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La Stampa - Corriere della Sera Rassegna Stampa
28.08.2013 Attacco alla Siria: Israele sa come difendersi
cronaca di Maurizio Molinari, intervista ad Etgar Keret di Davide Frattini

Testata:La Stampa - Corriere della Sera
Autore: Maurizio Molinari - Davide Frattini
Titolo: «Israele teme di più Al Qaeda. 'Meglio che Assad non cada' - Noi israeliani con la maschera nell’armadio»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 28/08/2013, a pag. 1-5, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Israele teme di più Al Qaeda. 'Meglio che Assad non cada' ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 5, l'intervista di Davide Frattini a Etgar Keret dal titolo " Noi israeliani con la maschera nell’armadio ".
Ecco i due articoli:

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Israele teme di più Al Qaeda. 'Meglio che Assad non cada' "


Maurizio Molinari

«Serve un attacco militare mirato per impedire a Bashar Assad di vincere, non per rovesciarlo»: è questo il messaggio che Yaakov Amidror, consigliere per la sicurezza del premier israeliano Benjamin Netanyahu, ha portato alla Casa Bianca durante una riunione con la parigrado americana Susan Rice a cui hanno partecipato responsabili militari e d’intelligence dei due Paesi.

I concetti esposti da Amidror durante la riunione-fiume avvenuta martedì sera nella West Wing nascono dalla convinzione del governo di Gerusalemme che «al momento non ci sono soluzioni positive per la crisi siriana».Anche per via del fatto che, come spiega Efraim Inbar direttore del centro BeginSadat, secondo una valutazione dell’intelligence israeliana, vi sarebbero in Siria almeno 10mila combattenti «jihadisti globali» ovvero riconducibili ad Al Qaeda e ai Fratelli Musulmani. E potrebbero essere loro a prevalere se il regime di Assad dovesse dissolversi. È stato l’ex capo del Mossad, Efraim Ha-Levy, ad affermare in un’intervista televisiva che «Assad non deve cadere», esprimendo i pareri prevalenti nell’establishment della sicurezza israeliana, ma l’attacco condotto con i gas chimici nelle periferie orientali di Damasco ha obbligato a rimodellare tale posizione, in ragione della crescente determinazione della Casa Bianca ad intervenire. Ecco perché Shlomo Brom, ex capo della pianificazione dell’Esercito israeliano a

Washington per una serie di conferenze, spiega che adesso «l’interesse di Israele è che Bashar Assad non esca vittorioso dalla guerra civile» perché «ha legittimato l’uso delle armi chimiche in Medio Oriente creando un pericoloso precedente» e «la sua vittoria diventerebbe un successo strategico dell’Iran e degli Hezbollah che lo sostengono».

Sono tali valutazioni che spiegano perché Gerusalemme è in favore di un’azione militare limitata, finalizzata a «punizione e deterrenza» di Assad evitando però di indebolire il regime del Baath fino a farlo cadere. Si tratterebbe dunque più di un attacco simile a quello avvenuto nell’agosto del 1998, quando Bill Clinton ordinò di colpire Afghanistan e Sudan dopo gli attacchi di Al Qaeda contro le ambasciate Usa in Africa Orientale, anziché di una campagna come quella del 1999 contro Milosevic per il Kosovo. Da qui le indiscrezioni che circolano a Washington sul fatto che esperti militari israeliani e americani abbiano discusso una lista selezionata di obiettivi da colpire tesa ad eliminare le armi più pericolose di cui dispone Assad: anzitutto quelle chimiche ma anche missili Scud, aerei e sistemi antimissilistici. Si tratta di armamenti forniti quasi esclusivamente dalla Russia, a partire dalla metà degli Anni Settanta e periodicamente ammodernati, che consentono ad Assad di colpire la popolazione civile e proteggersi dall’aria. Ma sono anche le armi più pericolose che potrebbero cadere nelle mani dei ribelli jihadisti in caso di dissoluzione del regime.

Le valutazioni israeliane sulla Siria nascono dalla convinzione che in questo momento la strategia da perseguire sia la «stabilità dell’instabilità» ovvero la continuazione del conflitto armato fra Assad, sostenuto da Hezbollah e Iran, e i «jihadisti globali»: si tratta dei più acerrimi nemici che Gerusalemme e Washington hanno nel mondo sciita e sunnita, e il loro reciproco dissanguamento di risorse umane e materiali viene considerato un elemento di stabilità regionale. Si tratta infatti di una riedizione, seppur in scala ridotta, del conflitto fra l’Iraq di Saddam Hussein e l’Iran dell’ayatollah Khomeini che fra il 1980 ed il 1988 paralizzò e indebolì quelli che erano all’epoca i più temibili avversari regionali di Usa ed Israele.

Ad avvalorare l’interesse di Gerusalemme per una Siria «stabilizzata dall’instabilità» c’è il rapporto della Cia pubblicato ieri dal quotidiano «Yedioth Aharot» sull’«incubo siriano di Israele» secondo il quale «la leadership dei ribelli è massicciamente infiltrata dai Fratelli Musulmani e dai jihadisti globali portatori di un’agenda estremista» aprendo lo scenario di un dopo-Assad «destinato ad assomigliare in peggio alle attuali situazioni di Egitto e Iraq, dove non si sa chi sia al comando». L’incubo per Israele è dunque quello di trovarsi circondata da gruppi estremisti: Hezbollah in Libano, Fratelli Musulmani e Al Qaeda in Siria, Fratelli Musulmani nella Striscia di Gaza e Fratelli Musulmani in Egitto.

Per scongiurare tale assedio Netanyahu sta già adattando la tattica militare - come i quattro raid in Siria e l’attacco dei droni in Egitto condotti nell’arco degli ultimi 12 mesi hanno dimostrato - d’intesa con i Paesi Arabi sunniti con cui più condivide l’interesse a contrastare in ogni maniera tanto l’Iran sciita che i Fratelli Musulmani: l’Arabia Saudita, che ha la maggiore capacità di intervento diretto in Siria, e la Giordania, considerata la nazione più a rischio di essere investita dal domino jihadista.

CORRIERE della SERA - Davide Frattini : " Noi israeliani con la maschera nell’armadio "


Davide Frattini       Etgar Keret

TEL AVIV — La suocera ha comprato un paio di maschere antigas cinque anni fa, «io e mia moglie Shira non ci ricordiamo più in quale armadio le abbiamo sistemate». Lo scrittore Etgar Keret non è tra gli israeliani che si sono messi in fila per recuperare la scatola imballata con le protezioni contro gli agenti chimici. «Non voglio sembrare troppo fatalista, non vedo la differenza tra morire sotto le macerie o avvelenato. Semplicemente non voglio restare vivo. Nel mio quartiere nessun appartamento ha la stanza di sicurezza e il rifugio pubblico più vicino è a un chilometro e mezzo, quando suonano le sirene hai 20 secondi di tempo per ripararti: un chilometro e mezzo in 20 secondi, neppure Usain Bolt. Direi che questo è il problema».
Azzarda a 50/50 le possibilità che il regime siriano decida di bombardare Israele come rappresaglia a un possibile intervento militare degli americani: «Non posso biasimare Bashar Assad — commenta con l’umorismo nero che colora i suoi racconti — siamo quelli più comodi da bersagliare. A chi dovrebbe puntare, al Libano o all’Iran?».
Anche Tel Aviv non è fuori dal mirino, dopo i missili lanciati contro la città dalla Striscia di Gaza nel novembre del 2012, durante gli otto giorni di conflitto tra lo Stato ebraico e i palestinesi di Hamas: «Una volta colpire Tel Aviv era un tabù, la linea rossa da non superare fissata dai nostri generali. Adesso anche questo attacco fa parte della routine terribile della regione».
Aggiorna al ritmo martellante dei grattacieli che vengono costruiti sulla costa la metafora coniata da Ehud Barak, ex ministro della Difesa e soldato più decorato nella storia del Paese: da villa in mezzo alla giungla Israele diventa un attico in cima a un palazzo traballante per il terremoto. «L’instabilità è ovunque attorno a noi. I confini che una volta erano tranquilli sono nel caos: non solo la Siria, anche l’Egitto potrebbe esplodere e coinvolgerci. Ci troviamo in una situazione che non sperimentavamo dal 1973». Quest’anno Yom Kippur, il giorno ebraico della penitenza che ha dato il nome alla guerra di quarant’anni fa, cade tra il 13 e il 14 settembre.
Keret ha appena finito di scrivere un libro per bambini, la storia di un ragazzino che si trucca da gatto per ottenere l’attenzione del padre, troppo indaffarato a comprare e vendere palazzi via telefonino anche quando dovrebbe stare con lui. Al piccolo Lev, il figlio di 7 anni, non ha neppure accennato alla possibilità di ritrovarsi di nuovo schiacciato in un fosso al bordo dell’autostrada con il papà e la mamma sdraiati sopra: «E’ successo lo scorso novembre, le sirene dell’attacco missilistico sono suonate mentre eravamo in auto. Lo abbiamo chiamato il gioco del panino. Non gli ho voluto dire che potrebbe esserci un’altra guerra, perché se dovessi avvertirlo ogni volta che Israele passa allo stato d’emergenza non parleremmo d’altro». Così non è neppure entrato nei dettagli di che cosa sia la poliomelite, l’allarme estivo che ha angosciato i genitori fino al manifestarsi di una paura più grande. «Non l’ho ancora portato all’ambulatorio per la dose aggiuntiva di vaccino che il ministero della Sanità chiede di far prendere ai nostri figli. E’ sempre la stessa gente, quella parte del Paese che si sente moderna e occidentale, a rispondere alle richieste dello Stato per il bene della collettività: Lev non rischia di venire infettato, è già stato vaccinato, il nuovo intervento serve per difendere dal virus quei gruppi — periferici nella società ma numerosi — che non hanno protetto i loro bambini, soprattutto i religiosi ultraortodossi. Succede lo stesso con il servizio militare obbligatorio: pochi compiono il dovere che dovrebbe essere di tutti».
Il suo periodo da pacifista in divisa risale a una ventina di anni fa. «Ho finito poco prima che scoppiasse la guerra americana contro Saddam Hussein e anche sotto la minaccia dei missili iracheni per me è stato un periodo liberatorio, non dovevo più obbedire agli ordini. Allora i giovani pensavano non ci fosse un futuro, così andare alle feste con la maschera antigas era considerato eccitante. Due miei amici aspettavano il suono delle sirene d’allarme, quando Tel Aviv si svuotava, per lanciarsi a cento all’ora contromano lungo i viali».

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