Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 15/09/2013, a pag. 4, l'articolo di Domenico Quirico dal titolo " Bugiardi, crudeli e fanatici. Ora mi sono indifferenti ".
Domenico Quirico
Quando li ricordo, ora che sono libero, mi sembra di avere una macina al collo. Le vittime hanno, per vendicarsi, una prima arma: la memoria. Erano, sono rivo- Qluzionari fanatici briganti: tutti egualmente con la vernice della slealtà, il gusto della bugia.
Le bugie e gli incubi di Walid È stato un bene che il primo mattino di prigionia Walid fosse là, lui e non un altro. È stata una carta uscita per azzardo dal mazzo, una carta fortunata, Walid: nonostante le sue bugie infinite («tra cinque giorni sarete liberi…» e sono stati cinque mesi; «noi siamo uomini dell’esercito, io sono un poliziotto di Assad…», ed erano disertori e ribelli e banditi; «vi darò un telefonino per chiamare la vostra famiglia, domani mattina...» e la mattina dopo è scomparso). Walid con i suoi formaggini, il suo piatto di riso fatto di avanzi, i suoi pezzi di pane secco: non era un padrone di casa munifico, Walid, ci faceva patire la fame.
Ma è stato lui che mi ha insegnato come non sporcarmi i piedi quando entravo nella melma della toilet sudicia e che, bendato, mi teneva la mano per salire i gradini che conducevano alla prigione, come un vecchio malato o come un bambino. E sì, è stato un bene che all’inizio fosse Walid. Un ragazzo, un’età in cui molte cose non si temono, il tempo e la morte e tutte le cose che ti possono capitare. Eppure, in lui, nei suoi occhi scuri, la vita era già stata ridotta ai minimi termini da due anni di guerra infernale, c’era tutto, la gioia, la speranza, la vanità, ma ridotte in linee sottilissime. Dopo tre giorni dipendevamo già da lui, se non si presentava ci inquietavamo e le sue assenze erano lunghe. La sua voce, con le poche parole d’inglese, e forse l’avevano scelto come carceriere per questo, continuava sempre mite, risoluta, inflessibilmente dolce. Finché, una sera, è entrato nella nostra cella e si è gettato, senza nemmeno guardarci, su un pagliericcio. Telefonava a sua madre. Improvvisamente è scoppiato a piangere, sì, il nostro carceriere piangeva: senza lacrime, con un rumore come di qualcosa chiuso in trappola che vuol essere liberato. Anche lui come noi con l’inconscio pieno di incubi, era nella morsa del peccato imperdonabile, la disperazione. Perché in Siria, non bisogna dimenticarlo, se dai una calcio alla terra sprizza sangue e dolore.
I due volti di Handu. E poi ci fu Handu. Era grosso, grasso, il volto di un bamboccio in cui la cattiveria si alternava a fanciullesca innocenza e a monellesca furbizia. Mi faceva paura all’inizio, spuntava dalla finestra della mia prigione come una bestia che frusciando mostri il proprio muso al di là di una siepe: mi ordinava, minacciando, di ripetere complicate parole arabe e se sbagliavo gli accenti mulinava un bastone. E questo fu il primo Handu.
Dopo, quando ero chiuso in un’altra prigione, è ricomparso e stavolta mi faceva ridere. Handu che aveva l’età di mia figlia, che mi portava fuori, per la prima volta, pochi minuti a vedere il sole e gli uccelli che volavano in cielo. Handu che si gettava a terra e si rotolava e faceva il buffone. Come vorrei odiarlo per tutto il male che mi ha fatto, per la primavera e l’estate che mi ha portato via, e che nessuno potrà mai restituirmi, ma non posso farlo perché so che odiava nella mia sofferenza la sua sofferenza, come è nella natura dell’uomo. Avrei voluto amarlo Handu, ma anche questo non potevo farlo perché lui era un uomo libero e io un prigioniero. È sparito una notte, in mezzo alla folla dei ribelli, ombre smaltate di polvere, nell’aria piena del rombo delle esplosioni, con quella vibrazione lunga che segue gli schianti rauchi del artiglierie. Un giorno forse potrò stringerti la mano, Handu, perché mi hai fatto ridere e hai reso più lieve la mia pena, un giorno, chissà.
L’uomo che voleva convertirmi Alal era alto sottile, la barba alla Bin Laden, curata e colorata con l’enneh (ma lui, vanitoso, diceva che era naturale). Alal regnava su uno dei miei luoghi di prigione, una povera fattoria, un piccolo gregge, qualche gallina, un gatto rosso e un pugno di ribelli campagnoli che si inchinavano al suo sapere di ex studente di città: «il principe dei montoni» lo chiamavamo noi, suoi prigionieri. Lo hanno ben lavorato gli islamisti, Alal, a poco a poco hanno riempito ogni cellula delle loro bugie fanatiche, di quanto è necessario per abbuiare il mondo e ora gli calzano come un guanto ben fatto. Di cui non potrà mai liberarsi. Mi ha proposto di leggermi brani del Corano e li ha modulati cantando come solo i veri dotti sanno fare. E ha tentato di convincermi che Gesù era fatto di terra come Adamo: «perché è scritto nel Libro e i vangeli sono solo bugie».
«Il Lungo» sognava l’Afghanistan Accanto a lui spuntava sempre quello che avevamo ribattezzato «il Lungo»: nel volto una calma da agguato, una piega assorta nella quale vegliava l’attenzione infallibile dell’uomo che sta per balzare tra un istante sulla sua preda. Elegante nella galabia blu che si era fatta tagliare dal sarto di Al Qusayr per assomigliare agli «afghani» veri e quella divisa era il suo salvacondotto rassicurante. Faceva il giardiniere mille anni fa, prima della rivoluzione, il suo fiore preferito i tulipani. «Il Lungo» forse non aveva mai ucciso di persona ma appena si parlava di questo e di quello, allora i suoi occhi si levavano dal mate e la voce stridula cominciava a dare ordini per trasformare la colpevole carne dei nemici di Dio in una cenere purificatrice: un alauita? Uccidere! Un cristiano? Eliminare!
Il torturatore più crudele E poi c’era Samir: i denti guasti, il viso di una magrezza floscia e cascante, «l’infame» lo chiamavamo, sempre pronto a inventare astuzie per lasciarci con il cuore asciutto e desolato. Il nostro torturatore più efficace e crudele. Samir (ma non solo lui) ci chiedeva notizie: delle ragazzine occidentali («14, 15 anni non di più...») che voleva prendere e portarsi a letto. Diceva di essere il mio «maestro»: mi insegnava l’arabo ma quando sbagliavo mi bastonava sulla mani. Era povero prima della rivoluzione. La sua rivoluzione era la bella casa dove eravamo prigionieri. In un cassetto nella mia cella ho trovato una copia dei vangeli in arabo; e un quaderno di una bimba, un diario, su alcune pagine il disegno di cuori trafitti, i primi segreti della vita. Samir mi ha rivelato che quella casa era di cristiani «sostenitori di Assad»: li aveva uccisi lui stesso e mi ha indicato il luogo in cui li aveva sepolti, sotto un melo del giardino. L’aria era tiepida quel giorno, il grano ondeggiava al vento, i campi mandavano un fruscio di seta.
Per noi era solo «l’assassino» Di Abdallah detto il saggio, ma che per noi era «l’assassino», non v’è scampolo o campione che basti a restituirmene anche il minimo aroma di pietà: è l’uomo che per due volte ha finto di uccidermi puntandomi la pistola carica alla tempia. La barba arrogante le grosse labbra il naso volgare la fronte caparbia, demiurgo di tutto il male che ho subito, maestro probabilmente di irriferibili orrori. Anche lui è scomparso nella ritirata e qualcuno mi ha detto che era caduto nella mani di Hezbollah, il partito di Satana come i ribelli chiamano le milizie libanesi. Allora ho ricordato quando si vantava di aver, prima di sgozzarli, tagliato le dita a due prigionieri sciiti... Forse solo per lui ho un odio silenzioso ma cupo, un odio che forse in quei giorni mi ha aiutato a tirar avanti.
L’adolescente islamista Karà era un islamista poco più che adolescente, dagli occhi di cane malato. La vista di un mio ginocchio nudo lo turbava come una bestemmia (un ginocchio!). Mi mostrava spesso un coltello, il manico di legno, la lama ricurva come quello che i contadini delle mie campagne usano per gli innesti. «È per te , cristiano», e guardava, goloso, mentre per terra, su un tappeto sudicio di mosche, mangiavo i resti del suo pasto che mi aveva gettato. Non sa sorridere non ha mai sorriso. Pregava spesso, Karà, qual è il suo dio, che cosa gli offre? Un dio che non conosce il rimorso, per cui l’uomo inseguito che gli chiede aiuto non è il prossimo da amare come se stesso.
Dalla prigionia alla libertà I miei ultimi quattro carcerieri non mi avevano colpito, manovali del crimine, perfino intorno alla loro crudeltà il pathos mi sembrava superficiale. Ahmad, il capo, «il Grosso», un’aria sorniona e torbida quasi animale; polsi di quercia e dita di acciaio che facevano male quando picchiava. Mohamed, uno sciupafemmine finto-islamico, le braccia depilate i capelli sempre in ordine. E Abdallah: che in carcere c’era stato una volta ma non per motivi politici ma per una rissa di strada. Sembrava il più mite: fino al giorno in cui al mio compagno di prigionia che chiedeva, per pietà, di poter telefonare ai genitori anziani, ha raccontato che il padre era morto. Ed era, per fortuna, una bugia. E infine Rahmad, che chiamavamo «pancetta»: grasso tondo e sempre intento a masticare qualcosa con la fame eterna di chi è stato povero e non sa che cosa avrà nel piatto. Poi, un giorno, ho rubato due bombe a mano ai miei carcerieri distratti e ho scoperto che avevo in mano la loro vita. Il destino aveva mischiato le carte: loro continuavano a umiliarmi, deridermi e non sapevano che potevo ridurli in pezzi con un semplice gesto. La granate non le ho mai lanciate e i quattro mi hanno accompagnato sghignazzando alla frontiera dove sono tornato libero. Li odio? Li perdono? La grande legge di ogni vera giustizia è proporzionare il castigo alla colpa. Per ora scopro l’indifferenza, il tremendo distacco di coloro che hanno abbracciato il Male.
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