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Il Giornale - Corriere della Sera - La Stampa Rassegna Stampa
02.09.2013 Siria: la debolezza di Obama
commenti di Fiamma Nirenstein, Antonio Polito, Gianni Riotta, Mimmo Candito

Testata:Il Giornale - Corriere della Sera - La Stampa
Autore: Fiamma Nirenstein - Antonio Polito - Gianni Riotta - Mimmo Candito
Titolo: «La (sottile) linea rossa di Obama - Presidente intrappolato dai suoi stessi errori - La rivincita del Parlamento»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 02/09/2013, a pag. 13, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo " La (sottile) linea rossa di Obama ". Dal CORRIERE della SERA, in prima pagina, l'editoriale di Antonio Polito dal titolo " La rivincita del Parlamento ". Dalla STAMPA, a pag. 3, l'articolo di Gianni Riotta dal titolo " Presidente intrappolato dai suoi stessi errori ", a pag. 1-22, l'articolo di Mimmo Candito dal titolo " Le tre spade di Damocle ", preceduto dal nostro commento.

Sullo stesso argomento, invitiamo a leggere la 'Cartolina da Eurabia' di Ugo Volli di oggi, pubblicata in altra pagina della rassegna
http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=50551

Ecco i pezzi:

Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " La (sottile) linea rossa di Obama "


Fiamma Nirenstein

Obama è un presidente mol­to ­ideologico e quindi poco porta­to a capire la realtà. Ma la realtà gli interessa meno del mondo fantasmatico del consenso, e per questo il fatto che l’Iran e la Siria di Assad, insieme agli Hezbollah, stiano adesso facendo festa, non lo percepisce come un fatto pri­mario, non gli importa più di tan­to. L’America,l’ha detto tante vol­te, non è caput mundi , ma pri­mus inter pares , e così sia anche questa volta, dopo che già le ha sbagliate tutte in Medio oriente. Nella definizione della necessa­ria modestia degli Usa nel mon­do, si distingue dal predecessore a cui non vuole essere avvicinato nemmeno per un istante, Geor­ge W. Bush, il cow boy che guarda storto se ferito nell’onore, che al posto suo sarebbe saltato su un Tomahawk e avrebbe colpito As­sad in mezzo alla fronte. Così fe­ce Bush con Saddam Hussein, e Obama ha sempre guardato con disprezzo a questa scelta, anche se si è dimentica­to che non sareb­be successo se suo padre nel ’91 e Clinton qualche anno dopo non lo avessero lasciato a casa sua libero ancorché ferito, a galleggiare sul ma­re della prepoten­za dittatoriale e dello scontro reli­gioso islamico. Fra l’altro, Sad­dam è il diretto predecessore di Assad nell’uso del gas contro i curdi. Dunque,l’Ame­rica attaccherà o non attaccherà Assad? Sì, lo farà. Obama si è molto esercitato sui te­mi della guerra di necessità e la guer­ra di scelta per chiarire bene che lui odia la guerra in sé e per sé, e quindi quando annuncia che la farà comunque perché non può sopportare l’uso delle armi di di­struzione di massa, va preso sul serio. La farà. Ma ha rimandato, perché il consenso per una perso­nalità co­sì innamorata dello spec­chio mediatico, diciamopureva­nitosa come il suo improbabile premio Nobel per la Pace, è essen­ziale: dopo essere stato abbando­nato dall’Inghilterra e contestato duramente da Russia e Cina, ha capito che il consenso minimale per giustificare il fatto di andare contro sé stesso, lo può cercare solo in casa sua, dove di rado si da torto al presidente se si avventu­ra in guerra. Al Congresso proba­bilmente fra otto giorni troverà il consenso.
«Minimale» è la parola giusta per la guerra che Obama cerca. Colpirà con una raffica di missili probabilmente concentrati in po­chissime ore in modo da ridurre il rischio di contagio a tutto il Me­dio oriente, particolarmente a Israele:l’uso eventuale di gas con­tro Israele da parte siriana o degli Hezbollah non lascerebbe certa­mente Tzahal con le mani in ma­no, «l’esercito è più forte che mai» ha ripetuto ieri Netanyahu, l’allarme non è stato abbassato.
Il punto essenziale, però, quel­lo che ci riguarda tutti, anche noi Europei, viene adesso: in Siria non c’è una parte dei buoni e una dei cattivi, e questo spiega le titu­banze americane. Ci sono invece due cattivi che mettono in mezzo la popolazione civile e la fanno a pezzi per i loro interessi. Obama da solo non si può spenzolare troppo in aiuto dell’uno o dell’al­tro gruppo di mostri. Per questo ha invocato il sostegno del Con­gresso ora che la coalizione non è più compatta come sembrava. Le stragi le fa Assad, le fanno con
lui gli Hezbollah per ordine degli iraniani ma dall’altra parte le fa anche Jabat al Nusra, parte della stessa Al Qaida responsabile del­l’attacco alle Twin Towers. Qui sta uno dei punti più importanti: tutta la recentissima storia del Medio oriente ha messo l’Occi­dente di fronte allo stesso dilem­ma, anche l’Egitto o la Libia e la Tunisia. Il risultato della confu­sione suscitata dallo scontro fra odiosi dittatori e fanatici islami­sti che spregiano ogni diritto umano in nome della Sharia, ha creato un’autentica contrazione psicotica del ruolo occidentale. Che faccio, si è chiesto Obama tutto il tempo da quando questo scontro è in atto in tutto il Medio oriente, mi butto a difendere l’odiosodittatoreperchépromet­te una maggiore stabilità, o dimo­stro fiducia verso l’islamista che opprime i suoi con la Sharia (co­me Morsi e in genere tutti i Fratel­li musulmani, e come certo fareb­bero i ribelli siriani se vincessero) e cerca il califfato mondiale, ucci­dendo cristiani e maledicendo gli ebrei?
Oggi Obama non ha ancora una vera risposta. Nessuno ce l’ha.Però sa una cosa,che non va disprezzata: che non si deve la­sciare che si usino armi di distru­zione
di massa. Non che sia me­glio­bombardare Aleppo che uc­cidere col gas nervino, e Assad ha fatto tutte e due le cose; non che la tragica mattanza di 1500 persone sia diversa da uccidere le prece­denti 100mila, ma in mancanza di una linea rossa il mondo occi­dentale non ha nessun significa­to. Tutta la civiltà è cresciuta po­nendosi, da sola, linee rosse da non superare, perché quando non ce n’è nessuna,allora è il mo­mento della ferocia e della gret­tezza insite nella natura umana, e noi occidentali, poveri illusi, è proprio questo che combattia­mo con tutte le nostre forze dalla nascita della civiltà giudaico cri­stiana. Linee rosse: non uccide­re, non dire falsa testimonianza, non desiderare la donna d’altri… Ma come? L’ho fatto tante volte, dice Assad, una di più o di meno che può fare... Ma non è così, quando la linea rossa è stabilita, non va più superata. È la tradizio­ne dell’Occidente, noi non sia­mo nati per il suk, almeno qual­che volta. Questo Obama ha cer­cat­o di ripetere ieri quando ha an­nunciato che farà la guerra, an­che se è un presidente cui la guer­ra fa orrore. Poiché è un perso­naggio poco credibile ha poi fatto il suo salto indietro: perché non sa bene a chi farla, alla fine, que­sta guerra in cui i civili sono le vitti­me di tutti, e perché senza la tv e i sondaggi non si può, nel mondo conosciuto, fare proprio niente. Questi siamo noi, e ai tempi dei Dieci comandamenti, la tv non c’era.
www.fiammanirenstein.com

CORRIERE della SERA - Antonio Polito : " La rivincita del Parlamento "


Antonio Polito

I due più antichi Parlamenti del mondo si sono presi una storica rivincita. In Gran Bretagna e negli Stati Uniti il governo ha dovuto riconsegnare nelle loro mani il più sovrano dei poteri, quello sulla pace e sulla guerra. Né Cameron né Obama vi erano obbligati. Londra dichiarò guerra alla Germania nazista dopo l'invasione della Polonia senza consultare la Camera dei Comuni. La guerra di Corea (Truman) e quella del Kosovo (Clinton) non furono mai autorizzate dal Congresso. Ci troviamo dunque di fronte a una svolta. La democrazia parlamentare, una delle più grandi invenzioni della civilizzazione anglosassone, sembrava ormai sopraffatta dall'emergere di un mondo nuovo, fatto di decisioni globalizzate e sovranazionali, o dettate dai sondaggi e incarnate da leader che ne rispondono solo al popolo. E invece, tra il popolo e il leader, ecco rispuntare il Parlamento. È una lezione che parla anche a noi italiani, che il Parlamento l'abbiamo degradato oltre misura, trasformandolo in un sinedrio di nominati cui qualcuno vorrebbe ora togliere perfino la libertà dal vincolo di mandato. Democrazia vuol dire «governo del popolo, eletto dal popolo, per il popolo», come ha scandito Obama citando un celebre passo di Lincoln. Ma è un popolo ascoltato attraverso i suoi rappresentanti, secondo la legge, e non manipolato come un oracolo mediatico, nelle piazze o in tv. Questa novità apre però anche enormi problemi. Il primo è l'indebolimento del potere esecutivo perfino lì dove è più forte. La democrazia americana non è infatti parlamentare, ma presidenziale; assegna al presidente il ruolo di «comandante in capo» delle forze armate proprio per permettergli di difendere la sicurezza nazionale con la rapidità e l'efficacia necessarie. L'affidarsi di Obama al Congresso — lo si capisce dai festeggiamenti dei carnefici siriani — è quindi anche segno di un tentennamento, di un'indecisione. Che cosa accadrebbe se si ripetesse in una crisi più grave? Che ne sarebbe della forza e della credibilità degli Usa, la «nazione indispensabile»? Una potenza smette di essere tale se subordina gli impegni internazionali assunti dal suo governo alle dinamiche del conflitto politico interno. Per questo Westminster da più di duecento anni non votava contro il premier in materia di guerra, e quasi sempre con l'accordo dell'opposizione: perché il Parlamento «speaks for Britain». La decisione politica sta certamente rimpatriando all' interno della sfera nazionale, l'unica dove possa esercitarsi il controllo democratico dei Parlamenti. Ma resta da vedere quanto questo processo sia compatibile con gli obblighi di una comunità globale sempre più interdipendente. Non è un caso se la crisi finanziaria, prima in America e poi in Europa, sia stata gestita dai governi, e più ancora dalle banche centrali, tenendo le decisioni il più possibile lontane dai Parlamenti. La stessa Unione Europea, così come è organizzata oggi, potrebbe non sopravvivere a una revanche della democrazia nazionale. Sappiamo tutti che fine farebbe l'euro se il Bundestag tedesco, appellandosi alla Corte costituzionale su ogni decisione europea, rendesse un po' alla volta i Trattati carta straccia. Festeggiando il ritorno dei Parlamenti, sarà dunque bene non dimenticare che nella forza della democrazia risiedono anche le sue debolezze, e che su quelle hanno sempre contato tiranni come Assad e autocrati come Putin. Anche perché una democrazia indecisa e imbelle smette presto di essere una democrazia.

La STAMPA - Gianni Riotta : " Presidente intrappolato dai suoi stessi errori"


Gianni Riotta

Il presidente Barack Obama medita come uscire dalla trappola in cui s’è cacciato. Poteva non chiedere il cambio di regime a Damasco due anni fa, il no ai gas pena un blitz un anno fa o, infine, annunciare il raid in punizione per il massacro di 1500 civili, inclusi 500 bambini con il gas sarin, come testimoniato ieri dal Segretario di Stato Kerry. Poteva chiedere subito un voto al Congresso e, se bocciato, dare ai parlamentari la responsabilità degli orrori del regime di Assad. Invece adesso la sua presidenza è nelle mani del Congresso, maggioranza repubblicana alla Camera, esile maggioranza democratica al Senato. Se la sua richiesta di intervento con i missili Cruise sarà bocciata, la prima volta per un presidente nella storia recente americana, il tempo alla Casa Bianca che manca al 2016 sarà per lui una Via Crucis. Il dilemma tocca ai repubblicani, votare nel merito della crisi siriana o approfittare dell’autogol di Obama e castigare il Presidente come sognano dal 2008? Sul piano internazionale la débâcle è amara. Hollande, unico alleato è rimasto isolato e incerto. Gli inglesi non vogliono tornare indietro. Al G20 di San Pietroburgo Putin, snobbato da Obama con il no al summit bilaterale, lo tratterà dall’alto in basso. La nuova leadership cinese di Xi Jinping calcola l’incertezza di Obama. A Damasco il Presidente è irriso da tutti i media, «sale sull’albero e non sa scendere». La Chiesa cattolica calcola ora i profughi siriani in 4,5 milioni e tra loro l’umore è nero «Almeno Bush manteneva la parola». Chi difende Barack Obama spiega invece: «Con il sì del Congresso saremo più forti e potremo davvero neutralizzare Assad». Vedremo se andrà così.

La STAMPA - Mimmo Candito : " Le tre spade di Damocle "


Mimmo Candito

Ci auguriamo che il pezzo di Mimmo Candito, così preciso nel delineare gli scenari mediorientali, segni una svolta nella linea tendenzialmente sottovalutativa che il suotidiano ha sempre tenuto nei confronti dei Paesi arabi.
Peccato per quel 'Tel Aviv' al posto di Gerusalemme.
Ecco l'articolo:

Un vecchio proverbio arabo ammonisce: «Non accendere mai un fuoco quando il vento soffia. Potresti bruciarti».

La Siria oggi è un fuoco bastardo, brucia che controllarlo diventa pericoloso, perché non sai da che parte vada a soffiare il vento.

Obama, però, quel proverbio mostra di averlo appreso troppo tardi, e il rischio di non poter controllare l’escalation della guerra gli sta addosso, rendendolo ancor più titubante di quanto ormai lo accusi larga parte dei media americani.
Infatti, da qualsiasi parte si osservi quanto sta avvenendo sul terreno, ci s’imbatte ovunque in focolai potenziali di deflagrazione; e sebbene siano ancora in pochi a richiamare similitudini che ricordino la crisi dei Balcani all’inizio del secolo scorso - la crisi che poi portò alla Prima guerra mondiale - non c’è dubbio che una ulteriore drammatizzazione del conflitto siriano, quale si avrebbe con l’attacco missilistico americano, richiamerebbe sul campo tutti gli attori che potrebbero finire per allargare in termini alla lunga incontrollabili quella che tuttora resta, comunque, una crisi regionale.

Chiunque abbia viaggiato per il Medio Oriente e la sua lunga storia di conflitti conosce quanto sempre si ripete in quelle capitali: che non c’è guerra possibile nelle terre della Mezzaluna se non vi sia coinvolto l’Egitto - perché l’Egitto per la sua dimensione politica e demografica e per la sua storia ha una indiscussa centralità nel mondo arabo - e che però non c’è pace possibile nelle terre della Mezzaluna se non vi sia coinvolta la Siria, perché da sempre la collocazione geografica, l’asprezza del suo regime, la sua minacciosa contiguità con Israele, le danno in mano le chiavi con cui serrare la destabilizzazione dell’area che si aprì nel secolo scorso con la nascita dello Stato ebraico.

Quanto sta avvenendo in Siria ormai da due anni ha profondamente trasformato il profilo iniziale dello scontro militare sul terreno; e se in principio lo sfondo delle Primavere arabe raccoglieva in termini credibili la rottura tra un regime autoritario e la sopportazione d’una parte della sua società, oggi a quella guerra diciamo di democrazia si sovrappongono altre due o tre guerre, di etnie (gli alawiti contro gli altri gruppi locali), di religione (i sunniti dell’Islam contro gli sciiti), di terrorismo (le infiltrazioni di Al Qaeda che punta strumentalmente a fare della Siria il nuovo Afghanistan), soprattutto di potere (l’Iran che, passando attraverso il Libano, punta a realizzare con la Siria un conglomerato «rivoluzionario» capace di destabilizzare l’equilibrio dell’intera regione per diventarne il nuovo dominus; non a caso l’Arabia Saudita interviene ormai pesantemente nel conflitto e comunque già da tempo i regni e gli sceiccati del Golfo discutono apertamente di una possibile dotazione nucleare, in termini evidentemente anti-iraniani).

Se tutto questo è già avvenuto mentre sul terreno gli attori che intervenivano erano comunque quelli che con qualche approssimazione è possibile definire «locali», e si mantenevano al margine le componenti extraregionali (Washington e Mosca influivano certamente sullo svolgimento del conflitto, con armi e assistenza militare, ma il loro ruolo non incideva direttamente sulle operazioni belliche), una volta che invece gli Usa decideranno di mettere in pratica quello che Obama ha ormai apertamente proposto come scelta dovuta del suo Paese, appare inevitabile che lo scenario muti ulteriormente, e in misura che è davvero difficile immaginare senza rischi incontrollabili.

I fattori di destabilizzazione (quasi le «piaghe» di cui ammoniva Mosè) sono tre. Il primo è l’attivazione di un esteso programma terroristico, che coinvolga, ben al di là delle frontiere siriane, i Paesi europei e gli Usa. La rete antiterroristica del mondo occidentale è oggi ben solida e strutturata, ma - come ha dimostrato l’attentato alla maratona di Boston - la capacità di infiltrazione delle cellule e dei militanti jihadisti può superare qualsiasi sbarramento. E un futuro di nuovo molto amaro si aprirebbe per il nostro mondo.

Secondo fattore di destabilizzazione è la probabile reazione iraniana. Teheran non nasconde affatto il proprio ruolo attivo nella guerra siriana, né cela le ambizioni di potere che muovono dal khomeinismo e dal suo programma nucleare in fase ormai di completamento. L’attacco americano sulla Siria suonerebbe come una sfida diretta, alla quale l’Iran non potrebbe non opporre una risposta dello stesso livello: e qui si va su una lista di possibili tattiche di contrasto che vanno dalla chiusura dello Stretto di Hormuz (con tutte le immaginabili implicazioni sul mercato del petrolio e sulla accentuazione della crisi economica dell’Occidente) a un pesante attacco missilistico di Hezbollah contro Israele, accompagnato da operazioni siriane che muovano dalle alture del Golan. Diventerebbe allo stesso modo inevitabile la reazione di Tel Aviv, e l’escalation toccherebbe tanto il Libano quanto l’Iran, con l’attacco diretto sulle installazioni nucleari e un possibile coinvolgimento di altri Paesi musulmani.

Terzo fattore di destabilizzazione è il ruolo che la Russia si troverebbe costretta a svolgere. Sebbene siano oggi operative nel Mediterraneo alcune unità navali russe, non appare credibile che questo comporti un loro intervento diretto contro la VI Flotta, perché l’azzardo comporterebbe inevitabilmente l’esplosione, davvero, della Terza guerra mondiale. Putin sta giocando con comprensibile spregiudicatezza la carta che Obama gli ha offerto, e sfrutta in termini politicamente propagandistici le difficoltà nelle quali il governo americano si trova a doversi districare. Ma, da questo, ad arrivare a un confronto militare diretto con gli Usa ci sta di mezzo assai più della crisi siriana. Tuttavia, la Russia può sicuramente approfittare dell’attuale debolezza tattica americana per guadagnarsi uno spazio politico - tattico e strategico - negli attuali equilibri mondiali, confortando le proprie ambizioni di recuperare un credibile ruolo di competitor globale degli Usa e guadagnando, non solo nel Medio Oriente, un ruolo potenziale di partner forte, serio, comunque alternativo (il vecchio ruolo della vecchia Unione Sovietica).

I tre fattori non sono alternativi l’uno all’altro, e una loro congiunzione cambierebbe per un lungo tempo a venire la storia del nostro stesso stile di vita. Quando gli arabi ammonivano con il loro antico proverbio, una saggezza antica accompagnava le loro parole. Il fuoco ormai è stato acceso, e brucia; rischiamo tutti di bruciarci alle sue fiamme.

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