Riportiamo dal FATTO QUOTIDIANO di oggi, 28/08/2013, a pag. 23, la risposta di Furio Colombo ad un lettore dal titolo "Come fare la pace in Palestina e nel mondo".
Furio Colombo Edward Said con Daniel Barenboim
I palestinesi non vengono quasi citati nelle pagine culturali perché producono molto poco. Se lo facessero, invece di lanciare sassi e fare attentati, sarebbe diverso. Comprendiamo la necessità di Colombo di dare un colpo al cerchio e uno alla botte, è la sua sigla ormai da anni e gliene lasciamo intera la responsabilità. Aggiungiamo che Barenboim (da lui definito "grande palestinese, grande israeliano") è prima di tutto argentino, che l'aggettivo "grande" gli cada a pennello, è un'opinione del tutto personale che poi sia anche uno dei propagandisti di iniziative certamente non utili ad un corretta informazione su Israele è cosa nota. In quanto alla conclusione di Colombo, per rendere difficilmente identificabile la sua analisi, mancava solo un riferimento alle stagioni che purtroppo non sono più quelle di una volta.
Ecco lettera e risposta:
Caro Colombo,
da tanti anni la seguo, fin dalle sue cronache dal Vietnam. Poiché la stimo, le chiedo: come può onestamente pensare alla volontà di accordi di pace in Palestina quando si seguita a costruire case sui territori arabi? La domanda è semplice, come spero la sua risposta.
Guido
Ringrazio per la stima e la lunga attenzione al mio lavoro. La domanda non è semplice e non è semplice la risposta. Non è semplice la domanda perché non tiene conto della vasta solitudine e indifferenza intorno ai problemi di quel punto del mondo. Israele è consigliato da tutti e affiancato da nessuno, e il rischio di cancellazione non può che restare altissimo - e così è invocato apertamente - per isolamento sia territoriale (tutti, intorno a Israele sono nemici, e lo sono fin dall'inizio, quando Israele non poteva essere colpevole di nulla) sia in un lungo seguito di vicende dimenticate, come il boicottaggio, osservato da mezza Europa in omaggio al petrolio arabo, e l'equiparazione, all'Onu, del sionismo con il nazismo. I palestinesi, da parte loro, sono stati troppo a lungo vittime dell'intransigenza araba, piuttosto che protagonisti del loro destino. Paesi ricchi e potenti e carichi di petrolio li hanno lasciasti vivere in povertà e spinti al combattimento. C'è anche poesia, letteratura, scienza e imprenditoria in Palestina. Ma se non combatte, non se ne parla. Iniziative come l'Orchestra Divan, di Said e Barenboim (un grande palestinese e un grande israeliano) o i "Palestinian String" di Nigel Kennedy cadono nel disinteresse perché non sparano, e non tirano pietre. Quando inizia un complicato accostamento fra le due parti nel tentativo di avvicinarsi di nuovo (come è accaduto in passato) a vere prospettive di pace, i commenti sono subito pessimisti e negativi e in attesa di rottura. Eppure questi tentativi non sono più difficili di quelli fra India e Pakistan, fra Pakistan e Bangladesh, e le situazioni del popolo Saharawi, ai confini con il Marocco, o della vasta provincia islamica occupata e perseguitata in Cina, o dell'indipendenza del Tibet, non provocano partecipazioni e passioni benché continuino a essere fondate esclusivamente sull'oppressione senza rappresentanza, senza voce e senza presenza internazionale. Certo che gli insediamenti in territorio palestinese sono un problema grande per l'una e per l'altra parte. Ma non erano minori i problemi che hanno segnato sangue e storia e un numero immenso di morti in Europa, e che ora abbiamo non solo risolto ma anche dimenticato, benché abbiano segnato vita e morte di intere generazioni. Se non ci fosse il pregiudizio, ci sarebbe la speranza.
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