Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 30/08/2013, a pag. 1-29, l'articolo di Gianni Riotta dal titolo " Se manca la strategia ", l'articolo di Tony Blair dal titolo " Ma bisogna intervenire ", a pag. 5, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Incrociatori russi di fronte alla flotta Nato ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 16, l'articolo di Guido Olimpio dal titolo " Il preavviso dà un vantaggio ai siriani ", a pag. 19, l'intervista di Massimo Gaggi a Michael Rubin dal titolo " Questa volta l’obiettivo non è abbattere il regime ma dargli una lezione ".
Ci chiediamo per quale motivo dal quotidiano Il GIORNALE continua a mancare la firma di Fiamma Nirenstein.
Ecco i pezzi:
La STAMPA - Gianni Riotta : " Se manca la strategia "
Gianni Riotta
Cosa manca al presidente Barack Obama in vista del raid militare contro il regime alawita siriano di Assad?
Una strategia: perché colpire, con chi colpire e quale risultato ottenere con il blitz.
Due anni dopo aver parlato di caduta di Assad, un anno dopo avere giurato che l’uso di gas avrebbe scatenato il blitz Usa, il Presidente contempla un difficile panorama. Dall’Onu nessun semaforo verde, il flemmatico Segretario Ban Ki Moon attende i suoi ispettori «per finesettimana» e il capo della diplomazia russa,Lavrov, ha già ordinato di bloccare l’iniziativa britannica di una risoluzione alle Nazioni Unite contro l’uso di gas letali, in violazione della Convenzione di Parigi sull’uso delle armi chimiche del 1993.
Il premier inglese David Cameron, unico alleato degli Usa con il presidente francese Hollande a dirsi d’accordo sul blitz contro Assad, è nei guai dopo la storica sconfitta di ieri notte in Parlamento. Per 13 voti, con un’aperta rivolta dei conservatori, i deputati hanno bocciato il loro premier, che pure aveva promesso un secondo voto prima del blitz: «No» all’intervento in Siria dall’House of Commons. Un evento straordinario che segnala l’acutezza del momento. L’intelligence inglese afferma di avere le prove che i gas sono stati lanciati dal regime siriano, gli americani concordano precisando di non sapere «chi» abbia dato l’ordine diretto. La Camera dei Comuni nega però a Cameron il via libera, memore dei guai del laburista Tony Blair ai tempi dell’invasione dell’Iraq 2003. E il leader laburista Miliband, finora ai margini della scena, spera in una rimonta di immagine sul caso Siria.
Anche il Congresso americano, non tanto perché davvero preoccupato della situazione in Medio Oriente, ma perché consapevole, come i colleghi inglesi, che la maggioranza dei cittadini vuole lavoro e non guerre all’estero, rema contro Obama. Liberali e conservatori fiutano il Presidente in difficoltà e alzano il prezzo. Lo speaker della Camera, il repubblicano John Boehner, scrive a Obama per chiedere che il Presidente non ha una chiara strategia in Siria, lamentando la scarsa consultazione con il Congresso. 116 deputati, 98 repubblicani e 18 democratici, scrivono invece alla Casa Bianca intimando che nessun raid parta «senza l’autorizzazione del Parlamento». Insomma, sono finiti i tempi del dopo 11 Settembre quando in nome della sicurezza nazionale il Presidente aveva mano libera. Obama, incerto, deve trattare.
Paradossalmente il falco numero uno sembra Hollande, socialista francese, che incassata una cautissima riforma delle pensioni, prova ad usare la forza contro un’ex colonia ereditata dai turchi, per vellicare l’orgoglio imperiale della nazione, anche se la sconfitta di Cameron lo indurrà a più miti consigli. Ieri, con un tweet da @martadassu la viceministro degli Esteri Marta Dassu ha chiarito la posizione italiana, replicando al «Wall Street Journal»: dapprima sembrava che l’Italia sarebbe intervenuta solo con un mandato Onu contro Assad, poi nemmeno in questo caso, ora la vice del ministro Emma Bonino conclude che l’Italia interverrebbe con un mandato Onu. Vedremo in che direzione evolverà la nostra diplomazia dopo lo stop di Londra.
Obama voleva, in fretta e furia, lanciare qualche missile Cruise Tomahawk contro basi militari in Siria per mantenere la parola data «No gas!» e ammonire Russia, Cina e Iran sulle sue intenzioni in Medio Oriente. Si accorge che Damasco è capitale ostica. Alessandro Magno, nel 333 avanti Cristo, la conquistò con tanto bottino da far ammirare gli storici e richiedere 7000 bestie da soma per il trasporto, incluse 55 tonnellate d’oro e l’intera famiglia dell’imperatore persiano Dario. Molto difficile ripeterne l’exploit con Assad.
Il regime minaccia, con la solita retorica, rappresaglie, il premier siriano Wael Al-Halqi annuncia la tradizionale «tomba per gli invasori» e l’ambasciatore all’Onu Bashar Ja’afari indica in Israele il bersaglio, sul modello del raid di Saddam Hussein durante la Guerra del Golfo. Altrettanto truculento il generale di Stato Maggiore iraniano Hassan Firouzabadi: «Attaccano la Siria? Israele brucerà».
Propaganda, ma serve a spaventare Barack Obama, al suo primo, vero, test di politica estera. Un blitz mordi e fuggi, alla Reagan in Libano o alla Clinton dopo l’attacco alle ambasciate Usa in Africa, non sarà facile, la Siria e i suoi padrini, Russia, Iran, Hezbollah, reagiranno in qualche modo.
Discretamente, a Gaziantep, in Turchia, ribelli del Consiglio Militare Supremo e del Libero Esercito Siriano consultano agenti americani per concordare i bersagli del blitz. Il regime alawita di Assad ha costruito molte basi militari in quartieri popolosi e i ribelli non vogliono essere accusati di avere diretto il fuoco contro i connazionali. Dall’inizio della guerra civile l’opposizione non è riuscita ad incidere nel consenso della base di Assad, gli alawiti, ma anche i cristiani restano scettici, temendo i fondamentalisti, i salafiti, al Qaeda e gli altri terroristi infiltrati tra i ribelli. La mappa dei possibili siti da colpire include gli aeroporti di Damasco, Aleppo, Homs e Latakia. Gli inglesi hanno già mobilitato due caccia Typhoons a Cipro, per la «difesa aerea», altri quattro arriveranno entro oggi. Ma Putin – che resta in silenzio sulla crisi in Siria, lasciando la parola a Lavrov per tenere sulla corda Obama - ha ordinato che altre due navi russe incrocino nel Mediterraneo, «in chiave anti sommergibile» dicono i dispacci militari: per rendere più difficile la vita ai sommergibili Usa che monitorano e possono colpire Damasco.
Il dilemma strategico di Barack Obama è così sintetizzato da Matthew Waxman del Council on Foreign Relations: «Il Presidente deve fermare le atrocità di Assad contro i civili, mantenere la credibilità internazionale evitando che la sua parola perda di peso, senza però che il raid destabilizzi il Medio Oriente, dalla guerra ad al Qaeda alla crisi nucleare in Iran».
Ci sono momenti in cui un leader non può che giocare d’azzardo, l’«alea iacta est» di Cesare e l’algoritmo del matematico russo Kolmogorov, calcolare quando un semplice rischio è la migliore strategia possibile. Ma nella vita, personale e politica, di Barack Obama l’azzardo non è mai entrato, tutto è frutto di lavoro, talento e pianificazione precisa di ogni mossa, i pro e i contro vagliati al millesimo. Ora non gode più del cerebrale beneficio di «planning», progettare, deve agire secondo principi, istinto, fiuto, il cervello non basta, servono «guts», la pancia. Come ne uscirà sarà un capitolo importante del giudizio che la Storia trarrà di lui e non ha troppi giorni, stavolta, per ponderare: aspettare, amletico, tra il sì, il no, il magari, è un modo, forse il meno felice, per decidere.
L’incertezza è un lusso che i profughi siriani in fuga dalle aree di Damasco considerate bersaglio del raid non possono concedersi. Devono agire subito, testa o croce, per loro niente calcoli possibili. Migliaia di famiglie hanno raccolto poche masserizie e si avviano al confine libanese. Chi resta ha la cucina colma di cibo in scatola, pane, acqua, carburante per generatori elettrici, pile per le radio, medicine per gli ammalati e aspetta le scelte dei Grandi.
La STAMPA - Tony Blair : " Ma bisogna intervenire "
Tony Blair
La politica occidentale è a un bivio: parlare o agire; plasmare gli eventi o reagire a essi.
Dopo le lunghe e dolorose campagne in Iraq e Afghanistan comprendo l’impulso a tenersi alla larga dalle crisi, a guardare senza intervenire, a inasprire il linguaggio senza impegnarsi nel duro, anche scabroso compito di cambiare la realtà sul terreno. Eppure dobbiamo capire quali conseguenze implica torcersi le mani invece di metterle all’opera.
La gente freme al pensiero di un intervento. Ma contemplate le conseguenze future dell’inazione e rabbrividirete: la Siria, impantanata nella carneficina, divisa tra la brutalità di Bashar al-Assad e i vari affiliati di Al Qaeda, un terreno di coltura dell’estremismo infinitamente più pericoloso dell’Afghanistan nel 1990; l’Egitto nel caos, con l’Occidente che, quanto ingiustamente, sembra stia dando soccorso a chi vorrebbe trasformarlo in una versione sunnita dell’Iran, e lo stesso Iran che, nonostante il suo nuovo presidente, è ancora una dittatura teocratica, in possesso della bomba atomica. L’Occidente confuso, i suoi alleati costernati, i suoi nemici rafforzati. Questo è uno scenario da incubo ma non è inverosimile.
Partiamo dall’Egitto. Per molti in Occidente, è chiaro che l’esercito egiziano ha rimosso un governo democraticamente eletto e ora sta reprimendo un legittimo partito politico, uccidendo i suoi sostenitori e imprigionando i suoi leader. Quindi siamo ben avviati a ostracizzare il nuovo governo. In tal modo, pensiamo, stiamo sostenendo i nostri valori. Capisco perfettamente questo punto di vista. Abbracciarlo, tuttavia, sarebbe un grave errore strategico.
La fallacia di quest’approccio sta nella natura dei Fratelli Musulmani. Lo pensiamo un normale partito politico. Non lo è. Se vuoi entrare nel Partito Conservatore britannico o nella Cdu tedesca o nel Partito Democratico americano, potrai farlo senza difficoltà e sarai accolto a braccia aperte. In tutti questi paesi, tutti i partiti rispettano le libertà democratiche fondamentali.
Non è così per i Fratelli Musulmani. Diventare un membro è un processo che richiede sette anni di soggezione e indottrinamento. La Fratellanza è un movimento gestito da una gerarchia più simile a quella bolscevica.
Leggeteilorodiscorsi–nonquellidiffusiadarteper le orecchie occidentali, ma quelli a uso interno. Quello che stavano facendo in Egitto non era «malgoverno». Se si sceglie un cattivo governo, per quanto duro – ci si convive. I Fratelli Musulmani, invece, stavano cambiando sistematicamente la costituzione e prendendo ilcontrollodellelevefondamentalidelloStato,alfinedi rendere impossibile ogni messa in discussione del loro potere. E lo facevano perseguendo valori che contraddicono tutto ciò che distingue una democrazia.
Così si possono a buon diritto criticare le azioni o le reazioni eccessive del nuovo governo militare egiziano, ma è difficile criticare l’intervento che l’ha portato in essere. Ora tutte le scelte che l’Egitto ha di fronte sono sgradevoli. Tra le vittime c’è un gran numero di soldati e poliziotti, oltre che civili e, in parte come sottoprodotto della caduta della Libia di Muammar el-Gheddafi, l’Egitto è pieno di armi. Limitarsi a condannare l’esercito, però, non avvicinerà per nulla il ritorno alla democrazia.
L’Egitto non è una creazione dei giochi di potere globali del XIX o del XX secolo. E’ un’antica civiltà che risale a migliaia di anni fa, intrisa di fiero orgoglio nazionale. L’esercito ha un posto speciale nella sua società. La gente vuole la democrazia, ma guarda con disprezzo i critici occidentali che vede come assolutamente ingenui di fronte alla minaccia alla democrazia posta dai Fratelli Musulmani.
Dovremmo sostenere il nuovo governo nella stabilizzazione del paese; urge che tutti, compresi i Fratelli Musulmani, abbandonino le strade e permettano un giusto e breve percorso verso le elezioni sotto il controllo di osservatori indipendenti. Dovrebbe essere redatta una nuova costituzione che protegga i diritti delle minoranze e l’etica di base del paese e tutti i partiti politici dovrebbero operare secondo regole che assicurino trasparenza e impegno per il processo democratico.
Questo è l’unico modo realistico per aiutare coloro – probabilmente la maggioranza – che vogliono una vera democrazia e non un voto utilizzato come mezzo di dominazione.
In Siria sappiamo cosa sta accadendo – e sappiamo che è sbagliato lasciare che accada. Ma accantoniamo ogni argomento morale e per un momento pensiamo solo agli interessi mondiali. Non fare nulla significherebbe la disintegrazione della Siria, divisa nel sangue, con i paesi intorno destabilizzati e ondate di terrorismo nella regione. Assad rimarrebbe al potere nella partepiùriccadelpaese,mentreilretroterraorientale del paese sarebbe preda della più aspra rabbia settaria. L’Iran, con il sostegno della Russia, guadagnerebbe ascendente – l’Occidente sembrerebbe impotente.
Hosentitoalcunidirechenonsipuòfarnulla:isistemi di difesa siriani sono troppo potenti, le questioni troppo complesse e in ogni caso, perché schierarsi quando sono uno peggio dell’altro?
Ma altri si stanno schierando. Non sono terrorizzati dalla prospettiva di un intervento. Stanno intervenendo a sostegno di un regime che sta aggredendo i civili in modo che non si vedeva dai tempi bui del Saddam Hussein.
E’ ora che prendiamo posizione: dalla parte delle persone che vogliono quello che vogliamo; che vedono le nostre società, con tutti i loro difetti, come qualcosa da ammirare, che sanno che non dovrebbero essere messidifronteaunasceltatratiranniaeteocrazia.Detesto l’idea, implicita dietro tanti nostri commenti, che gliarabio,peggioancora,ilpopolodell’Islam,nonsiain gradodicapirecom’èunasocietàlibera,chenonpossa avere fiducia in qualcosa di così moderno come un sistema politico in cui la religione sta al suo posto.
Non è vero. È vero invece che è in atto una lotta mortalesulfuturodell’Islam,congliestremistichemirano a sovvertire sia la sua tradizionale apertura mentale sia il mondo moderno.
In questa lotta non dovremmo rimanere neutrali. Ovunque questo estremismo sta distruggendo la vita di persone innocenti – dall’Iran alla Siria, all’Egitto, alla Libia alla Tunisia, così come altrove in Africa, Asia centrale ed Estremo Oriente – dobbiamo essere al loro fianco.
Essendo uno degli architetti della politica dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, conosco la difficoltà, l’angoscia, e il costo delle decisioni prese. Capisco perché il pendolo abbia oscillato così pesantemente nell’altra direzione. Ma non è necessario tornare a quella politica per fare la differenza. E le forze che hanno reso l’intervento in Afghanistan e in Iraq così difficile sono naturalmente le stesse forze oggi al centro della tempesta.
Devono essere sconfitti. Dobbiamo sconfiggerli, per quanto tempo possa occorrere, perché altrimenti non spariranno. Diventeranno più forti, fino a quando si raggiungerà un altro bivio; a quel punto non ci sarà scelta.
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Incrociatori russi di fronte alla flotta Nato"
Maurizio Molinari
Vladimir Putin rafforza lo schieramento navale nel Mediterraneo Orientale per ostacolare i piani dell’attacco americano al regime di Bashar Assad. Dall’inizio dell’escalation siriana il leader del Cremlino ha scelto il silenzio, lasciando ai diplomatici il compito di smentire le accuse ad Assad di aver usato i gas, ma ora compie una mossa militare: l’invio dei lanciamissili «Moskva» e «Varyag» assieme ad una «grande unità anti-sommergibili».
Attraverso l’agenzia Interfax lo stato maggiore russo spiega che sono «correzioni necessarie allo schieramento navale in ragione dei noti sviluppi in corso». Poiché Mosca ha già nell’area 16 navi da guerra e tre portaelicotteri l’intenzione è di aggiungere unità che rendano più visibile il primo dispiegamento permanente di navi nel Mediterraneo dalla dissoluzione dell’Urss. «È una manifestazione di diplomazia delle cannoniere da parte di Mosca - commenta Lee Willett, direttore di Jane’s Navy International - nel deliberato tentativo di interferire in qualsiasi tipo di attacco».
Per comprendere l’entità dell’ostacolo navale che Putin sta costruendo davanti alla Siria – e in particolare al porto di Tartus, ultimo approdo amico rimasto alla flotta russa nel Mediterraneo – bisogna tener presente due elementi.
Il primo è politico, perché evidenzia l’impegno di Putin a difesa di Assad, ma il secondo è tattico perché la presenza di oltre venti navi russe complica i movimenti della flotta che Washington, Londra e Parigi stanno posizionando per l’attacco. Ed è un grattacapo per il Pentagono in quanto i piani di intervento si basano in grande parte sulle unità navali per via della necessità di affidarsi al lancio di missili Tomahawk in ragione dell’impossibilità di usare i cacciabombardieri F-22 e F-15 sui cieli siriani, nel timore di vederli bersagliati dalle difese antiaeree fornite da Mosca ad Assad: le batterie di vecchi S-200 e i più recenti SA-22 e SA-17. Gli unici aerei che il Pentagono può impiegare evitando tali rischi sono i droni, i bombardieri strategici o i caccia capaci di lanciare bombe guidate a centinaia di chilometri di distanza ma ciò non basta a garantire il successo del bombardamento.
Ad avvalorare lo scenario di un’operazione alleata soprattutto navale – unità di superficie e sottomarini – ci sono le mosse del capo del Pentagono Chuck Hagel che ha ordinato ieri alla quinta unità lanciamissili di schierarsi davanti alla Siria. È lo «Stout» che aggiunge ai «Mahan», «Ramage», «Barry» e «Gravely» ognuno dei quali può lanciare un massimo di 45 Tomahawk: toccherà a queste navi, affiancate da unità simili britanniche e francesi, guidare l’attacco potendo contare anche sul sostegno dei sottomarini e delle squadre navali delle portaerei «Nimitz» e «Truman» in navigazione fra Golfo Persico e Oceano Indiano.
Il regime di Assad nell’ultimo anno si è preparato a questo scenario, accumulando scorte di missili antinave cinesi e in particolare russi: i supersonici «Yakhont», capaci di colpire a 300 chilometri di distanza con una testata di 200 chili. «Gli Yakhont sono difficili da individuare e ancor più da abbattere o ingannare» assicura Nick Brown, direttore di «Jane’s International Defense Review».
Non è un caso che il 5 luglio, secondo fonti Usa, Israele colpì con missili sottomarini proprio un deposito di «Yakhont» vicino Latakia. Armi in dotazione ad Assad e mosse di Putin sono tasselli di un unico mosaico: i missili antinave obbligano le navi alleate ad operare a grande distanza spingendole verso il Mediterraneo orientale dove la presenza di unità russe ne ostacola i movimenti. Ciò non impedisce a Washington di lanciare il blitz ma ne complica la gestione, mettendo a rischio i risultati.
Ma le mosse di Putin non finiscono qui: la telefonata al presidente iraniano Hassan Rohani suggerisce che altro è in arrivo.
CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " Il preavviso dà un vantaggio ai siriani"
Guido Olimpio
L’effetto sorpresa è svanito. Anzi non c’è mai stato. Da giorni Damasco sa che potrebbero arrivare i missili. E ha cercato di correre ai ripari. Diverse installazioni sono state evacuate e alcuni reparti hanno raggiunto nuove posizioni. Fonti ribelli hanno segnalato in particolare movimenti attorno alla base della IV Divisione — l’unità regina guidata da Maher Assad — e nella zona del Comando Centrale. Soldati e ufficiali avrebbero lasciato gli uffici del raid schierandosi in un’area montuosa a nord della capitale. Sembra che Assad abbia sgomberato anche una ventina di missili scud. Ieri Time ha ribattezzato Obama come «il guerriero infelice» per la scarsa propensione (teorica) alle azioni belliche. In realtà è un temporeggiatore. Che, in certe situazioni, può essere un pregio, ma che in termini militari può rivelarsi controproducente. La Casa Bianca, lasciando intendere di voler colpire, ha dato un vantaggio ai siriani. Magari piccolo, ma è comunque un segnale d’avviso. L’altro aspetto riguarda gli obiettivi. Indiscrezioni di fonte ufficiale hanno inondato i media sui bersagli designati dal Pentagono. Una cinquantina, si è detto. Certo, può trattarsi di un’opera di disinformazione. Le fughe di notizie, però, sono legate ad un’esigenza politica, quella di sottolineare che la Casa Bianca non pensa ad un’offensiva massiccia, piuttosto ad un intervento mirato e limitato. Da qui la lista pubblica, con la precisazione che probabilmente alcuni impianti per le armi chimiche saranno risparmiati. Gli americani vogliono evitare che le esplosioni inneschino una reazione a catena, con nubi di gas tossico fuori controllo. Vedremo se è così. Lo scenario che si prefigura è ben diverso da quello che ha avuto per protagonista Israele. Gerusalemme ha attaccato di sorpresa per tre volte in Siria, distruggendo depositi di missili e altri siti ritenuti strategici. Molta «nebbia di guerra» a nascondere i sistemi impiegati e target inceneriti. È costume israeliano agire senza dire. Per settimane si è discusso su cosa abbiano distrutto e come nei pressi di Latakia. Un dibattito confinato nell’arena degli esperti e dunque con scarso impatto diplomatico. Anche se i crateri delle bombe restano.
CORRIERE della SERA - Massimo Gaggi : " Questa volta l’obiettivo non è abbattere il regime ma dargli una lezione "
Michael Rubin
Alla vigilia del probabile attacco americano in Siria, il fantasma dell’Iraq si affaccia nei commenti della stampa anglosassone (dal New York Times alla Cnn, alla britannica Bbc) e al Congresso, dove alcuni parlamentari democratici invitano a non lanciare «raid» affrettati, a cercare il più ampio consenso internazionale possibile e, soprattutto, a esibire prove «blindate» dell’uso di armi chimiche da parte del regime di Assad, per evitare una nuova perdita di credibilità e autorità degli Usa come quella di dieci anni fa, quando George Bush ordinò l’invasione dell’Iraq alla ricerca di inesistenti armi di distruzione di massa.
Lo stesso Barack Obama, che ha sempre considerata quella dell’Iraq una guerra sbagliata, sente l’imperativo di agire ma è anche preoccupato dagli aspetti di legittimità dell’attacco Usa sul piano del diritto internazionale. E ora pare disposto ad attendere la conclusione del lavoro degli ispettori Onu.
Ma per esperti come Michael Rubin, un ex stratega del Pentagono ora analista dell’American Enterprise Institute, grande think tank conservatore e fucina del pensiero «neocon» negli anni della presidenza Bush, farsi condizionare dal caso Iraq è sbagliato e molto pericoloso.
Eppure quella guerra alla ricerca di armi che non c’erano è costata moltissimo agli Usa in vite umane, miliardi di dollari e avversione del popolo americano a impegnarsi in nuovi conflitti.
«Quello che si sta studiando ora per la Siria è un intervento molto diverso. A differenza dell’Iraq, stavolta nessuno pensa di portare truppe americane in territorio siriano. Nessuna occupazione, né ci sono obiettivi di “nation building” (costruzione nazionale, ndr ). Quanto alla giustificazione dell’attacco in Iraq, dissento da lei: l’emorragia di credibilità non ha riguardato gli Stati Uniti ma l’Europa per il suo cinismo sull’Iraq, i suoi antichi traffici con Saddam Hussein e altri regimi-canaglia e la sua incapacità di agire efficacemente sul piano militare».
Ma oggi il monito a non ripetere gli errori di dieci anni fa non viene certo solo dall’Europa.
«È vero e abbiamo sbagliato anche noi: dopo la guerra in Iraq, le espressioni “intervento unilaterale” e “azione preventiva” sono diventate in molti ambienti di Washington parole sporche, da non usare. Così anche davanti all’accumularsi di notizie circa il dispiegamento e poi l’uso di armi chimiche, per molto tempo l’amministrazione Obama ha dato la sensazione di essere esitante, nonostante i moniti che lo stesso presidente aveva solennemente formulato un anno fa: aveva promesso punizioni severe se quella “linea rossa” fosse stata superata. Ma per un regime-canaglia una linea rossa superata senza sanzioni immediate equivale a un semaforo verde. È, di fatto, il segnale che abbiamo dato a dicembre quando arrivarono i primi rapporti sui preparativi negli arsenali chimici e poi ancora a marzo quando Assad e i gruppi di opposizione si accusarono reciprocamente di aver usato i gas letali. Senza alcuna reazione significativa da parte americana».
Dunque secondo lei Assad adesso è da eliminare, bisogna dimostrare al mondo che chi usa armi chimiche non se la cava.
«Non ho detto questo. Certamente bisogna agire e punire il dittatore siriano perché se Assad si convince che il peggio che gli può capitare lanciando bombe al sarin è un tweet sprezzante dell’ambasciatrice Usa all’Onu Samantha Power, gli attacchi col gas diventeranno la norma, anziché l’eccezione. Con ripercussioni che potrebbero arrivare fino in Nord Corea e perfino nella Turchia di Erdogan se i colloqui di pace coi curdi che vivono nel Paese dovessero fallire. Assad deve avere una punizione dura, deve essere indotto a non usare mai più il suo arsenale chimico, magari anche bombardando i palazzi presidenziali. Ma ucciderlo, decapitare il regime non è più un’opzione perché significherebbe aprire le porte della Siria ad Al Qaeda».
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