Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 27/08/2013, a pag. 12, l'articolo di Benny Morris dal titolo " Israele e l’ombra dell’Iran ", l'articolo di Guido Olimpio dal titolo " Regime, ribelli, infiltrati: l’atlante del conflitto ", a pag. 13, l'articolo di Roberto Tottoli dal titolo " Sunniti-Sciiti, se la regione si infiamma".
Ecco i pezzi:
Benny Morris - " Israele e l’ombra dell’Iran "

Benny Morris
Anni fa, l’ex primo ministro israeliano Ehud Barak descrisse Israele — in un linguaggio politicamente scorretto — come una «villa» circondata dalla «giungla» (araba). Gli ultimi due anni non hanno fatto altro che confermare l’accuratezza di tale definizione, in un mondo arabo dove non si scorge neppure l’ombra di democrazia, tolleranza e liberalizzazione, ma appare, anzi, sempre più lacerato da sanguinose rivolte, guerre civili, controrivoluzioni e repressione.
Due anni dopo l’avvio della cosiddetta Primavera araba, la posizione di Israele nella regione è diventata, paradossalmente, molto più forte e molto più precaria. In qualche modo la Siria — precipitata in una spaventosa guerra civile — funge al contempo da protagonista e da cartina di tornasole e tutto dipenderà, nelle prossime settimane, se i Paesi confinanti, Libano, Israele e Giordania in primis, verranno risucchiati nel vortice delle sue turbolenze interne.
La Primavera araba ha cancellato completamente la minaccia strategica convenzionale contro Israele rappresentata dagli eserciti di Siria, Egitto e Iraq. Questi eserciti, i più grandi del mondo arabo, sono stati a tutti gli effetti neutralizzati. L’esercito siriano, con le sue sterminate schiere di carri armati, artiglieria, missili e armi chimiche, è impegnato nella guerra civile contro la maggioranza sunnita della popolazione e le sue milizie, in un conflitto di cui non si prevede né la fine né il vincitore. L’esercito iracheno, rimesso in piedi alla meglio dagli americani durante il decennio di occupazione del Paese, è alle prese con la mini guerra civile che oppone sunniti a sciiti e non è in grado di partecipare a breve termine a un’aggressione contro Israele (gli strateghi israeliani non dimenticano che l’Iraq inviò grossi contingenti di soldati per combattere nelle guerre arabo-israeliane del 1948, 1967 e 1973). E infine l’esercito egiziano oggi deve tenere a bada le turbolenze della rivoluzione, con una mini ribellione di jihadisti nella penisola del Sinai, sul confine con Israele, e la minaccia di una ben più grave insurrezione di tipo guerriglia/terrorismo all’interno stesso del Paese da parte dei Fratelli musulmani.
Al quadro si può aggiungere che il Libano, con la propria spaccatura tra sciiti e sunniti, si avvia anch’esso a una guerra civile, come conseguenza degli scontri settari in atto in Siria. I crescenti sollevamenti in Libano — ricordiamo le autobombe a sud di Beirut (zona sciita) e a Tripoli (zona sunnita) nelle ultime due settimane — sono alimentati dalla partecipazione attiva del governo nel conflitto siriano da parte sia delle forze armate che di Hezbollah, il principale partito sciita che opera come uno stato indipendente entro i confini del Libano. Per di più, l’intervento di Hezbollah — alcuni analisti affermano che quasi la metà delle sue truppe sono oggi operative in Siria — ha indebolito tremendamente la posizione del Libano nei confronti di Israele.
Nel frattempo, l’altro Paese confinante, la Giordania, è allo stremo per l’afflusso incessante di centinaia di migliaia di profughi che fuggono dai combattimenti in Siria, mentre il suo partito dei Fratelli musulmani ha perso gran parte della sua bellicosità anti israeliana per la repressione di cui è stata oggetto la sua organizzazione parallela in Egitto. Lo stesso dicasi, fino a un certo punto, per la filiale palestinese dei Fratelli musulmani, ovvero Hamas, che controlla la Striscia di Gaza.
Tuttavia, lo scompaginamento di Stati e governi e l’indebolimento degli eserciti attorno a Israele hanno creato non pochi vuoti di potere, e portato a un travaso di violenze lungo il confine con Libano, Siria ed Egitto. La scorsa settimana alcuni terroristi — o forse jihadisti sunniti che miravano a provocare ostilità tra Israele ed Hezbollah come mezzo per scalzare il governo di Assad in Siria — hanno scagliato una salva di missili Katyusha nel nord di Israele. L’assenza di truppe di Hezbollah, impegnate in Siria, ha probabilmente facilitato il compito ai jihadisti sunniti di allestire l’operazione dal sud del Libano, normalmente sotto il controllo di Hezbollah. Allo stesso tempo, come è spesso capitato nell’ultimo anno, colpi di mortaio lanciati dalla Siria hanno colpito le Alture del Golan, in territorio israeliano, mentre decine di civili e militari feriti nella guerra civile siriana sono arrivati in Israele per essere curati (gratuitamente) negli ospedali israeliani. Israele teme che la guerra civile possa causare ben più gravi ripercussioni, come un attacco diretto siriano contro Israele per sviare l’attenzione dalle operazioni del governo contro la sua stessa popolazione, oppure l’invio di armi sofisticate dalla Siria verso Hezbollah in Libano (postazioni antiaeree oppure sistemi missilistici terra-navi). Durante l’ultimo anno l’aviazione israeliana ha colpito ripetutamente convogli militari in territorio siriano che trasportavano questi missili, che si presumeva fossero destinati a Hezbollah. I siriani, fino ad oggi, hanno rinunciato a rappresaglie contro Israele, temendo un attacco aereo a tutto campo sulle proprie basi aeree e altri siti strategici, che potrebbe indebolire il regime di Assad e spianare la strada a una vittoria delle opposizioni nella guerra civile. La recente minaccia americana di attaccare la Siria per l’uso di armi chimiche o per colpire le basi missilistiche terra-terra – in reazione al presunto impiego di gas nervino — rischia anch’essa di trascinare Israele nel conflitto. I siriani, incapaci o non disposti a reagire al fuoco degli Stati Uniti, potrebbero scegliere di contrattaccare prendendo di mira bersagli israeliani.
Come se i problemi a nord di Israele non fossero sufficienti, il confine sud del Paese – il più tranquillo dopo la firma del trattato di pace tra Egitto e Israele nel 1979 – di recente si è ritrovato coinvolto nel conflitto come risultato della Primavera araba. La caduta di Mubarak e la successiva ascesa al Cairo del presidente Morsi, a capo del governo dei Fratelli musulmani, ha portato al rafforzamento del controllo islamista di grosse aree della penisola del Sinai e all’avvio delle operazioni dei jihadisti sia contro le forze egiziane nel Sinai che contro Israele. Un paio di settimane fa, alcuni missili lanciati dal Sinai hanno colpito il porto e centro balneare di Eilat, provocando un attacco israeliano all’interno del Sinai (in violazione della sovranità egiziana), per colpire un contingente missilistico jihadista. Se l’esercito egiziano — già pesantemente impegnato a controllare le strade delle città — si dimostra incapace di ostacolare le operazioni islamiste nel Sinai, Israele potrebbe sentirsi autorizzato a intervenire. Le aggressioni islamiste oltre confine rischiano perciò di invischiare Egitto e Israele in ostilità imbarazzanti.
Ma la preoccupazione principale di Israele resta il Nord, a motivo dell’alleanza tra Hezbollah, il regime di Assad sotto assedio e l’Iran islamista. Gli iraniani sciiti stanno facendo il possibile per puntellare Assad e vincere la guerra civile contro i ribelli sunniti, inviando persino contingenti delle guardie rivoluzionarie iraniane, che combattono a fianco dell’esercito di Assad. Quello che l’Iran (e pertanto anche Hezbollah, armato e finanziato dall’Iran) farà in reazione a un attacco americano contro Assad, o a future operazioni israeliane in Siria, è solo ipotizzabile.
Sullo sfondo di questa drammatica situazione si profila per di più la minaccia nucleare dell’Iran, che sarà in grado di disporre di armi atomiche nel 2014, secondo le stime dei servizi di intelligence occidentali, se il loro programma nucleare non verrà fermato per tempo. Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, è convinto che le armi nucleari nelle mani degli ayatollah rappresentano una minaccia esistenziale allo Stato di Israele e ha giurato di inviare l’aviazione israeliana a bombardare i siti nucleari iraniani se le sanzioni internazionali o l’intervento americano non avranno effetto. La Primavera araba sembra aver distolto l’attenzione occidentale dalla minaccia iraniana — che cresce di giorno in giorno con il progressivo accumulo di uranio arricchito. Lo scontro tra Israele e Hezbollah, oppure tra Israele e la Siria, rischia di trasformarsi nel semplice anticipo — o nella causa scatenante indiretta — di un ben più vasto conflitto tra Israele e l’Iran.
Guido Olimpio - " Regime, ribelli, infiltrati: l’atlante del conflitto "

Il conflitto in Siria appare lontano da una svolta, i contendenti, per ora, non hanno la forza per prevalere in modo schiacciante.
Il regime
Le battaglie sono combattute con armi moderne, rimasugli di tanti arsenali e tattiche che a volte ricordano il Medio Evo. I lealisti arroccati nei loro «castelli», in prossimità di città e snodi stradali strategici, chiamati a resistere ad assedi interminabili da parte dei ribelli. Un esempio la conquista della base di Mengh: caduta dopo essere rimasta circondata per circa 9 mesi. L’esercito governativo può condurre solo una grande operazione alla volta ed essendo il territorio ampio ha problemi logistici. Nei casi più complicati si affida alla Guardia Repubblicana e alla IV Divisione, guidata da Maher Assad, con rinforzi rappresentati dai miliziani Hezbollah e pasdaran iraniani. Dopo aver perso uomini (attacchi, diserzioni) e molti mezzi, il regime ha riorganizzato le proprie forze. L’obiettivo principale è quello di controllare i principali centri abitati e l’arteria strategica che da sud porta a nord. Per farlo conta su puntate delle unità scelte e su «postazioni di fuoco» che si sostengono una con l’altra grazie al tiro dell’artiglieria, ai bombardamenti con i missili Scud, all’impiego dell’aviazione (elicotteri, caccia) e, probabilmente, ai gas. Assad non è in grado di riconquistare l’intero territorio, però tiene e manovra. Nelle zone nemiche usa la tattica della terra bruciata, per svuotarle o provocare dissensi tra la popolazione. Cresciuto anche il ricorso alle milizie. Citiamo i palestinesi di Ahmed Jibril a Damasco, la «Resistenza» di Mihrac Ural (dicono sia stato ucciso di recente), responsabile del massacro di Banya e con connessioni sul territorio turco, i Comitati popolari.
I ribelli
Alcuni analisti attribuiscono ai ribelli il controllo sul 60% della Siria, una presenza però indebolita dalle divisioni, ampliate anche dagli attori esterni che vogliono imporre scelte e obiettivi. Lo prova la nomina di Ahmad Jarba alla guida del Consiglio nazionale siriano: era il candidato dei sauditi e ha battuto quello sostenuto dai qatarioti. I due regni sono rivali e pompano denaro/armi alle rispettive fazioni. La «resistenza» è formata da una componente nazionalista, una islamo-pragmatica e da quella qaedista, incarnata da Al Nusra. Proprio gli estremisti (tra i 7-10 mila) si sono mostrati i più intraprendenti. Sono abili sul piano militare e spesso ricorrono agli uomini-bomba a bordo di enormi veicoli esplosivi. Azioni suicide che piegano la difesa esterna di una postazione aprendo un varco per i mujahedin. Altro dato: disciplinati, cercano di conquistare cuori e menti dei civili preoccupandosi delle esigenze primarie (acqua, pane, servizi basilari). Strategia rallentata da eccidi, esecuzioni e caccia alle minoranze sospettate di essere vicine al potere. A Est «lavorano» quelli dell’Isis, i qaedisti venuti dall’Iraq. Molto interessante l’azione degli insorti nella regione sud. Rispondono agli ordini del Comando Supremo, hanno l’appoggio della Giordania e — si dice — dei servizi occidentali. L’unità simbolo è la Brigata Liwa Al Islam. Nelle ultime settimane hanno fatto progressi bilanciando rovesci in altri settori. Per prevalere avrebbero bisogno di un vertice unificato, di un’infrastruttura che porti rifornimenti militari consistenti, di un training vero e di una visione politica comune. Quattro condizioni lontane, se non impossibili.
I curdi
Come sempre, una storia separata. Il movimento Pyd difende la propria autonomia ed è un tenace avversario di chi la mette in discussione. Duri gli scontri con Al Nusra ma anche con altri reparti ribelli. Il Pyd è aiutato dall’organizzazione gemella del Pkk (curdi di Turchia) e dai fratelli iracheni. Per questo ha tenuto botta, accrescendo i sospetti della Turchia. Anche se non sono mancate indiscrezioni su una possibile collaborazione.
Gli esterni
Sui due fronti — come all’epoca della guerra di Spagna — agiscono molti volontari. Tra i ribelli spiccano i jihadisti provenienti da Nord Africa, Golfo, Cecenia e Europa. Al fianco di Assad ci sono invece i miliziani sciiti libanesi Hezbollah, poi quelli provenienti dall’Iraq (almeno quattro le organizzazioni) e i pasdaran iraniani. Diverse migliaia di uomini bene addestrati che ufficialmente si battono in difesa della propria fede (sunnita, sciita) ma che in realtà partecipano ad un confronto strategico regionale dove le posizioni non sono sempre nette. I sauditi agiscono contro l’Iran e diffidano del Qatar. Teheran è coinvolta nelle operazioni per salvare l’amico, lo è meno Bagdad anche se ha fatto la sua parte favorendo i traffici pro Siria. La Turchia vuol far cadere Assad, cerca di avere delle carte in mano appoggiando alcune delle fazioni ribelli, è punto chiave nel transito di armi. Gioco pericoloso perché questa guerra non conosce confini.
Roberto Tottoli - " Sunniti-Sciiti, se la regione si infiamma "

Roberto Tottoli
I venti di guerra che soffiano sulla Siria sembrano a un tratto spazzar via mesi di titubanze e di indecisioni. La situazione è in realtà complessa e un intervento armato rischia di complicare la già intricata situazione sul campo. Un intervento in Siria non potrà infatti che avere conseguenze dall’Iran alla Turchia, passando per le aree di crisi. Il Vicino Oriente è attraversato da crisi tra loro diverse per origine e per storia. Toccano nazioni che sono mosaici di etnie e confessioni religiose diverse. I conflitti stanno però sempre più prendendo i connotati di uno scontro tutto interno all’islam, tra sunniti e sciiti. Le potenze islamiche come Turchia, regni del Golfo Persico e Iran sostengono ai confini gli uni o gli altri, trascinando Iraq, Siria e Libano in una spirale di violenza e instabilità di cui non si vede la fine. Le autobombe di Beirut della scorsa settimana dimostrano come anche questo paese è ormai trascinato a forza nella crisi siriana e che anche qui il jihadismo sunnita ha lanciato la sua offensiva contro gli Hezbollah sciiti. Un possibile intervento militare può tuttavia avere la capacità di cambiare gli equilibri in campo, spingendo gli Stati Uniti e i loro alleati a prendere una chiara posizione a favore dei sunniti e in chiave anti-sciita e anti-iraniana. L’eventuale bombardamento delle posizioni governative siriane, in fase di controffensiva contro la coalizione di opposizione, avrà senza dubbio la forza di ribaltare la situazione, ma potrebbe aprire una fase di incognite ancora più difficili da districare. Hezbollah, in Libano e in Siria dove combatte a fianco di Assad, difficilmente rinuncerà a una reazione. Il fragile equilibrio iracheno rischia di saltare, sotto la spinta ulteriore del jihadismo sunnita che insanguina i centri cittadini più importanti e Baghdad. Infine, in Siria, rischia di aprire la strada alle componenti jihadiste più forti che hanno in mano la ribellione. Un bombardamento, senza un’occupazione militare, proprio come in Libia, rischia di lasciar loro campo libero. L’eventuale intervento Usa segnerebbe però anche un ribaltamento completo della politica «islamica» degli Stati Uniti. Dopo la crociata di Bush, che fu conseguenza dell’11 settembre, le parole al Cairo di Obama e soprattutto il fatto di accettare le vittorie elettorali della Fratellanza musulmana a Tunisi, Tripoli e il Cairo avevano già evidenziato un atteggiamento diverso. In questo caso si tratterebbe però di un passo ulteriore. Vorrebbe dire appoggiare le forze sunnite in Siria, in chiave anti-sciita, anche a rischio di aprire la strada al jihadismo sunnita. È una partita rischiosa. Potrebbe risolvere in un modo o nell’altro la guerra civile siriana, ma con un occhio anche sul Libano, ridimensionando Hezbollah. Potrebbe, allo stesso tempo, prevenire ulteriori rischi per Israele e mettere a freno le ambizioni dell’Iran. È una partita più che rischiosa, che vuole forse regolare troppi conti in un colpo solo, senza sporcarsi le mani sul terreno, e che rischia di infiammare ancor di più la situazione.
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