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La Stampa Rassegna Stampa
23.08.2013 Mito antico, il Leviatano incarna la nostra affamata e mai sazia modernità
commento di Elena Loewenthal

Testata: La Stampa
Data: 23 agosto 2013
Pagina: 30
Autore: Elena Loewenthal
Titolo: «Ma che bontà, ma che bontà il Leviatano in salamoia»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 23/08/2013, a pag. 30, l'articolo di Elena Loewenthal dal titolo "Ma che bontà, ma che bontà il Leviatano in salamoia".


Elena Loewenthal

«Puoi forse prendere all’amo il Leviatano e con la lenza attirare la sua lingua? Puoi porre un giunco nelle sue narici e con un gancio forargli la mascella?». La domanda, anzi la lunga sequenza di domande che compaiono al capitolo 40 del biblico libro di Giobbe, è retorica. È anzi una sfida, l’invito all’uomo a riflettere sulla propria inetta pochezza. A marcare tale impotenza che riguarda tanto il povero Giobbe sopraffatto dalle disgrazie che Dio gli manda apposta per saggiarne la tempra quanto tutti noi, c’è il Leviatano, immenso colosso contro cui nulla possiamo, se non giocare d’immaginazione. Mentre il Signore, che è potente, con il Leviatano «si trastulla» (Giobbe 40, 29), come se fosse un barboncino da compagnia.

Eppure questo mostro marino cui occorre tutta l’acqua del Giordano per dissetarsi, le cui enormi pinne sprigionano una luce tale da oscurare persino il sole, fra un oceano e l’altro fa talmente tanta strada da arrivare al titolo di una celebre opera politica. Il Leviatano del filosofo seicentesco Thomas Hobbes porta per sottotitolo «The Matter, Form and Power of a

Commonwealth Ecclesiastical and Civil», vale a dire che qui il nostro biblico colosso assurge a simbolo dello Stato come enorme corpo composto di tante parti – sociali, politiche e religiose. Il Leviatano di Hobbes è un po’ minaccioso e un po’ necessario, ma è soprattutto metafora dell’umanità e del suo bisogno di organizzarsi.

Pensare che nella mitologia ebraica in cui viene al mondo – con un probabile archetipo ugaritico – il Leviatano è una creatura decisamente corporea. Quasi l’apoteosi della corporeità, con la sua mole che, da Giobbe in poi, ha dato vita a una vasta gamma di racconti e narrazioni. Del resto, come ipotizza un rabbino, la parola ebraica Leviatan – che nella lingua moderna significa ormai banalmente «balena» – deriva dalla radice tanan , che in ebraico vuol dire «raccontare». E nella mitologia ebraica i racconti sul Leviatano, colosso marino che Iddio sembra aver creato apposta per destare stupore, per dimostrare di cosa Lui è capace, quasi non si contano. Il Leviatano è creato da Dio il quinto giorno. Si ciba di pesci che gli si gettano in bocca con entusiasmo, è conformato mirabilmente ma emana un odore tremendo: se solo mettesse pinna in paradiso (cosa che come vedremo un bel giorno farà, ma a certe condizioni) lo renderebbe inabitabile. Ovviamente il Leviatano non ha paura di nulla, soltanto dello spinarello, un pesciolino per il quale nutre autentico il terrore (un po’ come la storia dell’elefante e il topolino).

Ma nulla di ciò che Iddio ha creato è senza scopo e questo colosso marino non fa eccezione, come attesta il suo lungo tragitto nella storia, dalla creazione sino ai tempi a venire, verso il futuro remoto, dopo la venuta del Messia (che come si sa per gli ebrei deve ancora arrivare) e il giorno del giudizio. Ma andiamo per ordine.

Come ogni animale che si rispetti, anche il Leviatano è creato maschio e femmina. Ma ben presto Dio si rende conto che se i due si accoppiassero e generassero dei figlioletti, la famigliola non ci metterebbe niente ad annientare il creato: basterebbero un colpo di pinna, un aprirsi di fauci, e tutta la fatica che il Signore ci ha messo a fare il mondo andrebbe a catafascio. Così, giusto per tagliar la testa al toro (nel senso del Leviatano) – racconta la leggenda – Dio scanna subito la femmina e, per precauzione (non si sa mai), castra il maschio. Come sempre, ci vanno di mezzo le donne. In questo caso, oltre che di mezzo, finiscono anche in dispensa: la femmina di Leviatano viene infatti messa in salamoia, «perché si conservi fino al momento in cui ci sarà bisogno della sua carne». Vedremo presto quando si dovrà scendere a pescare fra gli scaffali le botti di conserva. Chissà quante ne saranno venute, con la pregiata carne della femmina di Leviatano. Di che sfamare un esercito, certamente.

Il Leviatano, con la sua mole, le sue squame lucenti, gli occhi che «effondono un tale fulgore che il mare spesso ne è improvvisamente illuminato» (un po’ come l’effetto del plancton di notte, sotto il pelo dell’acqua…), percorre davvero tutta la parabola della storia e del tempo. La tradizione dice infatti che nei tempi a venire, dopo che tutto sarà già successo, il mostro farà da grande attrazione circense per i giusti in paradiso. Ci sarà infatti una lotta titanica tra lui e Behemot, un altro colosso – terrestre questa volta - creato da Dio ai primordi. Una specie di celeste duello in un paradiso che per l’occasione diventerà un lussureggiante Colosseo. Secondo altri, il Leviatano dovrà invece vedersela con tutta la schiera degli angeli al completo, che sgomenti e tremebondi lasceranno ben presto il campo di battaglia. Toccherà comunque a Dio dare il colpo di grazia al mostro.

E poi? E poi ovviamente la storia non finisce qui, perché la carne fresca del Leviatano maschio e quella in salamoia della femmina saranno il piatto forte del gran banchetto che sarà ammannito per i giusti in paradiso, a sublimare la loro beata condizione. A festeggiare, insomma. Perché avrà pure un fetido odore, il Leviatano, ma la sua carne è di un sapore impareggiabile, indescrivibile, soave oltre ogni dire. Anzi, secondo la leggenda questa pietanza avrà per ciascuno dei giusti che si sono meritati il paradiso il gusto che più gradiscono, il sapore della loro vivanda prediletta. Condita magari di una strana nostalgia, perché quello sarà il loro ultimo pasto, prima di entrare in una condizione di vita eterna ed esclusivamente spirituale, affrancata da ogni bisogno fisico.

Creatura fantasmagorica e al di là della natura, il Leviatano diventa sempre più corporeo e materiale, tanto da sublimarsi in cibo. E che cibo. Dal sapore paradisiaco. E mica per metafora… Capace, anzi, di interpretare un’infinità di paradisi a misura di come si immagina, si sogna o forse si ricorda (chissà mai che non si sia già assaggiato in un’altra vita…) il sapore del paradiso. Quale migliore descrizione del nostro rapporto con il cibo, della nostra quasi compulsiva ricerca dei sapori perduti, del nostro fare del cibo cultura, identità, memoria… Mito antico, anzi remoto, il Leviatano incarna – nel vero senso della parola – la nostra affamata e mai sazia modernità.

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