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Informazione Corretta Rassegna Stampa
14.09.2013 Il caso Hannah Arendt
Commento di Sergio I.Minerbi

Testata: Informazione Corretta
Data: 14 settembre 2013
Pagina: 1
Autore: Sergio I.Minerbi
Titolo: «Il caso Hanna Arendt»

Sergio I.Minerbi e Hannah Arendt erano entrambi a Gerusalemme per seguire, da giornalisti, il processo Eichmann. Arendt scrisse "La banalità del male", Minerbi "La belva in gabbia", recentemente ristampato.
Il libro di Hannah Arendt diede origine a molte polemiche, che ritorneranno di attualità quando tra non molto verrà proiettato nei cinema il film di Margarethe von Trotta dal titolo, appunto, "Hannah Arendt".
Pensiamo di fare cosa utile ai nostri lettori pubblicando questo testo inedito ( finora disponibile solo in inglese) di Sergio Itzak Minerbi, che inquadra l'affare Arendt non trascurando le luci (poche) nè le ombre (molte).

Il caso Hannah Arendt
Commento di Sergio I. Minerbi
(Traduzione di Yehudit Weisz)

Hannah Arendt locandina del film

Sergio Itzak Minerbi

Deborah E. Lipstadt, docente di Storia moderna ebraica e Shoah dell’Università Emory ad Atlanta, in Georgia, ha vinto un processo davanti alla Corte di Giustizia di Londra contro David Irving,uno dei più accaniti negazionisti della Shoah. Il processo ebbe inizio l’11 gennaio del 2000 e terminò l’11 aprile dello stesso anno, con la vittoria della Prof. Lipstadt. IL PROCESSO EICHMANN di Deborah E. Lipstadt (Ed.Nextbook, Schocken, New York, 2011, 237 pagine)
Il giudice sentenziò che Irving è “un attivo negazionista della Shoah”, antisemita e razzista. L’importanza del processo sta nell’aver dimostrato come gli antisemiti manipolano la storia. Irving aveva dichiarato, tra altre analoghe affermazioni, che “morirono più donne sui sedili posteriori dell’auto di Edward Kennedy di quante morirono nelle camere a gas ad Auschwitz”.
Nel suo libro, la Prof. Lipstadt scrive che Irving aveva affermato che “nessun documento dimostra che ci sia mai stata la Shoah” e che “non sono mai state usate camere a gas per uccidere sistematicamente gli ebrei, sostenendo che non era mai stato approvato alcun progetto del Terzo Reich per l’eliminazione degli ebrei d’Europa”.
Secondo la Legge britannica, la prof. Lipstadt ha dovuto dimostrare la verità di quel che aveva scritto. Le affermazioni di Irving arrivarono all’assurdo quando disse che non ci furono assassini di massa durante la Shoah.
Lipstadt aveva ricevuto dalla Corte Suprema israeliana parte delle registrazioni del processo di Eichmann, in cui confermava, in quanto membro del sistema tedesco, che gli assassini di massa erano veramente esistiti.
Lei scrisse: “Il testo rivela un uomo che considerava i leader nazisti come suoi ‘idoli’ e che era totalmente impegnato a raggiungere i loro scopi”.
I negazionisti, lei scrisse, “costruiscono le loro pseudo-argomentazioni sulla base di stereotipi e immagini dell’antisemitismo tradizionale. Sostengono che gli ebrei hanno creato il mito della Shoah per estorcere miliardi di dollari ai tedeschi e garantirsi la fondazione dello Stato di Israele”.
La Prof. Lipstadt si è rifiutata di avvalersi delle testimonianze di sopravvissuti, dal momento che nessun testimone era necessario per “dimostrare” i fatti.
La questione più importante che l’autrice ha affrontato nel suo libro riguarda la personalità e le idee di Hannah Arendt.
Oggi, in alcuni ambienti, si tende ad accettare la tesi di Hannah Arendt, secondo cui i maggiori responsabili del massacro furono gli stessi ebrei. Questa assurda conclusione la si può cogliere nel libro di Arendt “Eichmann a Gerusalemme: la banalità del male”, pubblicato nel 1963. Questo libro è stato tradotto e largamente diffuso in Europa, dove ai discendenti degli assassini tedeschi fa comodo adottare l’opinione della Arendt per sostenere che sono stati gli stessi ebrei responsabili del proprio massacro.
Di recente è uscito un film della regista tedesca Margarethe von Trotta, dal titolo “Hanna Arendt”. In vari articoli apparsi su “The New Yorker” aveva espresso la sua convinzione che Eichmann non fosse un mostro, ma un uomo “terribilmente e spaventosamente normale”. Da questa affermazione la Arendt aveva tratto il titolo del suo libro sulla banalità del male.
Nel settimanale tedesco “Der Spiegel”, Elke Schmitter scrisse che “Arendt evidentemente aveva dimenticato il vero Eichmann, un fanatico antisemita”.
Il New York Times cita il Prof. David Owen, dell’Università di Southampton: “Mentre Arendt con la tesi della banalità del male ha avuto una fondamentale intuizione di filosofia morale, è quasi certo che si è sbagliata a proposito di Eichmann.”
Secondo la Prof. Lipstadt, Arendt è stata il prodotto “di una ricca famiglia ebraica tedesca di alto livello culturale, ma nella quale non si pronunciava mai la parola ‘ebreo’”.
Secondo Arendt – scrive Lipstadt - Eichmann sosteneva il progetto sionista di concentrare gli ebrei in Madagascar. Arendt attacca anche gli ‘Judenrat’, la dirigenza ebraica nei paesi europei sotto l’occupazione nazista. Naturalmente non tutti gli ebrei sono stati eroi, soprattutto quando si trattava di sacrificare le proprie famiglie. “Il fatto che Arendt sperasse che il processo di Eichmann avrebbe fatto luce sulla natura del totalitarismo, la mise immediatamente in disaccordo con Ben Gurion e il giudice Hausner. Lei voleva che il processo spiegasse come queste società fossero riuscite a indurre altri a eseguire i loro atroci comandi, mentre il processo puntava un raggio laser sulle colpe della Germania nazista contro il popolo ebraico”.
Lipstadt ricorda che “nei suoi articoli sul processo” Arendt “aveva espresso un personale disprezzo per Israele ai limiti dell’antisemitismo e del razzismo”, lamentando che a Gerusalemme “era difficile trovare gente onesta e pulita”. Inoltre secondo Arendt “il processo avrebbe dovuto essere istruito in modo ristretto e formale, mentre Hausner lo voleva il più possibile allargato.
Riteneva che il processo avrebbe dovuto limitarsi alle azioni di Eichmann, non alle sofferenze degli ebrei, e neppure all’antisemitismo e al razzismo”.
Un paio d’anni fa, a Haifa tenni una conferenza sul processo Eichmann. Una giovane signora italiana continuò a disturbare e a interrompermi con veemenza. Ammise che sulla Shoah aveva letto solo questo libro di Arendt, ma era profondamente convinta di aver trovato l’unica verità storica, molto comoda per lei poiché sono accusati gli ebrei, non i tedeschi o quegli italiani che avevano cooperato al loro sterminio.
Lipstadt scrive che “Arendt considerava il processo un ‘incontro di massa’ orchestrato da Ben Gurion e realizzato da Hausner, finalizzato ad affermare l’ideologia sionista”.
Lipstadt sottolinea l’odio degli ebrei tedeschi verso gli ebrei dell’est europeo e il fatto che Arendt aveva dimenticato di “avere dei nonni russi e che sua madre parlasse tedesco con accento russo”. Arendt “mostrava un particolare disprezzo nei confronti della polizia israeliana, che in maggioranza aveva origini mediorientali”. Accusava i sionisti di “parlare un linguaggio non del tutto diverso da quello di Eichmann”. Per Arendt, lui era un sionista, e il suo progetto di un insediamento in Madagascar era un segno evidente di una politica in favore del sionismo. Arendt raggiunse l’apice delle sue critiche con l’ attacco agli Judenrat, i Consigli ebraici." Il loro comportamento "– ha scritto – "è stato patetico e sordido, il capitolo più buio della Shoah, più buio dei massacri e delle camere a gas “.
Faceva finta di non sapere che nel 1941-42 in Ucraina i nazisti avevano ucciso tra uno e due milioni di ebrei senza che esistessero gli Judenrat. Inoltre Arendt “aveva preso di mira i Sonderkommando, quegli ebrei selezionati per il trasporto dei cadaveri nelle camere a gas”, e aggiunse, senza prove storiche, che “le SS avevano scelto ‘gli elementi criminali per quel lavoro’”.
Questo è completamente falso, come ebbi io stesso modo di appurare quando incontrai Martino Godelli, un giovane triestino, che era stato destinato a quel lavoro ad Auschwitz.
Lipstadt cita, a questo proposito, Primo Levi che scrisse: “Nessuno è autorizzato a giudicarli. Inviterei chiunque osasse giudicare…a immaginare, se può, di aver vissuto per un mese o per anni in un ghetto, tormentato da fame cronica, fatica, promiscuità e umiliazione”.
Sulla testimonianza di Dinoor, o Ka-Tzetnik, Arendt scrisse: “Quando arrivò a raccontare gli aspetti più tragici …anche Hausner si rese conto che bisognava porre un freno a questa ‘testimonianza’ e molto timidamente, cortesemente, lo interruppe… dopo di che il giudice che presiedeva la seduta colse l’occasione per intervenire…In risposta, il testimone, deluso e forse profondamente offeso, svenne e non rispose più ad alcuna domanda” (Lipstadt, pg. 160-161).
Io ero presente e ricordo questa scena come se fosse oggi.
Arendt scrisse: “La maggioranza degli ebrei si trova messa a confronto con due nemici: le autorità naziste e le autorità ebraiche”. Questa è pura esagerazione, com’è stata esagerata la sua definizione di Eichmann “ burocrate da scrivania dotato di scarsa iniziativa e di poco talento”.
Per Arendt, Eichmann “era un esempio della ‘banalità del male’ in cui i normali burocrati semplicemente sono ignari del male che stanno facendo”.
Ma Lipstadt giustamente commenta che Arendt “non era riuscita a spiegare perché, se Eichmann era ignaro di quel che stava facendo, lui e altri ufficiali nazisti si erano dati la pena di cancellare le prove ”.
Tuttavia Lipstadt riuscì a essere benevola nei confronti di Arendt, quando scrisse: “anche se merita riprovazione per essere stata ostile a Israele, tuttavia giustificava per il rapimento di Eichmann”. Aveva persino scritto “noi l’abbiamo sequestrato in Argentina, (…) Israele aveva il diritto di giudicare in un processo i crimini commessi contro il proprio popolo, alla stessa stregua di quando i polacchi hanno dovuto giudicare i crimini commessi in Polonia”.
Arendt aveva anche espresso quel che i critici di Israele ignoravano: “Non era una Corte Internazionale a presiedere il processo, nessun altro paese, Germania compresa, volle ospitarlo”. Arendt aveva condannato il Vaticano perchè nel 1944, quando si era unito ad altri per chiedere a Horthy di fermare la deportazione degli ebrei ungheresi, aveva aggiunto una postilla in cui si evidenziava che la protesta non nasceva da un falso senso di compassione. Scrisse anche che “la classica scusa ‘Non avevo alternative’ non era vera”. Cercò di capire come Eichmann e così tanti altri tedeschi, divennero dei perfetti assassini.
Lipstadt aggiunge che mentre Arendt “ aveva un’ammirazione sconfinata per i non ebrei che si erano comportati eroicamente, fu incapace di trovare degli eroi tra gli ebrei ”.
Sostenne la pena di morte inflitta a Eichmann, sebbene non avesse approvato la motivazione della Corte . Cercò di dimostrare che Eichmann doveva essere accusato non per crimini contro il popolo ebraico, ma per crimini contro l’umanità”. Lipstadt evidenzia anche gli errori di Arendt e conclude il suo libro molto interessante con questa frase: “Le future generazioni, quelle che non c’erano, devono ricordare. E noi che c’eravamo, glielo dobbiamo raccontare”. Lipstadt dedica a Arendt solo un quarto del suo libro, ma per me questo è uno dei capitoli più interessanti.


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