Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 13/09/2013, a pag.43, con il titolo "La ninfa del Führer ", l'articolo di Irene Bignardi su Leni Riefensthal.
Al di là della storia della sua vita - è morta da ormai dieci anni - ci interessa di più il suo rapporto con il potere, in questo simile a quello di molti intellettuali che " non si rendevano conto di quello che accadeva intorno a loro". Chissà in quale mondo vivevano. Una realtà che succede ancora oggi, in questo l'esempio della Riefensthal deve far riflettere sulle responsabilità degli intellettuali.
Hitler con Leni Riefensthal
La ninfa egeria del Führer o un’artista persa nella sua ambizione al punto da non vedere quello che stava succedendo attorno a lei? Un talento epico che per esprimersi ha avuto bisogno di pretesti importanti come il congresso di Norimberga e le Olimpiadi - o, complice la sua ambizione e il suo talento, una oggettiva fiancheggiatrice del potere nazista?
A dieci anni dalla scomparsa di Leni Riefenstahl, morta nel settembre del 2003 a 101 anni, l’audace, algida attrice di tanti film di montagna, la regista di
La bella maledetta,di Il trionfo della volontà, di Olympia,
la fotografa eccellente dei nuba e del mondo sottomarino, è ancora un personaggio scomodo, ammirato da molti (da Pauline Kael alle femministe americane degli anni Settanta, da Warhol a Coppola), ma sempre sotto accusa e sotto processo, molto più di quanto non sia mai accaduto ad altri artisti - uno per tutti: Herbert von Karajan – compromessi con il regime nazista e abilmente sopravvissuti alla loro vicinanza con il medesimo.
Su di lei, Leni, che pure è uscita scagionata da una lunga serie di processi per “denazificazione”,
che è stata assolta dagli americani come dai francesi, («Leni Riefenstahl non è mai stata membro del Partito Nazista o di alcuna sua sottodivisione », recitava il testo del verdetto, e tra lei e i gerarchi del partito non c’è stato alcun rapporto «che non sia nato da normali relazioni commerciali finalizzate all’esecuzione dei progetti artistici a lei assegnati»), che è stata ridotta in povertà dai costi di queste azioni legali, ha vissuto tre anni tra prigioni e istituti psichiatrici, ha dovuto inventarsi un nuovo mestiere portato avanti con il talento e la capacità di invenzione che (almeno questo)
nessuno le nega, su Leni Riefenstahl si addensa sempre e nonostante tutto l’etichetta pesante e cupa di una astuta fiancheggiatrice, di una donna che esercita il suo talento e la sua ambizione senza scrupoli.
Non è questa l’impressione che ho avuto, ormai vent’anni
fa, quando l’ho intervistata per queste pagine in occasione del suo novantesimo compleanno, e ho assistito a un’esplosione di lacrime a commentare il suo dichiarato e sofferto senso di colpa per la propria cecità, per il proprio egocentrismo, per quell’ambizione che le ha impedito
di vedere qualsiasi cosa al di fuori di ciò su cui puntava la sua cinepresa e la sua voglia di autorealizzazione. Grande attrice? Non lo è mai stata. Difficile pensare a una simulazione. Ma, spiegava, «era difficile capire le cose allora. O almeno era difficile per me. Ero spesso in cima a
una montagna o con l’occhio incollato a una cinepresa. I giornali che leggevo dicevano ben poco», e lei si occupava solo delle sue invenzioni tecniche, a cui ho piegato persino l’apparato della propaganda nazista, e delle meraviglie del montaggio dei chilometri di pellicola girati.
Questa Leni è anche quella che racconta, in perfetta puntualità con l’anniversario della sua scomparsa, un libro metà romanzo metà rievocazione stortica, Riefenstahl, di Lilian Auzas (Elliot, pagg. 189, euro 18,50, traduzione un po’ strana di Monica Capuani: si può definire “scalcinata” la Germania del dopoguerra?). Auzas, che ha trent’anni e si avvicina alla storia con lo stupore dei giovanissimi, ha conosciuto Leni Riefenstahl attraverso la comune passione per l’arte africana, poi come studioso degli artisti attivi sotto i regimi totalitari. E ha debuttato con questo romanzo in terza persona sì, ma soggettiva, ricalcato sulle vicende che Leni Riefenstahl ha raccontato nella sua autobiografia del 1987, Memoiren (in Italia tradotto con il titolo Stretta nel tempo,
Bompiani).
L’effetto della terza persona in soggettiva – a cui si alternano dei momenti “critico/storici” dell’autore - è spiazzante e a tratti un po’ cheap. Soprattutto, sottolinea ed enfatizza quel che di volgarotto, di ovvio, di facile c’è in questa storia vera di ambizione e di potere, di bravura e di sessualità così libera da essere imbarazzante – almeno se te la senti raccontare con un linguaggio da “sfumature”. Si veda la descrizione dell’avventuroso incontro sessuale di Leni con tale Glenn Morris, sedotto e abbandonato in uno spogliatoio
per soli uomini fortunatamente deserto. O, dal lato letterario, ecco le suggestioni che avrebbero spinto Leni Riefenstahl a tentare una nuova vita in Africa, dove avrebbe realizzato le sue bellissime foto sui nuba: «La scrittura franca di Ernest Hemingway si confondeva con i pochi stereotipi che galoppavano nella sua testa: misteriosa Africa».
Nonostante l’enfasi letteraria e la prosa avventurosa, escono da queste pagine un pezzo di storia e un ritratto “per tutti” di questa donna caparbiamente creativa, di questa artista capace di reinventarsi continuamente, di questa cineasta testardamente votata a una egocentrica realizzazione di se stessa e, come scrive con un brillante ossimoro Auzan, dei suoi «orribili capolavori».
Leni, pentita o no, diceva che il suo passato di
Il trionfo della volontà e di Olympia era «una tale ombra sulla mia vita che la morte sarà per me una liberazione ». È morta con questa verità, o con questa menzogna, sulle labbra. Ma anche un libro facile come quello di Auzan ci conferma che merita di essere conosciuta e studiata di più e al di là delle etichette che le si sono incollate addosso.
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