Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 01/09/2013, a pag. 33, l'articolo di Mario Baudino dal titolo " 1943, la grande fuga degli ebrei sulle montagne cuneesi".
I numeri non bastano, e a volte neppure i nomi. Sono le storie individuali quelle che nutrono la memoria, le speranze delle persone cancellate da guerre e persecuzioni. Così, benché il dato sia impressionante, fa una certa differenza sapere che dal campo di concentramento allestito in fretta e furia dopo l’8 settembre a Borgo San Dalmazzo vennero deportati oltre trecento ebrei tra quelli scesi cercando scampo in Italia dal Nizzardo, dove avevano vissuto in condizioni accettabili, relativamente protetti, e conoscere invece o almeno intuire le loro singole vite, le speranze, le paure, gli orrori, la lotta per sopravvivere.
Dal piccolo centro cuneese ai piedi delle Alpi Marittime partì una deportazione poco nota, ma è la terza in Italia per numero di vittime, con destinazione Auschwitz via Nizza e Parigi. Ora nella stazione un Memoriale la ricorda, con l’elenco di tutti i nomi raggruppati per famiglie. Ma proprio da quel lavoro, concluso qualche anno fa, si è capito che bisognava andare più avanti. Bisognava trovare le storie, togliere dal silenzio le vittime. Lo hanno fatto due studiose dell’Istituto Storico della Resistenza cuneese, la professoressa Adriana Muncinelli e la giovane ricercatrice Elena Fallo. Oggi, giornata dedicata al ricordo di quella marcia sulle montagne (che viene ripetuta in mattinata da entrambi i versanti) presenteranno a Borgo, ore 17,30, Auditorium Bertello, i risultati della lunga ricerca.
Hanno preso in esame tutti i 331 internati stranieri (su 349) nel campo allestito dai tedeschi il 18 settembre ’43, e altri 3 di quello riaperto a dicembre, dopo nuovi rastrellamenti che coinvolsero per esempio la comunità ebraica di Saluzzo. Hanno ricostruito 334 spezzoni anche molto completi di biografie, un affresco imprevedibile per molti aspetti, inatteso, che parte da tutta Europa e si chiude, come in un imbuto, sulle montagne cuneesi. Dentro ci sono le mille sfaccettature di una migrazione disperata, fatta però sempre da individui che solo a un certo punto, quando si chiude la trappola, diventano massa, numeri. Raccontarle vuol dire anche restituirle a chi ne è stato privato e ne aveva diritto: come è accaduto per un personaggio di cui non è al momento possibile fare il nome, un cuoco noto in America e per un certo periodo in Francia, che vive negli Stati Uniti.
Da una lista francese piuttosto imprecisa, le ricercatrici avevano trovato infatti che a Saint-Martin-Vésubie, il villaggio francese da dove erano partiti a piedi verso l’Italia un migliaio di ebrei, risultavano registrate non due ma tre persone della stessa famiglia. Mancava insomma un bambino, che a Borgo non è mai arrivato, come invece è accaduto ai genitori, uccisi poi ad Auschwitz. Lunghe ricerche, e alla fine il piccolo è stato individuato in base al nome e al luogo di nascita, Pau, nei Pirenei: i genitori lo avevano lasciato là, ma registrato a Saint-Martin-Vésubie sperando in un secondo tempo di riaverlo con sé.
Questa parte della vicenda era però del tutto ignota, soprattutto al bambino d’allora divenuto adulto e famoso. Ha dovuto aspettare più di settant’anni per capire che non era stato abbandonato. Ha fatto sapere alle ricercatrici - tramite la figlia - di essere molto contento, ora, perché «ha chiuso la sua storia». Dei genitori sapeva poco, di Borgo San Dalmazzo nulla: e questo è un tratto comune soprattutto ai discendenti delle vittime, che ignoravano la fuga sulle montagne, la cattura e il terribile ritorno in Francia. Può sembrare in effetti una parentesi breve, pochi giorni in una tragedia infinita e interminabile: ma ora sappiamo che fu per tutti un momento intenso di speranze, sofferenza e persino vita.
A Entracque, uno dei due punti d’arrivo della marcia (l’altro fu Valdieri) venne celebrato persino un matrimonio, tra Stella Silberstein e Richard Borger. Entrambi viennesi, lei infermiera lui medico, si erano incontrati a Nizza dopo il ’38. Vennero catturati e deportati, li si credeva scomparsi. La donna, invece, era sopravvissuta a Auschwitz e Bergen Belsen, e aveva consegnato la sua esperienza a un quaderno di appunti, che divenne un libro postumo, Hotel Excelsior , firmato col nuovo nome che l’ex deportata aveva scelto quando si trasferì in Israele: Simha Naor.
Non è stato facile incrociare i dati. Alla fine, è venuta fuori una storia ben più ampia, una storia d’amore e di lotta per sopravvivere in quell’hotel di Nizza dove venivano interrogati gli ebrei e dove, da Borgo, i due giovani erano stati trasferiti come tutti gli altri deportati. Ci restarono più a lungo, data la loro professione, e tentarono una sorta di resistenza interna, tanto che alla fine lui venne ucciso e il cadavere fatto addirittura sparire, disintegrandolo col tritolo. Aveva visto qualcosa che non doveva vedere, con tutta probabilità ruberie delle SS, e questo lo aveva perduto.
È difficile parlare di lieto fine, anche per i sopravvissuti, perché le loro vicende sono segnate da quelle dei morti. Frankiel (poi François) Naftali, emigrato da Varsavia con una borsa di studio in Belgio, fuggito col suo maestro a Tolosa dopo l’invasione tedesca, poi nell’imbuto di Nizza, infine a Borgo insieme con la moglie, in attesa di un bambino. Dopo la guerra vennero dati per scomparsi. Lui, invece, era vivo: diventò in America uno scienziato di grande fama nel campo della meccanica dei fluidi. È andata meglio alla famiglia Wolfingen, fuggita anch’essa dalla Germania, catturata dopo la marcia sui monti ma sopravvissuta. Il figlio Nathan, che allora aveva quindici anni, studiava canto, ed è potuto tornare alla sua passione, fino a diventare un celebre basso lirico. Ma con un altro nome, come del resto tutta la sua famiglia. E nella storia della musica è noto come Boris Carmel.
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