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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Francesco Roat, I giocattoli di Auschwitz 26/08/2013

I giocattoli di Auschwitz             Francesco Roat
Lindau                                             Euro 19,50


Oggi mi hanno accusato di far parte della razza che ha messo in croce Gesù. Così non finirò la quinta. Nella mia scuola, almeno”. Nato il 5 novembre 1931, ebreo ma di famiglia non praticante della città di lingua tedesca ma di statualità italiana di Merano, il piccolo Ruben Lipari grazie a uno zio ammanicato e fascista per un po’ è riuscito a evitare le peggiori conseguenze delle leggi razziali. Ma il 26 maggio 1943, poco dopo la morte del padre, viene infine espulso. Ma lui non ne fa un dramma. Odiandolo i  quanto primo della classe, i compagni gli hanno reso spesso la vita impossibile deridendolo come “giudeo cacasotto”, e lui non ha troppi problemi a studiare a casa. Anzi, ha tempo di gironzolare per le strade, e anche di impratichirsi col clarinetto, grazie alle lezioni private del professor Nussbaum. Uno che suonava con i Wiener Philharmoniker prima che lo cacciassero perché ebreo. Arrivano il 25 luglio e la caduta del fascismo, ma la situazione è troppo confusa per potersi aspettare veri miglioramenti. In Alto Adige, la presenza dei tedeschi è più incombente che mai. Dopo l’8 settembre, i soldati tedeschi arrivano davvero. Si possono raccogliere solo le cose più importanti, alla stazione un treno aspetta gli ebrei come Ruben e i suoi famigliari. Il ragazzino mette nel suo bagaglio anche il clarinetto, che ad Auschwitz gli salverà la vita. Mentre infatti la nonna e lo stesso Nussbaum finiscono subito alle camere a gas, di Ruben si incapriccia Klaus von Klausemberg, l’ufficiale medico delle SS: intellettuale, aristocratico e anche lui di origine altoatesina, appassionato melomane. Rimane conquistato dal talento di Ruben e lo sceglie per suonare in duetto col suo pianoforte. Che in realtà diventa poi trio, perché Ruben approfitta del suo ascendente sull’ufficiale per far rimanere anche il violinista che faceva duo prima di lui, e che sarebbe stato destinato a essere sostituito. Allo stesso modo, la madre e lo zio vengono sottratti grazie alla sua influenza dai lavori più usuranti, anche se la donna non riuscirà comunque a sopravvivere. L’ufficiale, che lo coccola in tutti i modi, inizia nei sogni a confondersi per Ruben con il ricordo del padre, anche se il rapporto è quanto mai ambiguo. Klaus, infatti, nascondendo sistematicamente al ragazzo le brutture e le atrocità del campo, lo protegge dall’orrore, ma lo illude anche. E poi l’affetto non gli impedisce di ribadire al suo protetto il dogma dell’odio razziale nazista. “Non si scappa: i più bravi musicisti sono sempre stati tedeschi o ebrei dei paesi tedeschi. Seguiti dagli italiani, mi pare giusto. Palestrina, Monteverdi, Gabrieli, Vivaldi…”. “Quindi non è vero che siamo di razza inferiore!”. “Vedi, gli ebrei sono il primo nemico della Germania. E sono un avversario potente, un parassita astuto, diffusissimo e temibile che va debellato”. “Tu non hai colpa, il singolo non conta. Siamo in guerra, questo è un campo di prigionia e io sono un militare, tutto qui”.
Solo poco per volta la tragica verità del lager finirà per affiorare. Prima dubbi e sospetti, poi inquietudini e orrori, in un crescendo di scoperte sconvolgenti, che, al momento della liberazione, si trasformeranno in un lutto assai difficile da fronteggiare. Ruben finirà addirittura per bruciare il suo amato clarinetto, nel tentativo di distruggere anche quel ricordo. Solo vent’anni dopo, attraverso l’aiuto di uno psicoanalista che gli fa rivivere in un diario postumo la tragedia di Auschwitz, Ruben potrà scacciare i fantasmi, e riprendere a suonare. E apprendiamo che, quarant’anni dopo, uno dei clarinettisti più famosi d’Europa ha ritrovato infine anche il coraggio di suonare in Germania e in Austria. Il 27 gennaio, a pensarci bene, non è solo il Giorno della memoria, quando i soldati sovietici liberarono Auschwitz, ma anche la data di nascita di Mozart.

Il Foglio


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