Siria, la guerra unilaterale di Obama
Analisi di Stefano Magni
Stefano Magni Obama / Cameron
La crisi siriana si è trasformata in un dibattito tutto interno all’America. La marina è pronta a colpire gli impianti e i centri di comando e controllo delle forze chimiche di Bashar al Assad. Manca un “ok” definitivo prima di iniziare a lanciare i missili. E questo “ok” può arrivare solo dal Congresso degli Stati Uniti, ormai. Il presidente Barack Obama lo ha prima cercato all’estero. Ma all’Onu sa di scontrarsi con la dura realtà del veto russo e cinese: entrambe le potenze sono dalla parte di Assad. Nella Nato ha incontrato solo divisioni e indecisione. L’alleato più fedele, la Gran Bretagna, potrebbe far mancare il suo appoggio. Il premier David Cameron ha fatto sapere, proprio ieri, di avere prove sull’uso di armi chimiche da parte di Assad e si dice pronto a intervenire. Tuttavia, al suo governo, manca il consenso parlamentare.
Lo stesso Partito Conservatore (di cui Cameron è espressione) si è diviso, la maggioranza manca, la legittimità di un intervento privo di consenso parlamentare è quantomeno dubbia.
La Francia è più decisa ad agire, ma il presidente François Hollande ha già detto, chiaro e tondo, che non intende “ballare da solo”. Serve un consenso più ampio, che non c’è.
Gli altri Paesi della Nato, a partire dall’Italia, sono tutti più o meno non-interventisti. A livello regionale, poi, un chiaro mandato dalla Lega Araba non c’è. Iraq e Libano, ai confini del caos siriano, si oppongono a un intervento che metterebbe ancora più a rischio i loro fragili equilibri.
Israele, che si prepara a subire le rappresaglie missilistiche di Assad, mantiene un atteggiamento “low profile”. Non è nel suo interesse subire di nuovo i bombardamenti, come ai tempi di Saddam e peggio di allora.
Una rappresaglia siriana contro il “nemico sionista” sarebbe ancora più forte di quella irachena del 1991: la Siria è alle porte, può colpire le città israeliane con tutti i suoi sistemi d’arma, lasciando pochissimo margine di allerta.
Di fronte all’incertezza che regna sovrana all’estero, Obama deve ripiegare in casa, per ottenere una legittimazione legale e democratica all’intervento.
Già questo, per non pochi commentatori conservatori, è una grave offesa all’America. Normalmente si deve ottenere il consenso interno, prima di quello internazionale. Se è vero che la politica militare serve a proteggere la sicurezza dei cittadini da aggressioni esterne e poi quella degli alleati,
Obama dimostra in pieno di sovvertire questa logica. Agisce nel nome e per
conto della comunità internazionale, prima ancora che della sua comunità
americana.
Prima di intervenire in Libia, nel 2011, non passò neppure dal Congresso degli Stati Uniti. Ora si rivolge al potere legislativo solo dopo che la sua ricerca del consenso internazionale è fallita. Questo insolito ribaltamento di priorità contribuisce a spiegare, almeno in parte, il ribaltamento di schieramenti interno agli Stati Uniti. I conservatori, che in Iraq erano interventisti, ora sono i più accaniti critici della possibile azione armata in Siria. L’ex ambasciatore all’Onu John Bolton e l’ex segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, si oppongono (nel caso di Bolton) o contestano i fini e modalità dell’azione (Rumsfeld).
Il “no”, chiaro, secco e dichiarato di Bolton è motivato dagli interessi nazionali. «Non credo che rientri nell’interesse americano – dichiara Bolton, intervistato da Fox News – Non penso che dovremmo, in effetti, prendere parte al conflitto civile siriano. Entrambe le parti mi convincono ben poco».
Donald Rumsfeld, in una conferenza a Grand Rapids, è stato ancora più schietto: «Il presidente Obama intervenga per rovesciare Assad, oppure non faccia nulla».
Considerando che l’inquilino della Casa Bianca ha sottoposto al Congresso l’approvazione di un’azione “limitata”, non mira al rovesciamento di Assad. Dunque, secondo l’ex segretario alla Difesa, deve “fare nulla”.
L’astro nascente dei Repubblicani, il senatore Marco Rubio, si oppone perché l’intervento non è motivato dagli interessi nazionali statunitensi e perché i suoi fini sono vaghi: «Non credo si debba iniziare un intervento militare senza prima avere un chiaro e raggiungibile obiettivo in mente». Rubio non è certo un pacifista. La sua proposta (che sarà alla base di un’eventuale campagna presidenziale) è sempre stata quella del “nuovo secolo americano”. La sua posizione, nel 2011, era a favore dell’intervento in Libia. Con la Siria, però, il giovane conservatore di origine cubana, tira il freno a mano.
I capigruppo repubblicani si dicono favorevoli all’azione.
Per motivi istituzionali o di convinzione? Per convinzione nel caso di John McCain, che, fin dal 2011, è sempre stato a favore di un’azione contro Assad e gli altri tiranni mediorientali. Le spiegazioni dei capigruppo alla Camera e al Senato, Eric Cantor e John Boehner, sono più difficili da comprendere e si inquadrano nella “realpolitik”: ormai l’America si è esposta e deve andare fino in fondo. Tornare indietro sarebbe una pessima figura, con conseguente perdita di credibilità.
Questo, in sintesi, è quel che dicono (e pensano). Le grane arriveranno soprattutto dall’opposizione repubblicana, come avviene in tutti i sistemi democratici. Ma non mancano grattacapi anche nella maggioranza.
All’interno del Partito Democratico, il gruppo progressista, che ha sempre sostenuto Obama, ha iniziato ad assumere atteggiamenti critici dopo gli scandali sullo spionaggio elettronico (le rivelazioni sul sistema segreto Prism, della National Security Agency, che controlla tutta Internet), ha sempre avuto dubbi sulla guerra segreta al terrorismo ed ora esprime ancora più riserve su un intervento armato in Siria.
Pur non contraddicendo apertamente il loro presidente, i progressisti si preparano a votare una serie di emendamenti volti a ridurre l’ampiezza dell’intervento (numero e qualità degli obiettivi da colpire) e la sua durata. In guerra sì, ma con le mani legate.
Una soluzione di compromesso che potrebbe danneggiare ancora di più la posizione (già difficile) degli Stati Uniti.
La popolazione cosa ne pensa? Gli ultimi sondaggi di opinione pubblica rivelano i risultati dell’ultimo anno: il 60% degli americani è contrario all’intervento. Dunque, riassumendo: non c’è consenso internazionale, non c’è consenso interno e, al Congresso, Obama può vincere, ma solo contando sul buon senso di parlamentari che vogliono evitare una figuraccia internazionale. Si tratterebbe, insomma, della guerra più unilaterale della storia degli Stati Uniti: voluta dal solo presidente. Nel nome di cosa, poi, è difficile capirlo. Superficialmente si potrebbe dire che l’intervento è costruito su una singola dichiarazione. Quando, nell’agosto del 2012, Obama disse che il dittatore Assad non avrebbe dovuto passare la “linea rossa” dell’uso di armi chimiche, il comandante in capo degli Stati Uniti si assunse un impegno pubblico e solenne, che ora deve onorare, con o senza alleati, con o senza consenso interno. È comunque difficile credere che una singola dichiarazione possa motivare un intervento armato.
Da un punto di vista strategico, Obama riconferma la sua linea: un’alleanza con Turchia, Qatar e Arabia Saudita, i tre Stati musulmani che hanno maggior interesse a detronizzare Assad e rimpiazzarlo con un regime sunnita. Rientrava negli interessi di questa alleanza anche l’intervento in Libia nel 2011 e la condanna del golpe militare egiziano nei mesi scorsi. Turchia, Qatar e Arabia Saudita sono sicuramente alleati utili a combattere un’eventuale guerra con l’Iran, di cui Assad è il maggior partner mediorientale. Ma nel presente, non solo nel prossimo futuro, gli Stati Uniti stanno combattendo anche un’altra guerra: quella contro il terrorismo di Al Qaeda. E un’azione contro Assad, nell’interesse dell’Arabia Saudita (dove nacque Al Qaeda) e del Qatar (dove la sua ideologia viene propagandata), può risultare controproducente, anche nel breve periodo. Il Dipartimento di Stato (Condoleezza Rice, Hillary Clinton e John Kerry, su questo, sono sulla stessa linea) ha trovato utile appoggiare i regimi islamici sunniti e i Fratelli Musulmani per “isolare” Al Qaeda politicamente. Anche questo è un pilastro della nuova alleanza.
Ma le sue fondamenta sono molto traballanti, considerando che, proprio in Siria, i confini fra Fratelli Musulmani e Al Qaeda, nella resistenza contro Assad, sono sempre più sfumati.
Quella di Obama, insomma, è una scommessa difficilissima: punta sull’appoggio a un nemico per sconfiggerne un altro. Per questo gli americani (oltre ai siriani) tremano al solo pensiero di un intervento in Siria.