Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 29/08/2013, a pag. 9, l'intervista di Davide Frattini al Gen. Serra dal titolo " Siamo sempre al telefono con Israele e Hezbollah " preceduta dal nostro commento, a pag. 11, l'intervista di Ennio Caretto a Michael Novak dal titolo " Assad? Bisognava eliminarlo un anno fa. Ora è troppo tardi" , preceduta dal nostro commento, l'intervista di Viviana Mazza a Ian Bremmer dal titolo " Intervento mirato. L’obiettivo non è il cambio di regime ".
Ecco i pezzi:
Davide Frattini - " Siamo sempre al telefono con Israele e Hezbollah "

Gen. Paolo Serra
Ci saremmo aspettati una valutazione dei rischi per la zona, specie per Israele, più approfondita dal Gen. Serra, a capo della missione Unifil.
GERUSALEMME — Stanno seduti su tre tavoli separati e il generale italiano fa da telefono senza fili diplomatico. «Uno mi dice “spieghi al signore...”, l’altro mi sussurra “gli risponda che”...». Paolo Serra, alpino, è l’ufficiale italiano che da due anni comanda l’Unifil, la forza delle Nazioni Unite piazzata su una delle frontiere più complicate del Medio Oriente.
L’ultima settimana di ogni mese riunisce insieme i militari israeliani e libanesi. L’incontro di ieri è arrivato mentre gli americani stanno preparando l’attacco alla Siria. Che confina con tutti e due i Paesi e potrebbe scegliere di portare il caos dall’altra parte con una rappresaglia contro Israele, un attacco diretto o attraverso Hezbollah, il gruppo sciita libanese alleato del regime. «Abbiamo parlato per tre ore — racconta il generale Serra al telefono — e abbiamo concordato quanto sia importante garantire la calma nella zona».
Per ora il livello di allerta per le truppe Onu non è stato innalzato, «anche perché è già molto alto, siamo passati a giallo dopo l’attentato a Tripoli di sei giorni fa». Le due autobomba esplose fuori dalle moschee sunnite nella città a nord sono l’ultimo segnale che la guerra civile siriana tracima verso il Libano. Già da mesi, senza la mobilitazione delle portaerei americane nel Mediterraneo.
Il giorno prima della strage a Tripoli quattro razzi sono stati lanciati su Israele. L’azione è stata rivendicata dalle Brigate Abdullah Azzam (legate ad Al Qaeda, portano il nome del mentore di Osama Bin Laden), lo Stato ebraico ha risposto con un raid dopo ventiquattro ore su una base del Fronte popolare di liberazione della Palestina-Comando generale, alleato di Damasco.
E’ quello che potrebbe ripetersi nelle prossime settimane. Missili «anonimi» (difficili da attribuire) verso Israele o un attacco proprio contro i soldati di Unifil. Il mandante sarebbe lo stesso: il regime di Bashar Assad. «Le reazioni siriane più probabili all’eventuale bombardamento americano saranno laterali e indirette», spiega l’analista francese Joseph Bahout all’Associated Press .
Ieri il generale Serra ha affrontato gli «incidenti» del mese di agosto, compreso lo sconfinamento di una jeep israeliana (saltata su una carica esplosiva, quattro militari feriti). «Dobbiamo continuare a costruire la fiducia tra le due parti, questi incontri mensili permettono di chiarirsi».
L’Unifil opera con il nuovo mandato definito dalla risoluzione Onu 1701 dopo i trentaquattro giorni di guerra tra Israele ed Hezbollah nel 2006. I caschi blu si muovono in quella che è terra del movimento sciita. La decisione dell’Unione Europea di inserire l’ala militare del gruppo tra le organizzazioni terroristiche potrebbe aumentare la tensione.
Gli europei più numerosi tra i soldati Onu sono gli italiani (1.174), i francesi sono 866, gli spagnoli 591, gli irlandesi 360, i tedeschi 192. Da ospiti rischiano di essere diventati bersagli, come spiega Ali Ahmed Zawi, sindaco di una villaggio e sostenitore di Hezbollah, al Financial Times : «Noi li trattiamo come invitati nelle nostre case, li proteggiamo, e quale trattamento riceviamo in cambio? Ci mettono nella lista dei terroristi». Un dirigente del movimento è ancora più diretto: «Come possono i libanesi del sud accettarti in mezzo a loro, se li chiami terroristi?».
Ennio Caretto - " Assad? Bisognava eliminarlo un anno fa. Ora è troppo tardi"

Michael Novak
Ci farebbe piacere sapere quando Novak ha consigliato Obama di attaccare Assad nel momento giusto. Dirlo adesso è troppo facile. Se l'ha detto prima tanto di cappello, ma ci indichi dove e quando.
«Assad poteva e doveva essere rimosso un anno fa, quando era più debole di adesso e l’opposizione era più forte. Obama ha sbagliato a non tentare di farlo, le possibilità che ci riuscisse erano buone. Ma a questo punto, se fossi in lui non ci proverei. E’ troppo tardi, e anche se avesse successo, cosa di cui non lo ritengo capace, le conseguenze potrebbero essere negative. In futuro? Non saprei. Mi auguro che Assad venga deposto e che forze moderate prendano il potere. Ma è impossibile prevedere che cosa accadrà in Siria nei prossimi mesi».
Al telefono dalla Ave Maria University in Florida, il filosofo cattolico conservatore Michael Novak dichiara che il presidente Obama ha perso un’occasione che non gli si ripresenterà più. L’ex ambasciatore presso la Commissione dei diritti umani dell’Onu e la Conferenza sulla sicurezza e la collaborazione in Europa aborrisce le guerre ma non perdona ad Assad l’uso dei gas tossici nel conflitto civile siriano: «E’ un crimine contro l’umanità — rileva — non può passare impunito».
Perché teme che una campagna per la rimozione di Assad avrebbe effetti negativi? Nel ’99 il presidente Clinton fece bombardare il leader serbo Milosevic finché non abbandonò il Kosovo. Obama non potrebbe fare lo stesso?
«Per due ragioni. La prima è che diffido del team di politica estera e militare di Obama: né il presidente, né il segretario di stato Kerry, né il ministro della difesa Hagel avrebbero la determinazione e la costanza di Clinton, non porterebbero a termine una campagna così lunga. La seconda ragione è che i ribelli siriani non sono quelli di un anno fa. Un anno fa erano, direi, puliti, erano cioè in prevalenza forze democratiche. Oggi sono inquinati, nelle loro file si nascondono terroristi di Al Qaeda ed estremisti islamici di ogni tipo. Non si può consegnare loro il potere».
Se il team di politica estera e militare americano fosse diverso, lei appoggerebbe un’operazione bellica per la destituzione di Assad?
«Un team diverso avrebbe già agito, come le ho detto. In casi disperati come quello della Siria, il cambiamento di regime è un principio ancora valido: le violazioni dei diritti umani di Assad sono inaccettabili, come lo furono quelle dei talebani in Afghanistan e di Saddam Hussein in Iraq. Un’altra amministrazione americana avrebbe appoggiato subito i ribelli e li avrebbe preparati alla democrazia. Adesso i bombardamenti potrebbero non bastare per deporlo, forse ci vorrebbero anche truppe di terra. E il popolo americano non è pronto per un’altra guerra mentre è ancora in corso quella afghana».
E’ d’accordo con l’operazione chirurgica su obbiettivi militari prospettata da Obama?
«Tracciando la cosiddetta linea rossa un anno fa contro il ricorso di Assad ad armi chimiche il presidente non si è lasciato alternative. E’ in un terribile dilemma. Se non facesse nulla, perderebbe credibilità. Se facesse troppo si alienerebbe molti Paesi arabi. Il problema è che nessuno sa come reagirà Assad, che si metterà certamente al riparo in un luogo sicuro in caso di un nostro attacco mirato. Dirà di essere sopravvissuto ai nostri bombardamenti e quindi di averci sconfitto? Estenderà il conflitto oltre i confini siriani, se ne avrà ancora i mezzi?».
Lei teme per la sicurezza di Israele? Non è in grado di difendersi e di contrattaccare se aggredita?
«Israele vive sotto una minaccia continua non solo da parte della Siria ma anche di Hezbollah in Libano, di Hamas in Palestina e soprattutto dell’Iran. Sa difendersi, ma il pericolo è che una escalation del conflitto coinvolga un’intera parte del Medio Oriente. Spero che la Russia, che ha molta influenza su Damasco e su Teheran, prevenga una svolta per il peggio. La posta in gioco è enorme».
Non è possibile che Assad venga indebolito al punto da fare la fine di Gheddafi in Libia?
«Non si può escludere nulla ma in Libia i bombardamenti durarono due mesi, non due o tre giorni come sembra l’intenzione di Obama. La lezione libica, inoltre, è che prima di deporre un dittatore bisogna accertarsi che gli subentrino dei moderati. E noi, ripeto, questa certezza purtroppo non ce l’abbiamo. Non abbiamo aiutato i moderati in Siria».
Viviana Mazza - " Intervento mirato. L’obiettivo non è il cambio di regime "

Ian Bremmer
«Forse tu non sei interessato alla guerra, ma la guerra è interessata a te»: aforisma di Trotsky che il politologo americano Ian Bremmer, presidente del think tank «Eurasia Group», ha scritto più d’una volta su Twitter negli ultimi giorni. Non a caso. Gli Stati Uniti hanno «trascinato i piedi» cercando di evitare l’intervento militare in Siria, spiega al Corriere lo studioso che nel 2001 creò il primo «indice di rischio politico» di Wall Street e nel 2011 coniò l’espressione «mondo del G-zero», in riferimento all’attuale mancanza di leadership globale. Anche ora che gli Usa si preparano ad attaccare, stanno cercando di sottrarsi ad un vero coinvolgimento nella guerra civile in atto nel Paese mediorientale. «L’obiettivo non è un cambio di regime, ma un’operazione militare chirurgica in risposta alla violazione delle norme internazionali sulle armi chimiche e ad un affronto alla credibilità dell’America». Bremmer avverte però che «l’intervento limitato» può sfuggire di mano e portare ad una pericolosa escalation.
Che tipo di operazione si aspetta in Siria?
«Per rispondere a questa domanda, va capito perché Washington si prepara a intervenire. L’obiettivo non è di risolvere la crisi siriana, non credo che Obama immagini un cambio di regime: non è intervenuto dopo 200.000 morti e dopo che il Paese è stato distrutto dal conflitto settario, ma ha detto chiaramente che l’uso di armi chimiche è inaccettabile. Quella “linea rossa” è stata completamente ignorata, all’inizio in modo più limitato e più difficile da provare, poi uccidendo centinaia di persone, bambini inclusi: se ora gli Stati Uniti non facessero nulla, la loro credibilità verrebbe totalmente compromessa anche su altre questioni. L’America vuole ancora evitare di restare invischiata nella guerra civile, ma deve mostrare che l’uso delle armi chimiche è inaccettabile. La cosa più probabile è un’azione Usa coadiuvata dagli alleati: attacchi “chirurgici” per debilitare la capacità militare di Assad, in particolare sull’uso delle armi chimiche. Oltre ai missili da crociera l’intervento potrebbe estendersi ai raid aerei, ma non credo che le truppe Usa scenderanno in campo. E difficilmente una campagna aerea anche lunga porterà al cambio di regime».
Vede parallelismi tra la Siria e la Libia?
«No, perché Gheddafi non aveva alleati, a parte i mercenari provenienti per lo più da Paesi africani. Assad invece ha l’appoggio attivo degli alauiti, dell’Iran, di Hezbollah e conta sul sostegno politico della Russia».
Che impatto avrà questa «punizione» di Assad?
«Se si considera l’obiettivo limitato, questo è un modo per lanciare ad Assad e agli altri regimi il messaggio che l’uso di armi chimiche, biologiche, nucleari non sarà tollerato. Ma anche un intervento così limitato, tardivo e di impatto ridotto può avere conseguenze pericolose: c’è il rischio di un’escalation. È possibile il coinvolgimento di Teheran, senza contare la probabile fine dei colloqui sul nucleare iraniano. C’è il rischio che Israele sia coinvolto nella violenza, che i rapporti Usa-Russia peggiorino ancora, e poi gli alleati americani hanno interessi diversi».
È un intervento giustificato anche al di fuori dell’Onu?
«Sarebbe preferibile altrimenti, ma quel sistema ha fallito. I membri usano il Consiglio di Sicurezza dell’Onu solo ed esclusivamente se gli conviene. La Russia porrà di certo il veto all’uso della forza contro la Siria».
Mosca dice che l’intervento porterebbe alla totale destabilizzazione.
«La Siria è già diventata simile all’Iraq senza un intervento americano. E ora la situazione in Iraq sta peggiorando proprio a causa del conflitto siriano. La Giordania poi è il Paese più a rischio di destabilizzazione. Questa sarebbe una situazione complessa anche se ci fosse una leadership internazionale decente, figuriamoci nel mondo del G-zero».
La passività di Obama è stata un errore?
«Ha cercato partner politici tra i ribelli: se non c’è riuscito è a causa di profonde divisioni nell’opposizione e della presenza di estremisti islamici. Ma gli Usa hanno commesso due errori: avrebbero potuto creare una no-fly zone negli scorsi due anni; e dovevano definire in modo più preciso la “linea rossa”. Il fatto poi di non essere intervenuti quando le armi chimiche sono state usate la prima volta, ha incoraggiato il regime».
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