vantarsi troppo dell’“eccezionalismo americano”, sottolineando, come succede alle elementari, che nella comunità internazionale ognuno è eccezionale a modo suo. Il lettore medio del Times trova tutto ciò del tutto normale. E’ il tipo di cosa che avrebbe potuto scrivere cinque anni fa un giovane senatore Obama. Putin si è persino appropriato del luogo comune preferito di Obama nel 2008: “Dobbiamo lavorare assieme per mantenere viva la speranza”. Nella breve biografia alla fine, gli editor del Times ci informano che “Vladimir V. Putin è il presidente della Russia”. Ma a questo punto, non sarebbe stato sorprendente leggere: “Vladimir V. Putin è l’autore di “L’Audacia di Vlad”, un memoir che sarà presentato a una colazione sull’erba ad Ames, Iowa, questo weekend”.
Come ha riassunto Iowahawk, Putin “fa sgommate con il suo Suv nel giardino davanti casa di Obama”. Diamo per assodato che Putin non abbia scritto il pezzo di suo pugno, non più di quanto Obama abbia scritto quella marea di sciocchezze nelle quali stava affogando quando è apparso su tutti i media per perorare la causa dell’urgenza impetuosa di fare qualcosa, dopo il gas contro i bimbi siriani – ma ecco, tra un attimino. Entrambi usano dei ghostwriter, ma quelli di Putin sono molto meglio – e l’inglese non è nemmeno la loro lingua madre! Con il suo op-ed lo zar Vlad sta dicendo a Obama: il mondo sa che non hai idea di come si gioca il Grande Gioco, che nemmeno sai cos’è, ma io posso prenderti a calci in culo quando voglio anche nell’unico gioco solipsistico parrocchiale da sfigato che conosci. Questo è quello che succede quando eleggi qualcuno solo perché sembra cool in piedi vicino a Jay-Z. Putin è cool quanto Yakutsk in febbraio.
In termini di cultura pop americana, è una figura vagamente ridicola, con la sua inclinazione per le canottiere omoerotiche, i capezzoli ritti che entrano per primi nella stanza come un team per la sicurezza; le celebrità che attrae sono come un canale di repliche di serie B: Goldie Hawn era fra la folla quando Putin ha iniziato a cantare “I found my thrill on Blueberry Hill”, che pare sia molto piaciuta a Goldie. In realtà, Putin il suo “thrill” lo trova nell’afferrare i mirtilli di Obama e stringerli forte. Il freddo batte il cool. Charles Crawford, ex ambasciatore britannico in Serbia e Polonia, ha definito lo scorso lunedì (quello del patto sulle armi chimiche di Assad) “il giorno peggiore per la diplomazia americana e di tutto l’occidente da quando è iniziata questa storia”. Obama l’ha preparato lo scorso anno, in una conferenza stampa nella quale ha tracciato la famosa “linea rossa”. A differenza della ressa scatenata che si accalca attorno ai primi ministri del Canada o dell’Australia, Obama non interagisce tanto con la stampa per evitare di sembrare normale o reale. Quindi a questa rara conferenza stampa stava, come al solito, giocando al leader che indice una conferenza stampa. La frase “linea rossa” suona come una battuta di un tizio che interpreta il ruolo del presidente in un film – magari Harrison Ford in “Air Force One” o Michael Douglas ne “Il presidente”. Non gli è passato per la testa che là fuori nel mondo, oltre la Repubblica della Figaggine, avrebbe dovuto tracciare una linea rossa reale, e che un dittatore da due soldi l’avrebbe attraversata impunemente. Quindi, per la maggior parte del tempo lo scorso mese, l’establishment bipartisan ci ha assicurato che dobbiamo lanciare missili contro una nazione sovrana, non importa se riusciremo a combinare qualcosa, perché “è in gioco la credibilità americana”. Questa è diplomazia, per i postmoderni: più dici al mondo che devi bombardare la Siria per conservare la tua credibilità, meno credibile sarà qualsiasi strike – specialmente quando i tuoi leader si riducono a negoziare il preciso grado di inefficacia militare necessario per mantenere quella credibilità.
A Londra il segretario di stato americano, John Kerry, ha coronato la sua impressionante raccolta di frasi musicali assicurando il suo pubblico che la devastazione militare che la superpotenza infliggerà ad Assad sarebbe stata “incredibilmente piccola”. Il problema è che sarà anche credibilmente piccola. Il compianto Milton Berle, contestato per il suo spettacolare e chiacchierato budget, diceva sempre che avrebbe chiesto solo il necessario per vincere. A Londra, Kerry ha chiesto giusto il necessario per perdere. Nella stagione obamiana, l’America chiacchiera incessantemente ma non porta a termine. Putin ha visto un’apertura, e ha offerto un “piano” così assurdo che persino gli eunuchi della corte mediatica di Obama hanno fatto fatica a mandarlo giù. Un mese fa, Assad era un vituperato criminale di guerra, e Putin quello che gli vendeva le armi. Ora Putin è l’onesto mediatore, partner di Obama per la pace, e il criminale di guerra si siede al tavolo dei negoziati con le migliori chance di sopravvivere mai avute da un anno a questa parte. Lo stesso giorno nel quale gli Stati Uniti hanno annunciato che avrebbero fornito ai ribelli siriani armi leggere e kit medici avanzati, la Russia ha annunciato che avrebbe fornito agli amichetti di Assad in Iran gli S-300, sistemi di armi terra-aria e un altro reattore nucleare. Putin ha ottenuto qualcosa di incredibile: ha permesso a Washington di santificarlo come custode ufficiale della pace nella comunità internazionale, anche se continua ad aiutare l’Iran con il programma nucleare e a mantenere il suo cliente siriano nel palazzo presidenziale, immerso nel sangue del suo popolo. Putin e Assad stanno già surclassando quel poveraccio di Kerry, il cui viso al botox incarna fin troppo bene lo stato costosamente imbalsamato della superpotenza. Per quanto riguarda la sparata sull’eccezionalismo americano, Putin non stava tanto attaccando il concetto quanto l’invocazione opportunista di Obama di usarlo come giustificazione per l’azione militare in Siria. Ciononostante, sia i democratici sia i repubblicani hanno abboccato. Ansioso di riaggiustare le cose con la base dopo la legge sull’amnistia, Marco Rubio ha insistito sulla National Review Online che l’America era ancora, ecco, totalmente eccezionale. Mi spiace, ma questo non è accettabile nemmeno come la sciocchezza scritta senza pensare da un membro dello staff. Non è il momento – non quando sei la barzelletta del mondo, non quando ogni alleato americano sta urlando di imbarazzo per l’atteggiamento amatoriale dimostrato nell’ultimo mese.
Nessuno, amico o nemico, vuol sentire parlare di eccezionalismo americano quando il problema è l’inutilità americana. Alla Cbs, Bashar el Assad ha definito il governo americano “Amministrazione social-media”. Anche lui ha un ghostwriter migliore di Obama. L’America corre il rischio di essere la prima grande potenza a essere derisa sul piano mondiale. Quando il presidente è un narcisista irrilevante e il suo segretario di stato un vanaglorioso buffone, Marco Rubio non dovrebbe dire al mondo “tranquilli, anche l’altro partito è una banda di pagliacci”.

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