Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 14/09/2013, a pag.14, con il titolo " 'No ai raid, Erdogan guerrafondaio' e nelle piazze turche torna il sangue" la cronaca di Marco Ansaldo.
Marco Ansaldo
Tutto come prima. La polizia da una parte — gas lacrimogeni, pompe idranti, proiettili di gomma — e i dimostranti contro il governo islamico dall’altra: in corteo, a mani nude. Ovunque, in Turchia: a Istanbul, Ankara, Eskishehir. Come dire, ai punti cardinali del Paese.
Ad Antakya, a sud, l’Antiochia di antica memoria, c’è scappato il morto: un giovane di 22 anni, che le autorità insistono a sostenere sia caduto dal tetto, mentre invece è stato colpito da una bombola lacrimogena. Il sesto ucciso dalla rivolta di fine maggio, quando per venti giorni decine di città sono scese in piazza per manifestare contro l’autoritarismo e le imposizioni religiose del premier Tayyip Erdogan.
Non è un caso che l’ultima vittima venga da una città al confine della Siria. È qui che il governo di Ankara sta misurando il suo braccio di ferro con Stati Uniti ed Europa per impedire lo strabordante arrivo di profughi. Ma soprattutto per contare di più nella regione. Erdogan vuole a tutti i costi la guerra contro Damasco. E ora che Barack Obama frena, e l’Unione Europea medita, i pruriti guerrafondai di un leader in
improvvisa crisi d’immagine mettono in imbarazzo un intero Paese. La cui opinione pubblica (“No ai raid” è uno degli slogan) è contraria all’intervento.
Per domani pomeriggio Istanbul ha convocato una grande manifestazione. I forum online, i tam tam delle radio, le assemblee pubbliche nei quartieri nate dopo lo sgombero del Parco Gezi a metà giugno, hanno adesso
individuato nel quartiere di Kadikoy il nuovo centro della mobilitazione. Tenteranno di raggiungere l’ormai nota Piazza Taksim, off limits per i gruppi organizzati. Il malessere della Turchia però si è aggravato. Riflette la sua ombra sulla crisi siriana e si allunga sulle incertezze dello stesso primo ministro. L’altro giorno Erdogan ha reagito nel consueto modo sprezzante alla
titubanze americane sui raid anti Damasco. Ma è solo l’ultima scarica di nervoso che gli è toccata dopo una nutrita serie di colpi che stanno minando la sua sicurezza e protervia.
Non più tardi di una settimana fa, in prima fila al Comitato Olimpico, ha dovuto mettere su una faccia di circostanza applaudendo mestamente Tokyo scelta al posto di Istanbul per i
Giochi del 2020. La metropoli sul Bosforo, a dire il vero, nell’ultimo periodo aveva accelerato molto nel soddisfare i livelli richiesti per ospitare le Olimpiadi. Ma la decisione del premier di reprimere nel sangue la rivolta ha mutato drasticamente gli umori, facendo planare i voti verso la candidata giapponese, solo 6 mesi fa data per spacciata. E ora il governo turco addossa le responsabilità del fallimento sui manifestanti di Piazza Taksim. Domani c’è da stare certi che non ci andranno teneri nell’affrontarli per strada.
Le sventure, però, non arrivano mai da sole. E l’altro giorno il Pkk, protagonista di un possibile accordo storico per chiudere la partita dei trent’anni di guerra con l’etnia curda, ha deciso di fermare l’intesa. I ribelli telediretti da Abdullah Ocalan nell’isola- prigione di Imrali dicono che il processo di pace non fa passi avanti. Anche l’economia, fiore all’occhiello per 10 anni, non tira più come prima: il Pil cala, la lira perde terreno, la disoccupazione morde. E il leader turco appare come un pugile all’angolo, sotto una gragnuola di colpi. Eppure capace di contrattaccare.
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