Domenico Quirico è libero, apprendiamo la notizia con grande felicità. Dopo essere stato prigioniero in Siria 5 mesi, ha dichiarato " ho avuto paura, non mi hanno trattato bene ". Non si sono ancora i particolari per capire da quali forze sia stato rapito, asdpettiamo il suo racconto, che pubblicheremo su IC come abbiamo sempre fatto con i suoi reportages.
Con Quirico la STAMPA aveva cancellato il ricordo di un altro inviato, di pasta assai diversa, alla verifica dei fatti preferiva i Grand Hotel, con i dittatori arabi era di casa, certamente non ha mai corso nessun pericolo, protetto com'era dalle lodi che spandeva in lungo e in largo. Igor Man, è a lui che ci riferiamo, è ancora presente - purtroppo - sul quotidiano torinese, cone quella penosa iniziativa detta "premio Igor Man al cronista", attribuita a tutti i cronisti, tutti obbligati ad accettarla, va da sè.
Ben tornato quindi a Domenico Quirico, in attesa dei suoi articoli, che ci aiutano a capire i fatti che accadono, privi di ideologie disinformanti.
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 09/09/2013, a pag.1/15, con il titolo "Ora tornerà a raccontare le storie che in Tv non si vedono" il commento di Aldo Cazzullo, che piacerà sicuramente ai nostri lettori per la schiettezza con la quale ci offre il miglior ritratto di Domenico Quirico.
Aldo Cazzullo Domenico Quirico al suo arrivo in Italia
«Va bene, adesso mettiamoci a lavorare». Così tirava corto Domenico Quirico, con il suo understatement piemontese, quando accadeva qualcosa di emozionante o di commovente, a rompere la routine della redazione. Dirà così anche adesso: non indulgerà in autocelebrazioni; ricomincerà a lavorare.
Negli otto anni e mezzo che ho passato seduto di fronte a lui, nella redazione esteri de «La Stampa», l’ho visto emozionarsi molte volte — per le vittorie del Milan che attraversava gli anni migliori —, e commuoversi di rado. Lo colpivano il valore sfortunato, l’attaccamento all’ideale nazionale, e le sofferenze dei popoli sottomessi. Uomo di destra, detestava il populismo e il cinismo. Ricordo una telefonata euforica da Johannesburg, dove aveva seguito il referendum che seppellì la vergogna dell’apartheid, e disse che avrebbe voluto essere un grande scrittore per restituire la gioia sconfinata di un Paese (in realtà Quirico scriveva e scrive benissimo, di getto, senza rileggere, quasi senza punteggiatura, di solito venti o trenta righe in più di quelle concordate, poi diceva: «Lo metti a posto tu?»). Si commosse quando ci disse dell’ascaro che vegliava le tombe del cimitero di guerra italiano in Eritrea, una storia che finì in prima pagina. Ma poche cose lo accendevano più delle avventure dell’intelligenza umana; come quando raccontava, con le lacrime agli occhi, la tattica dei condottieri del Settecento, che talora conquistavano la vittoria con le manovre senza sparare un colpo; spiegava che lo stesso era accaduto con la Guerra fredda, quando la partita della strategia nucleare era stata vinta da Reagan con un bluff che Gorbaciov non ebbe la forza di vedere. Allo stesso modo si emozionava raccontando del viaggio di Rutilio Namaziano, di cui conosce a memoria versi del «De reditu suo», lamento sulla morte di Roma e sulla fine del mondo classico. Un nome classico aveva dato alla sua seconda figlia, Metella, bionda con gli occhi azzurri come la moglie Giulietta; mentre Eleonora, la primogenita, ricorda il padre nella forza morale che ha mostrato in questi mesi drammatici, e nel tratto asciutto con cui accanto alla sorella ha lanciato l’appello ai rapitori.
Quirico non aveva, e non ha, un carattere facile, come tutti gli uomini di carattere. Quando si arrabbiava perdeva qualsiasi senso della gerarchia: una volta scoprì che il governo algerino gli aveva negato il visto perché l’allora direttore, che non amava dire di no, dopo averlo autorizzato a partire aveva dato il via libera anche a un altro inviato; la sua furia fu memorabile. Ogni volta che gli offrivano una sede di corrispondenza rifiutava con sdegno: l’Occidente, rispondeva, non gli interessava, men che meno l’America; al massimo sarebbe andato volentieri a Mosca (come spesso accade nella vita, Mosca non gliela offrirono mai, e finì a Parigi, che Quirico ha interpretato come base di partenza per i Paesi dell’ex impero coloniale francese, da cui ha scritto reportage importanti). Con i suoi redattori poteva essere aspro, ma poi ti regalava un libro, ti suggeriva di abbonarti a una rivista specializzata sull’Africa nera (la sua grande passione), ti invitava a cena nella sua casa in collina tra Asti e Alba, piena di libri — mai visto nessuno leggere tanto — e di briglie, selle e finimenti per i cavalli.
Domenico amava cavalcare e soprattutto correre. Magrissimo, mangiava poco (quasi solo risotto) e continuava a migliorare il suo record nella maratona, sino allo sfinimento. Dopo la riunione del mattino, quando noi andavamo a pranzo, lui si cambiava in macchina e andava a correre sulle colline oltre il Po. Tornava calmo, sfogato, pronto a indossare la cravatta, il gilet e le giacche pesanti che portava anche d’estate.
Coltissimo, parlava dei personaggi storici come di conoscenti che frequentava nelle notti insonni passate sui saggi di storia. Detestava i rivoluzionari francesi, ma faceva il tifo per Napoleone. I Savoia sotto sotto non gli dispiacevano. Simpatizzava per De Maistre e per la reazione, rivalutava il colonialismo europeo, ha scritto in difesa delle opere degli italiani in Africa; sempre, però, le sue attenzioni di inviato andavano ai popoli in lotta per la libertà. Critico con il terzomondismo, si indignava di fronte alle ruberie dei satrapi africani, ed era disposto a correre rischi personali per denunciarle.
In questi anni ci siamo persi di vista. Io però sono sempre stato orgoglioso di averlo avuto come capo, nel seguire a distanza il suo percorso di reporter, la sua prigionia in Libia, il comportamento esemplare — non volle lasciare il Paese senza andare di persona a fare le condoglianze alla vedova del suo autista ucciso —, e ora il coraggio con il quale lui e la sua famiglia hanno affrontato la prova terribile della Siria. Se il nostro mestiere ha un futuro, lo dobbiamo a uomini come Domenico Quirico.
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