Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 01/09/2013, a pag. 2, l'articolo di Massimo Gaggi dal titolo " La solitudine del comandante in capo costretto al dietrofront dai sondaggi ", a pag. 5, la sua intervista a Vali Nasr dal titolo "Giusto punire il regime. Ma Obama avrebbe dovuto agire senza ulteriori rinvii", a pag. 5, l'articolo di Guido Olimpio dal titolo " Aerei e sottomarini in movimento, ecco la tecno-guerra ". Dalla STAMPA, a pag. 3, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Così i deputati hanno imbrigliato il presidente Usa ", a pag. 5, l'articolo di Marco Bardazzi dal titolo "Kerry il pacifista ha rimesso l’elmetto".
Ecco i pezzi:
CORRIERE della SERA - Massimo Gaggi : " La solitudine del comandante in capo costretto al dietrofront dai sondaggi "
Massimo Gaggi
Barack Obama cerca di uscire dalla sua solitudine di presidente costretto a deliberare un attacco militare contro la Siria che non avrebbe mai voluto lanciare, coinvolgendo nella decisione il Congresso e cercando di responsabilizzare un’opinione pubblica che, nei sondaggi, continua a mostrarsi in forte maggioranza contraria a un intervento punitivo del regime di Assad, anche dopo una strage chimica.
Il voto del Parlamento darà più forza all’America in questo frangente difficilissimo, spiega il presidente democratico. Sul piano delle relazioni internazionali, però, Obama rischia di dare un segnale di debolezza. Certo, ora ufficialmente ha deciso di agire, ma l’introduzione di un passaggio a Capitol Hill non dovuto e non facile (almeno alla Camera), introduce un elemento di incertezza che non era contemplato quando, un anno fa, il leader della superpotenza avvertì Assad: se superi la linea rossa dell’uso di armi chimiche, te ne pentirai amaramente.
Obama deve essersi pentito di quella sortita che gli ha legato le mani, anche se rimane convinto, come i suoi collaboratori più stretti, che la comunità internazionale non può farla passare liscia al dittatore siriano, pena un’incontrollabile proliferazione dell’uso di armi terribili, in aperta violazione dei trattati internazionali che le hanno messe al bando. Le sue preoccupazioni, oggi, non sembrano essere più tanto quelle del rispetto della legalità internazionale, delle regole Onu, della costruzione di un’ampia coalizione multilaterale. Ora ha bisogno soprattutto di un consenso interno sufficientemente ampio. E per metterlo insieme stavolta prova a vestire più i panni del leader politico che quelli del «commander-in-chief».
Il presidente non ha difficoltà a liquidare l’Onu come un organismo paralizzato, incapace di decidere e di far rispettare principi e regole. E a scavalcarlo. Si muove, invece, con molta più circospezione quando vede i sondaggi contrari a un’altra azione militare o duecento parlamentari (compreso il numero due dei repubblicani al Senato) che firmano una mozione nella quale si intima alla Casa Bianca di passare da un voto del Congresso prima di lanciare l’attacco.
Detto, fatto: stufo di restare sempre col cerino in mano (anche ieri sera Obama ha lamentato nel suo discorso alla nazione che in giro per il mondo molti pensano che Assad vada punito ma nessuno vuole prendersi la responsabilità di farlo) il presidente delibera l’attacco ma lascia la decisione finale al Parlamento. E intanto lancia una massiccia campagna di informazione e responsabilizzazione: ieri, oggi e nei prossimi giorni gruppi di deputati e senatori riceveranno briefing dei servizi segreti e del team del Consiglio per la Sicurezza Nazionale nei quali prenderanno visione anche di documenti top secret .
Un modo per responsabilizzare i parlamentari, ma anche l’opinione pubblica che, sperano alla Casa Bianca, giorno dopo giorno si renderà conto della gravità di quanto accaduto grazie anche alla parallela campagna informativa basata su materiale non «classificato». Se alla fine cambierà il segno dei sondaggi e otterrà un mandato ampio dal Congresso, Obama potrà dirla di averla spuntata. Magari anche di aver innovato rispetto ai suoi predecessori.
Ma i rischi sono elevati, come dimostra la vicenda del voto del parlamento britannico. Rischi ma anche opportunità: rinviando l’azione militare, Obama mette la questione siriana anche al centro del G-20 che si riunirà a metà della prossima settimana a San Pietroburgo (il parlamento Usa riaprirà i battenti solo il 9 settembre). E’ quello che aveva auspicato il premier italiano Letta e anche il presidente russo, Putin.
Obama dà un segnale di disponibilità e potrà portare il suo discorso sulla responsabilità morale in materia di armi di distruzione di massa che le grandi potenze hanno davanti alla storia — quello che ha appena fatto agli americani — davanti al consesso internazionale più ampio e rappresentativo. Ma poi corre il rischio di ritrovarsi in casa con un buon numero di parlamentari che, pur di evitare l’intervento contro Assad, si aggrappano a mezze aperture e o finti spiragli di dialogo che sicuramente verranno seminati nei prossimi giorni.
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Così i deputati hanno imbrigliato il presidente Usa "
Maurizio Molinari
I briefing dell’intelligence non bastano a convincere i leader del Congresso e Barack Obama si piega alla richiesta scritta di oltre 200 deputati, democratici e repubblicani, di chiedere un voto sull’uso della forza prima di attaccare la Siria.
Incalzato da sondaggi negativi secondo cui il 50% degli americani è contro l’intervento, contestato pubblicamente da 54 deputati dell’ala liberal del suo partito e sfidato dal repubblicano John Boehner, presidente della Camera, a «chiedere al popolo americano» l’assenso all’attacco, Obama ha tentato di fronteggiare i dissensi con una maratona senza precedenti di briefing di intelligence a favore dei leader di Capitol Hill. Giovedì la Casa Bianca ha realizzato un’inedita videoconferenza con 27 senatori e deputati di entrambi i partiti, disseminati in più angoli della nazione per via delle ferie, venerdì il Segretario di Stato John Kerry e il vicepresidente Joe Biden hanno incontrato i vertici degli opposti schieramenti a Camera e Senato, e ieri mattina è stato il presidente in persona, affiancato da alti funzionari dell’intelligence, a spiegare ai repubblicani John Boehner e Mitch McConnell, come ai democratici Harry Reid e Nancy Pelosi, i contenuti top secret dei memorandum di intelligence che hanno spinto la Casa Bianca a decidere l’intervento militare.
Obama era convinto che tale offensiva di incontri e rivelazioni avrebbe piegato le resistenze del Congresso di Washington. E, secondo il tam tam di Washington, Kerry e Biden lo avevano rassicurato in materia, in forza di decenni di esperienza a Capitol Hill. Ma in realtà l’esito è stato opposto: i leader democratici e repubblicani hanno espresso apprezzamento per il lavoro dell’intelligence, e anche aspra condanna per l’attacco con i gas da parte di Assad, ma senza fare passi indietro sulla richiesta di un voto dell’aula. Facendo valere il dettato della Costituzione relativo ai poteri di guerra. Anche la fedelissima Nancy Pelosi, dopo molte esitazioni, ha dimostrato di condividere le parole dell’acerrimo avversario Boehner: «Bisogna dimostrare leadership presidenziale e chiarire i fondamenti della nostra politica per ottenere il sostegno del popolo americano e del Congresso ad ogni tipo di azione contro la Siria». «Sono 12 anni che il Congresso è impegnato a difendere la sicurezza degli americani - ha aggiunto Boehner, riferendosi al periodo trascorso dall’11 settembre - e sappiamo cosa significa entrare in guerra».
Sul fronte opposto Barbara Lee, combattiva deputata democratica della California, ha tuonato a nome dei 54 liberal già protagonisti della coalizione contro la guerra in Iraq: «La condanna per l’uso delle armi chimiche non deve precipitarci in una guerra ingiusta». Assediato da un’inedita coalizione di conservatori e liberal e con i sondaggi che indicano al 79% il numero dei favorevoli al voto del Congresso, Obama ha percepito il pericolo di passare alla Storia per aver commesso sulla Siria l’errore che George W. Bush non fece sull’Iraq, quando chiese a Capitol Hill di esprimersi. Ma non è tutto: sulla scelta del presidente pesa anche l’opinione del Pentagono perché i comandi militari ritengono possibile una rappresaglia siriana-iraniana dopo l’intervento e dunque disporre di un’autorizzazione del Congresso consente di avere maggiori margini di manovra nella gestione delle operazioni. La conseguenza per Obama è affrontare una sfida tutta in salita: entro il 9 settembre, quando il Congresso tornerà a riunirsi dopo la pausa estiva, dovrà convincere l’America della necessità di attaccare Assad «con un intervento limitato e senza l’invio di truppe». Per riuscirci si affida ad un messaggio che investe la sua idea della proiezione dell’America nel mondo: «Se accettiamo l’uso delle armi chimiche come potremo batterci contro la proliferazione nucleare e il terrorismo?».
Resta da vedere se troverà i voti di cui ha bisogno. Una sconfitta ne fiaccherebbe la leadership, facendolo diventare un’«anatra zoppa» con un anno di anticipo sulle elezioni di medio termine per il rinnovo del Congresso che coincidono con l’inizio del tramonto della forza politica del presidente rieletto. Al termine della difficile giornata il presidente è andato a rilassarsi giocando a golf con Biden a Fort Belvoir.
CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " Aerei e sottomarini in movimento, ecco la tecno-guerra "
Guido Olimpio
WASHINGTON — L’operazione Siria è stata rinviata ma il «fronte» è sempre vivo. Notizie non confermate segnalano problemi nelle comunicazioni radio del regime. «Tocchi» di guerra elettronica messi in atto dagli americani per confondere il nemico. Mistero, poi, per voci rimbalzate da Damasco. La prima riferisce di una presunta lite tra Bashar Assad e il fratello Maher per la difficoltà dell’esercito nello schiacciare gli insorti nella zona di Damasco. Contrasto che sarebbe stato seguito dall’attacco con i gas proprio per piegare i ribelli. La seconda riguarda la presunta morte del generale Mohamed Aslan, uno dei responsabili dei reparti chimici. Può essere tutto vero oppure trattarsi di disinformazione in un momento critico per il regime.
Hanno invece solidità le news sui movimenti militari alleati. Il Pentagono ha schierato l’unità da sbarco San Antonio, con a bordo 300 marines ed elicotteri. Non troppo lontani le cinque unità dotate di oltre 200 missili da crociera Tomahawk. Grande attività nella base turca di Incirlik dove sono passati aerei per la guerra elettronica E6B e velivoli-comando, pronti a coordinare le missioni. Fuori dagli hangar gli immancabili droni. Vigilano, seguono i movimenti e se necessario colpiscono. Missioni di ricognizione rafforzate da quelle più profonde affidate agli aerei spia U2 «avvistati» sulla pista di Akrotiri, Cipro. Mezzi eterni, passati dalla guerra fredda a quella al terrorismo. Segnalati voli di Osprey e MC 130, velivoli impiegati dalle forze speciali statunitensi. Hanno un doppio impiego: recupero di eventuali piloti e incursioni dietro le linee. In agguato almeno due sottomarini americani. Forse uno è il Florida, partito in luglio dalla sua base negli Usa. Battelli nucleari che possono sparare i cruise.
A integrare il dispositivo ci sono poi i turchi. Le unità sono da giorni in stato d’allarme, rinforzate le posizioni al confine. I francesi hanno invece mandato un sottomarino e la fregata anti-aerea Chevalier Paul e dispongono di cacciabombardieri Rafal basati negli Emirati arabi. «Antenne» e vedette mobilitate in Israele. L’esercito ha schierato una batteria anti-missile Iron Dom a Tel Aviv, reparti pronti al confine con il Libano e sul Golan. Molto inquieti i giordani. Hanno detto no ai raid, però ospitano F 16 americani, missili Patriot, commandos Usa e hanno un ruolo importante nell’addestramento degli insorti, coordinati dalla Cia e dai sauditi.
La STAMPA - Marco Bardazzi : " Kerry il pacifista ha rimesso l’elmetto "
John Kerry
Il soldato Kerry è tornato in trincea. Pronto a combattere forse l’ultima delle sue molte guerre, prima di ritirarsi tra i «veterans» d’America. Il volto bellico degli Usa, soprattutto dopo gli sviluppi di ieri, non è quello di Barack Obama. La frenata del presidente rende ancora più esposto il suo segretario di Stato, l’uomo al quale in questi giorni è toccato il compito di pronunciare le parole più dure.
John Kerry a 69 anni ha completato una tormentata metamorfosi, segnata dal suo complesso rapporto con il ruolo militare degli Stati Uniti nel mondo. Eroe in divisa in Vietnam, poi portavoce a Washington dei pacifisti negli anni ’70. Favorevole all’intervento in Iraq nel 2003, poi oppositore della stessa campagna militare un anno dopo, da sfidante di George W.Bush per la Casa Bianca. Un politico di grande esperienza, ma dalle posizioni oscillanti. Facile bersaglio nel 2004 per Bush e il suo stratega Karl Rove, che affondarono le ambizioni presidenziali di Kerry accusandolo di essere un «flipflopper», un voltagabbana.
Ora però l’ex candidato democratico allo Studio Ovale sembra aver trovato il tono di voce presidenziale. «Noi sappiamo», è l’inizio di frase che il segretario di Stato venerdì ha ripetuto 24 volte, elencando pubblicamente i capi d’accusa contro Assad con il ritmo inquisitorio imparato negli anni in cui faceva il pm. Un’enfasi retorica e una durezza che hanno spinto gli opinionisti conservatori del «Wall Street Journal» a decretare: «Se Kerry avesse parlato così nel 2004, sarebbe diventato Presidente». È significativo che l’editoriale sia stato diffuso su Twitter come «lettura da non perdere» da John McCain, che con Kerry condivide le esperienze di aver combattuto da eroe in Vietnam e aver perso la Casa Bianca.
Se partirà l’attacco, sarà la guerra di Kerry. L’ex sfidante di Bush non deve più preoccuparsi per la carriera politica, non ha l’età per sperare in una seconda chance presidenziale. E in ogni caso è probabile che troverebbe a sbarrargli la strada Hillary Clinton, che ha occupato la sua poltrona al Dipartimento di Stato fino a sette mesi fa. Libero dai propri fantasmi, Kerry ha affrontato con un’energia inattesa il dossier Siria e sembra intenzionato a fare di tutto per convincere Obama a non lasciare impuniti i crimini del regime siriano.
Non è certo la prima volta che John Kerry esprime con forza le proprie convinzioni. L’inizio della sua carriera politica risale a una storica deposizione nel 1971 di fronte al Congresso. Appena tornato dal Vietnam, in divisa e pluridecorato per le azioni eroiche compiute al comando di una «swift boat» (un’imbarcazione da pattugliamento), Kerry lanciò un celebre attacco contro l’impegno americano nel sudest asiatico. «Come potete chiedere a un uomo di essere l’ultimo uomo a morire per un errore?», chiese al Congresso, con una frase che fece il giro di giornali e Tv. Fu il decollo di una vita pubblica che lo ha portato a un passo dalla Casa Bianca.
Adesso Kerry ha molti passaggi delicati da affrontare. Deve decidere fin dove spingere la retorica e che tipo di operazione militare raccomandare ad Obama. Tocca a lui convincere i membri del Congresso più riluttanti che in Siria le armi di distruzione di massa ci sono davvero, dopo aver accusato per anni Bush di aver ingannato l’America sull’esistenza delle stesse armi in Iraq. Tocca sempre a lui garantire a Obama un voto a Capitol Hill che non si trasformi in un’umiliazione stile-Cameron per la Casa Bianca. Ma una volta ottenuto il via libera, avrà anche la responsabilità di frenare chi vorrebbe spingere l’intervento militare ben oltre l’azione «limitata» promessa dal presidente.
Dopo aver pronunciato la requisitoria contro Assad, Kerry deve decidere se continuare a essere il falco dell’amministrazione. «Non ripeteremo l’errore dell’Iraq», ha promesso. Ma una volta lanciati i missili, le parole contano poco.
CORRIERE della SERA - Massimo Gaggi : " Giusto punire il regime. Ma Obama avrebbe dovuto agire senza ulteriori rinvii "
Vali Nasr
«Mosca alza la voce, Assad minaccia ritorsioni, l’Iran anche, ma la verità è che nessuno di loro ha interesse a un coinvolgimento più esteso degli Stati Uniti nel conflitto siriano. Quindi, se l’attacco americano, quando scatterà, se scatterà, sarà davvero limitato, con ogni probabilità non ci saranno ritorsioni significative».
Vali Nasr, direttore della scuola di Studi internazionali della Johns Hopkins University e grande esperto di questioni mediorientali, spesso critica la scarsa lungimiranza della politica estera Usa, ma stavolta sembra convinto che la decisione della Casa Bianca di punire il regime di Assad per l’uso di armi chimiche sia giusta e non destinata ad avere ulteriori effetti destabilizzanti. La sua critica, in questo caso, riguarda la scelta di Obama di chiedere un voto al Congresso prima di lanciare l’attacco.
Un Obama preoccupato dagli aspetti di legittimità dell’iniziativa Usa, un presidente che cerca consenso politico.
«Non vedo veri problemi dal lato della legalità internazionale: Obama ha detto di aver preso la decisione di attaccare indipendentemente dall’Onu che considera un organismo paralizzato. Questo vuol dire che si sente legittimato a intervenire comunque, che non ritiene di aver bisogno di altri compagni di strada. La Russia dice che l’attacco sarebbe una violazione del diritto internazionale. Lo disse anche per l’invasione dell’Iraq e allora non fu certo questo il problema degli Stati Uniti. Il problema, per Obama, è invece quello del consenso interno: far venire allo scoperto il Congresso, responsabilizzare un’opinione pubblica stanca di guerre. Politicamente legittimo, ma assai rischioso sul piano diplomatico: segnala una debolezza di Obama sulla scena internazionale. E, comunque, ogni rinvio rende più problematico l’intervento punitivo».
Molti, compreso il premier italiano Enrico Letta, sperano che la prossima settimana, al G20 di San Pietroburgo, possano essere fatti importanti passi avanti per una soluzione negoziata.
«Ne dubito. Obama e Putin hanno già discusso di Siria al G8 in Irlanda prendendo atto che sono lontanissimi. Vedo, piuttosto, il rischio di un G20 paralizzato dalla disputa siriana. Eppure avrebbe importanti questioni economiche da discutere, visti i perduranti problemi dell’Europa e il rallentamento dei Paesi emergenti».
Un Obama condizionato anche da chi lo avverte che quella siriana è una polveriera nella quale è molto pericoloso buttare un cerino.
«La dinamite prima o poi esplode. È proprio la vicenda siriana a dimostrarlo. Ci fosse stato un intervento prima, probabilmente non saremmo arrivati a questo livello di degenerazione».
L’attacco è rischioso, ma fin qui Washington ha sottolineato anche i pericoli di una non reazione all’uso di armi chimiche. C’è il timore di mandare un segnale sbagliato, di debolezza, anche rispetto alla questione del nucleare iraniano.
«Non credo che stavolta l’Iran sia al centro dei pensieri di Obama. Il presidente deve ripristinare la sua credibilità internazionale dopo il monito sul superamento della “linea rossa”. Oggi la sua preoccupazione principale è quella di mandare un segnale che appaia forte, senza alterare gli equilibri nel conflitto siriano. Voi giornalisti guardate sempre all’Iran ma il problema di credibilità Obama ce l’ha soprattutto davanti a Mosca e a Pechino. Prima ancora del nucleare iraniano, il rischio per Washington, nel caso in cui non mantenga l’impegno di punire il regime di Assad, è che un domani la Cina possa pensare che non succederà nulla anche se occupa qualche isola in zone protette dall’ombrello americano».
Non ritiene credibili le minacce di ritorsione di Assad, degli Hezbollah e anche di Teheran e della Russia?
«Se veramente l’intervento sarà limitato, non vedo rischi enormi. La Russia sa che Washington deve punire Assad. Se, invece, punta a rovesciarlo, le cose cambiano. Ma, a oggi, non pare questo l’obiettivo».
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