Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 01/09/2013, a pag. 1-2, il testo del discorso di Barack Obama dal titolo " Anche se stanchi di guerra non guarderemo dall’altra parte ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 1-5, l'editoriale di Sergio Romano dal titolo " Armi democratiche ", a pag. 6, l'articolo di Antonio Ferrari dal titolo " I vicini interessati e pericolosi di un Paese diventato polveriera ", a pag. 28, l'articolo di André Glucksmann dal titolo " Quei bimbi uccisi in Siria ci parlano ".
Ecco i pezzi:
La REPUBBLICA - Barack Obama : " Anche se stanchi di guerra non guarderemo dall’altra parte "
Barack Obama
Dieci giorni fa il mondo ha assistito con orrore al massacro di uomini, donne e bambini in Siria nel corso del più grave attacco con armi chimiche del XXI secolo. Gli Stati Uniti hanno presentato solide prove secondo le quali il governo siriano è responsabile di questo attacco.
La nostra intelligence mostra che il regime di Assad si è preparato all’uso delle armi chimiche, ha lanciato missili nei sobborghi di Damasco, densamente popolati, e ha ammesso che c’era stato un attacco con armi chimiche. Tutto ciò conferma quello che il mondo può vedere coi suoi occhi: ospedali pieni di vittime e le terribili immagini dei morti. Sono state sterminate ben più di mille persone. Parecchie centinaia di bambini sono stati uccisi col gas dal loro stesso governo.
È un attentato alla dignità umana. Costituisce anche un grave pericolo per la nostra sicurezza nazionale. Rischia di far sembrare una presa in giro il divieto globale di utilizzare le armi chimiche. Mette in pericolo i nostri amici e i nostri alleati ai confini con la Siria, tra i quali Israele, Giordania, Turchia, Libano e Iraq. Potrebbe portare a un’escalation dell’uso di armi chimiche, o alla proliferazione di gruppi terroristici pronti a colpire il nostro popolo. In un mondo pieno di molteplici pericoli, una minaccia di questo tipo deve essere affrontata.
Dopo attente riflessioni, ho deciso che gli Stati Uniti debbano intraprendere un’azione militare contro obiettivi del regime siriano. Questo non sarà un intervento a tempo indeterminato.
Non manderemo uomini sul terreno in Siria. La nostra azione sarà limitata nel tempo e nella portata. Le nostre forze armate sono già posizionate nella regione. Il capo di Stato maggiore mi ha informato che siamo pronti a colpire appena lo decidiamo. La nostra facoltà di compiere questa missione non è condizionata nel tempo: potrà essere domani, o la settimana prossima, o tra un mese. Io sono pronto a dare quell’ordine.
Avendo presa la mia decisione in qualità di Comandante in capo, sono anche consapevole di essere il presidente della più antica democrazia costituzionale del mondo. Il nostro potere è radicato non soltanto nella forza del nostro apparato militare, ma nel nostro modello di governo del popolo, eletto dal popolo, per il popolo. Ecco perché ho preso anche un’altra decisione: chiederò l’autorizzazione a ricorrere alla forza ai rappresentanti del popolo americano al Congresso.
Confido nelle prove che il nostro governo ha raccolto senza dover attendere gli ispettori delle Nazioni Unite. Confido di andare avanti senza l’approvazione di un Consiglio di sicurezza dell’Onu finora paralizzato. Colpiti da quel che è successo nel Regno Unito quando il Parlamento del nostro più stretto alleato ha fallito nell’approvare una risoluzione dal simile obiet-
tivo, molti sconsigliano di sottoporre questa decisione al Congresso.
Ma malgrado la mia autorità di dare il via a questo intervento militare senza una specifica autorizzazione del Congresso, io so che il Paese sarà più forte se questo dibattito ci sarà.
Vorrei chiedere a ogni membro del Congresso e a della comunità globale: quale messaggio manderemmo se un dittatore potesse sterminare con le armi chimiche centinaia di bambini sotto gli occhi di tutti e non pagasse per questo? Tutto ciò va ben al di là della guerra chimica. Se non facciamo sì che l’autore di questa atrocità risponda del proprio operato, come verrà interpretata
la nostra determinazione nell’opporci contro chi viola le più fondamentali leggi internazionali? Contro i governi che dovessero procurarsi armi nucleari? Contro i terroristi che dovessero ricorrere alle armi biologiche? Contro gli eserciti che attuano genocidi?
Mentre l’inchiesta dell’Onu richiede ancora tempo per riferire su quanto ha accertato, noi insisteremo che un’atrocità commessa con armi chimiche non può essere semplicemente indagata: la si deve affrontare.
Infine, mi rivolgo al popolo americano: so che siamo stanchi della guerra. Ne abbiamo conclusa una in Iraq. Ne stiamo per concludere un’altra
in Afghanistan. Il popolo americano sa che non possiamo risolvere il conflitto già in corso in Siria con i nostri soldati. Noi, però, continueremo a sostenere il popolo siriano tramite continue pressioni sul regime di Assad, l’mpegno nei confronti dell’opposizione, l’attenzione agli sfollati, e la ricerca di una soluzione politica.
Ma noi siamo gli Stati Uniti d’America e non possiamo e non dobbiamo distogliere lo sguardo da quanto è accaduto a Damasco. A tutti i membri del Congresso, di entrambi i partiti, io chiedo di votare per la sicurezza della nostra nazione. Ci sono cose più importanti delle divergenze di parte o della politica del momento.
Questa decisione riguarda quel che noi siamo come nazione. E’ giunto il momento di dimostrare al mondo che l’America mantiene i propri impegni. Comandiamo con la certezza che la ragione vale più della forza, non il contrario. La nostra democrazia è più forte se il presidente e i rappresentati del popolo sono d’accordo e uniti.
Io sono pronto ad agire, davanti a questa atrocità. Oggi chiedo al Congresso di lanciare un messaggio chiaro al mondo e dimostrare che siamo pronti ad andare avanti come una nazione.
CORRIERE della SERA - Sergio Romano : " Armi democratiche "
Sergio Romano
Notiamo l'utilizzo delle parole di Sergio Romano nella frase "paladini dell'ingerenza umanitaria e del dovere di proteggere le popolazioni civili ". Chi è interessato ai diritti umani e a bloccare un dittatore che massacra la popolazione con esercito e, ora, armi chimiche, fa un' "ingerenza" ?
Barack Obama corre il rischio di passare alla storia come uno dei più tentennanti presidenti degli Stati Uniti. Nella sua ultima dichiarazione, sul prato della Casa Bianca, ha chiesto un voto del Congresso sull'opportunità di un intervento militare contro il regime siriano di Bashar Al Assad. Ma ancor prima di appellarsi ai rappresentanti del Paese aveva annunciato, in una recente intervista alla televisione Pbs, che la sua intenzione era quella di inviare uno shot across the bow, uno di quei colpi di cannone che vengono tirati di fronte alla prua di una nave per intimarle di fermarsi e tornare indietro.
Non sappiamo se con l'appello al Congresso il presidente americano chieda una formale autorizzazione o voglia più semplicemente metterlo di fronte alle proprie responsabilità. Ma sappiamo che una tale decisione, se adottata, avrebbe in ultima analisi l'inconveniente di non piacere a nessuno. Non ai pacifisti americani per cui sarebbe pur sempre un atto di guerra. Non ai paladini dell'ingerenza umanitaria e del dovere di proteggere le popolazioni civili, a cui sembrerebbe irrilevante. Non a quella fazione della destra repubblicana, erede dei «neocon», che accusa il presidente di essere debole, inetto, incapace di pestare il pugno sul tavolo nell'interesse dell'America. Non ai ribelli siriani, convinti che l'uso delle armi chimiche avrebbe fatto traboccare il vaso dell'indignazione occidentale e segnato la fine di Assad. Non agli alleati internazionali della Siria: Russia, Iran, Cina. Non, infine, alla maggioranza della sua opinione pubblica (una percentuale vicina, sembra, all'80%) per non parlare di quella delle altre maggiori democrazie occidentali. Sono contrari all'intervento persino coloro che in altri tempi avevano approvato le guerre di Bush e salutato con soddisfazione l'offensiva anglo-franco-americana contro la Libia di Gheddafi.
Non è sorprendente. Oggi, dopo l'esperienza degli ultimi tredici anni, nessuno può ignorare quali siano stati il costo e gli effetti di quelle guerre. L'operazione afghana parve giustificata dal patto che legava Al Qaeda e i suoi fedeli al regime talebano di Kabul. Sostenuti dalla Nato e persino dall'Iran, gli americani credettero di avere eliminato la maggiore base di Al Qaeda nel Medio Oriente. Ma nella caccia allo sceicco yemenita si perdettero, come altri eserciti occidentali, nel labirinto delle montagne che separano l'Afghanistan dal Pakistan; e di lì a poco lasciarono il Paese agli europei per concentrare ogni loro sforzo sull'Iraq di Saddam Hussein. Un'altra guerra, un'altra vittoria apparente.
Qualche mese dopo la conquista di Bagdad, Washington dovette constatare che quella dei talebani in Afghanistan era stata soltanto una ritirata strategica, che in Iraq non vi erano armi di distruzione di massa, che i sunniti iracheni non erano disposti ad accettare la sconfitta e che gli sciiti liberati dal giogo di Saddam amavano i confratelli iraniani più degli americani.
Comincia da allora la lunga sequenza dei rimedi falliti. In Afghanistan tornarono con forze più importanti e cercarono di sloggiare i talebani dalle regioni riconquistate. In Iraq cercarono di armare i sunniti contro il variegato fronte dell’integralismo islamico. Subentrato a George W. Bush, Barack Obama concepì un piano apparentemente razionale e un calendario inderogabile. In Afghanistan avrebbe lanciato un’ultima offensiva contro i talebani e offerto un negoziato a coloro che erano pronti a deporre le armi. In Iraq avrebbe assicurato la presenza militare americana soltanto sino alla fine del 2011. Il risultato di quel piano, all’inizio del suo secondo mandato, è deprimente. I talebani non hanno alcuna intenzione di negoziare con una potenza che ha già, comunque, deciso di ritirare le proprie truppe nel 2014. L’uccisione di Osama bin Laden nel suo fortilizio pachistano è parsa uno straordinario successo della presidenza Obama (la vendetta è sempre, per un certo periodo, consolatoria) ma ha peggiorato i rapporti degli Stati Uniti con il Pakistan. In Iraq si muore, grazie alle bombe sunnite, molto più di quanto si morisse all’epoca di Saddam Hussein. In Libia, infine, Obama ha avuto il merito di comprendere prima dei suoi alleati i rischi di una operazione che era divenuta molto più lunga del previsto. Ma del caos in cui il Paese è precipitato dopo la vittoria dei ribelli Obama non è meno responsabile di Nicolas Sarkozy e David Cameron. È davvero sorprendente che dopo tre guerre non vinte, come la buona educazione internazionale preferisce chiamare quelle perdute, gli americani e le opinioni pubbliche occidentali non vogliano essere trascinati nella quarta?
Resta da capire, a questo punto, perché un uomo politico accorto e razionale come Barack Obama dovrebbe a tutti i costi prendere una iniziativa militare contro la Siria. Per non permettere che l’uso dei gas vada impunito? Per evitare che l’America, agli occhi del mondo, appaia inaffidabile? Credo che il criterio dell’affidabilità, in questo caso, concerna soprattutto il presidente degli Stati Uniti. Quando ha dichiarato, un anno fa, che l’uso dei gas sarebbe stato una «linea rossa» e che l’attraversamento di quella linea lo avrebbe costretto a rivedere la propria posizione, Obama è diventato prigioniero di se stesso. Ha usato la «linea rossa» per mascherare le proprie incertezze e allontanare per quanto possibile il momento delle decisioni. Ora quella «linea rossa» gli si è ritorta addosso come un boomerang e il presidente, privo di argomenti, è nudo di fronte al mondo come il re della favola di Andersen.
Vi è infine in questa vicenda un tragico paradosso. Le armi chimiche sono atroci, ignobili e suscitano una comprensibile condanna. Ma le vittime della periferia di Damasco rappresentano una minuscola percentuale di quelle provocate dalla guerra. Le armi letali in Siria sono i fucili mitragliatori, le mitragliatrici, i cannoni, le bombe, i mortai. Collegare il giudizio sull’opportunità dell’intervento all’uso delle armi chimiche ha l’assurdo effetto di rendere altre armi più legittime o meno deprecabili. Non è tutto. Mentre l’Occidente si scandalizza per l’uso dei gas, vi sono probabilmente altri popoli per cui i droni, i proiettili all’uranio impoverito, il napalm e le bombe a grappolo, per non parlare delle armi nucleari, non sono meno tossici dell’arsenale chimico di Assad. In questo scontro di culture e di civiltà è meglio evitare che l’Occidente venga accusato di considerare tossiche soltanto le armi degli altri.
CORRIERE della SERA - Antonio Ferrari : " I vicini interessati e pericolosi di un Paese diventato polveriera "
Antonio Ferrari
Se sarà guerra, nessuno sa prevedere che guerra sarà. Anche perché l’attacco punitivo contro la Siria in realtà non lo vuole nessuno. Non lo vogliono neppure quelli che lo faranno, e che si affrettano a qualificarlo come «limitato», «strettissimo», «rapido», tanto da procurare il minor male possibile al regime di Bashar Assad. Cioè al responsabile — secondo un’accusa non ancora ampiamente documentata — d’aver utilizzato gas nervino per colpire il proprio popolo.
Il paradosso è evidente. È davvero una primizia voler attaccare un nemico, considerandolo un fuorilegge internazionale, un delinquente incallito, senza l’idea di colpirlo direttamente, di abbatterlo, di rovesciare il suo regime. Evitando di considerare quelli che invece, dieci anni fa, erano gli indiscutibili obiettivi dell’attacco all’Iraq di Saddam Hussein.
Sperare però che i missili «soft» sulla Siria abbiano l’effetto di un indolore e salutare ceffone sul volto di un giovanotto viziato e turbolento, evitando conseguenze regionali, sarebbe un grave errore. Credo che abbia perfettamente ragione Ryan Crocker, ex ambasciatore americano in Siria e in Libano dopo aver servito come diplomatico in Iraq e Afghanistan, decano della Bush School of Government and public Service presso la Texas A&M University, quando dichiara lapidario al New York Times: «Il nostro più grande problema è l’ignoranza; siamo molto ignoranti sulla Siria».
Chi, nella regione più tribolata e pericolosa del mondo, aspetta ansiosamente il bombardamento, sono soprattutto due potenze regionali, la ricchissima Arabia Saudita e la baldanzosa Turchia, e poi una serie di Stati satelliti più piccoli, guidati dall’ambizioso Qatar. Riad non vede l’ora di indebolire l’ultimo regime laico del Medio Oriente, mentre la neo-interventista Ankara freme per assestare un colpo micidiale ad Assad, forse sperando di veder coinvolto il Paese che il premier Erdogan non sopporta: Israele. La ruggine, dopo l’attacco alla flottiglia pacifista costato la vita ad alcuni attivisti turchi, non si è certo dissolta dopo i buoni uffici di Barack Obama, che si è speso per facilitare il riavvicinamento tra i due più solidi alleati regionali degli Stati Uniti.
Israele, in verità, non ha alcuna intenzione di lasciarsi coinvolgere in un conflitto. Non può dirlo apertamente, ma se dovesse scegliere preferirebbe di gran lunga il regime di Bashar Assad all’idea di avere sul proprio capo la nebulosa dell’opposizione siriana, condizionata dal fanatismo degli estremisti sunniti, che odiano lo Stato ebraico, e che potrebbero raccordarsi con i fondamentalisti palestinesi di Hamas, nella Striscia di Gaza. Israele, per contro, potrebbe avere la tentazione di assestare qualche duro colpo, mirato e chirurgico, al maggior alleato regionale della Siria, quell’Iran dei programmi nucleari che ha tolto il sonno a Gerusalemme. Certo, l’Iran è potenzialmente pericoloso, ma anche gli Stati Uniti, che vogliono punire Assad, non intendono coinvolgere Teheran, proprio ora che al vertice non c’è più l’ottuso e intransigente Ahmadinejad ma il più dialogante e moderato Rohani. In caso di attacco alla Siria, non verrebbe ovviamente risparmiato il Libano. Laggiù la guerra civile siriana già si è allargata per tre ragioni: le milizie sciite filo-iraniane dell’Hezbollah combattono a fianco del regime di Assad, mentre il braccio politico del «partito di Dio» è essenziale per gli equilibri politici del Paese; gli attentati e le brutali rese dei conti fra sciiti e sunniti hanno seminato la morte, sia a Beirut sia più a nord, a Tripoli; e infine perché il cordone ombelicale tra Siria e Libano è quasi indissolubile.
È altrettanto chiaro che, in caso di conflitto allargato, a seguito dell’attacco rapido e punitivo, non sarebbe ovviamente risparmiato l’Iraq, Paese a grande maggioranza sciita, che dieci anni dopo la sciagurata guerra del 2003 non trova né pace né stabilità. Migliaia di miliziani sciiti sono pronti a partire per affiancarsi ai soldati di Assad.
Un caso a sé, naturalmente, è rappresentato dall’Egitto, di cui ora si parla meno, ma dove le turbolenze sono soltanto rinviate, dopo il «golpe popolare» delle Forze armate e i sanguinosi scontri fra avversari e fedelissimi dell’ex presidente, il defenestrato e arrestato Morsi. Il Cairo si guarderà bene dall’esporsi all’eventuale contagio bellico, anche se politicamente sarà accanto agli interventisti: per veder confermato il sostegno di Washington, che ogni anno dona un miliardo e mezzo di dollari all’Egitto per premiarlo d’aver fatto la pace con Israele; e per dimostrare gratitudine all’Arabia Saudita, che ha deciso di investire una montagna di denaro per consolidare il più grande e importante Paese arabo.
Il calcolo di chi si prepara a bombardare la Siria potrebbe, in fin dei conti, essere semplice e cinico: ridurre la distanza tra i lealisti e l’opposizione, che oggi vede prevalere gli uomini di Assad. E forse sperare di costringere il giovane dittatore a più miti consigli. Calcolo azzardato. Il regime di Damasco è più determinato di quel che si pensi, e poi conta su amicizie importanti e decisive: Russia e Cina, entrambe con diritto di veto al Consiglio di sicurezza dell’Onu.
CORRIERE della SERA - André Glucksmann : " Quei bimbi uccisi in Siria ci parlano"
André Glucksmann
«Bisognava intervenire due anni fa», il mondo intero ama ripetere il ritornello dei rimpianti. Gli uni per chiudere gli occhi, oggi come ieri: è troppo tardi ormai! Gli altri per tentare di recuperare il tempo perduto, perché è sempre meglio tardi che mai. Tranne che due anni fa, un anno fa, sei mesi fa, non sono state prese decisioni e tutti si sono aggrappati a un'impossibile deliberazione delle Nazioni Unite, impossibile perché sin dall'inizio il Consiglio di sicurezza era stato bloccato — come lo è tuttora — dal veto russo e cinese. E tutti lo sapevano. Non si tratta di un semplice incidente di percorso. Infinite esitazioni ai vertici — che cosa decidiamo? Chi? Quando? Che cosa e su che cosa? — non hanno affatto incoraggiato una presa di posizione risoluta e risolutiva. La base popolare è incline alla prudenza e al non intervento, dal 55 al 70 per cento in Francia, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, i Paesi che per tradizione sono sempre stati i più disposti ad agire. Ma la questione non nasce dal dramma siriano. Sotto Obama, Washington vuole dimenticare il passato e gli errori commessi nel dopo Guerra Fredda e tenta di rinnovare i rapporti con Mosca, accarezzando il sogno di ripartire da zero. Riguardo all'Unione europea, essa è priva, sin dalla sua nascita, di una politica estera coerente, autonoma e condivisa: a seconda dei casi e delle congiunture, i Paesi che la compongono si sono dichiarati via via neutri e quindi esitanti, scottati dalla recente sudditanza, e quindi russofobi, aggrappati al senso degli affari, e quindi russofili, e continuano a beccarsi gli uni con gli altri. Prigionieri degli incubi del passato, preferiscono richiudersi su se stessi quando la Siria lancia la sua sfida all'umanità.
Esiste ancora ombra di dubbio? Chi ha usato i gas contro chi? Siamo seri: tutti gli indizi concordano nel puntare il dito contro il tiranno di Damasco ma, per stabilire con assoluta certezza le precise responsabilità di ciascuno, ci vorrebbe un processo istruttorio del tutto impossibile in pieno conflitto. L'essenziale è altrove: più di centomila morti in due anni, innanzitutto donne e bambini, milioni di sfollati all'interno del Paese, un milione di rifugiati all'estero. Bashar al-Assad, come tutti possono constatare, ha scatenato la guerra totale contro il suo stesso popolo. Bombardamenti a tappeto, napalm nei cortili delle scuole, scudi umani. Davanti alle proteste pacifiche dei suoi concittadini, ha scelto l'escalation del terrore. Non dimentichiamo i corpi martoriati dei ragazzini colpevoli di aver scritto «vattene!» sui muri delle scuole, furono questi a scatenare lo stupore e la rabbia dell'opinione pubblica. Dagli omicidi casuali all'uso di armi chimiche di sterminio di massa, la rotta del tiranno era già tracciata. E se — ipotesi poco credibile — Bashar è riuscito a coinvolgere nella sua efferatezza criminale anche gruppi di jihadisti, questo non lo esonera minimamente: il suo massacro degli innocenti procede senza intoppi. È indispensabile metter freno a questi eccidi, per evitare che saltino tutte le linee rosse del mondo, compresa la fragile frontiera nucleare in Iran e altrove. I bambini trucidati non chiedevano nient'altro che poter continuare a vivere.
Sarebbe sbagliato ridurre l'appoggio incondizionato di Vladimir Putin a Bashar al-Assad al semplice calcolo economico-strategico che punta a salvare le briciole di un impero fallito. Se il sostegno del Cremlino è assicurato, se gli armamenti sono forniti sulla fiducia a un assassino poco raccomandabile, è perché l'interesse ideologico comune ha preso il sopravvento. Mosca vuole che un'autorità locale metta fine radicalmente ai disordini e ai sollevamenti delle «primavere arabe» e spezzi lo slancio liberatorio che potrebbe un giorno minacciare i despotismi circostanti, compresa la «verticale» putiniana, autoritaria ma fragile. Volontà di potenza di un blocco militare e poliziesco che non indietreggia nemmeno davanti all'impiego di metodi disumani? Sì. Ma più esattamente: difesa a tutto campo dell'autorità costituita, la cui legittimità principale si fonda sulla sua presa ferrea del potere e mira a conservare possessi e privilegi contro tutto e contro tutti. Per Assad come per Putin, il desiderio di cambiamento equivale a una congiura fomentata e finanziata da un nemico esterno. È il loro retaggio sovietico.
Piuttosto che la volontà di potenza è la volontà di sopraffazione a dominare oggi. Non siamo più ai tempi di Breznev, quando si sognava di conquistare il mondo con le armi, di sottomettere l'Europa con il terrore e di alimentare gli entusiasmi bolscevichi a Phnom Pen o a Johannesburg. La volontà di sopraffazione, più modesta in apparenza, si accontenta di consolidare le posizioni acquisite e di prender tempo, infliggendo al resto del mondo il massimo dell'imbarazzo per metterlo in difficoltà. L'obiettivo è quello di resistere ad ogni costo, di sopravvivere il più a lungo possibile, augurandosi che le altre potenze mondiali si sgretolino prima, cadendo nella trappola delle loro stesse contraddizioni. La crisi finanziaria e le sue conseguenze hanno dimostrato che questa attesa era ben fondata. Come a dire, siamo tutti mortali, ma voi forse prima di noi.
La comunità europea, guidata dalla Germania, sotto l'influenza della Russia e la pressione finanziaria della Cina, si tiene alla larga dal dibattito mondiale. Anche se i conflitti del Medio Oriente, come quelli del Mediterraneo, sono di importanza fondamentale, fa finta di pensare che meno ci si lascia coinvolgere, prima tornerà la pace. D'altronde ogni ingerenza, qualunque siano le motivazioni, viene equiparata al colonialismo. Molto meglio lasciar campo libero ai militari più feroci, da un lato, e dall'altro ai radicali più assassini. L'Unione europea deve restare un'oasi di tranquillità e di felicità rispettata da tutti, lontana da tutti, sostengono i nostri pseudoingenui. Come nel 1939? E, ad ogni modo, non ha già abbastanza problemi alle prese con i suoi 28 membri per affrontare le grane altrui? Resta da vedere se questi «altri» saranno disposti a condividere la medesima passività.
Le esitazioni e le vacillazioni di Obama non dipendono da una debolezza di carattere, ma dall'affrontare una svolta storica. Non è più ammissibile che un'unica potenza si occupi di gestire unilateralmente le criticità globali, anche in assenza di una compartecipazione pluralistica. Ma per evitare il peggio, occorre metter fine al massacro indiscriminato di bambini e allo sterminio sistematico di un'intera popolazione con le armi chimiche. Per questo motivo è necessaria la risposta franco-americana.
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