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Il Foglio Rassegna Stampa
23.08.2013 Siria: mentre la Francia spinge per un intervento, gli Usa restano fermi
commento di Daniele Raineri, Mattia Ferraresi

Testata: Il Foglio
Data: 23 agosto 2013
Pagina: 1
Autore: Daniele Raineri - Mattia Ferraresi
Titolo: «L’analisi di un think tank sbugiarda i generali, che parlano di 'no-fly zone troppo costosa e rischiosa in Siria' - Ribelli addestrati da Washington in Siria? Per ora l’attendismo sciatto dell’Onu riflette il vuoto americano»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 23/08/2013, in prima pagina, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo "  L’analisi di un think tank sbugiarda i generali, che parlano di “no-fly zone troppo costosa e rischiosa in Siria”", l'articolo di Mattia Ferraresi dal titolo "Ribelli addestrati da Washington in Siria? Per ora l’attendismo sciatto dell’Onu riflette il vuoto americano ".
Ecco i pezzi:

Daniele Raineri - "  L’analisi di un think tank sbugiarda i generali, che parlano di “no-fly zone troppo costosa e rischiosa in Siria” "


Daniele Raineri, Martin Dempsey, capo di Stato Maggiore Usa

Roma. Un think tank di Washington smentisce il capo di stato maggiore americano, Martin Dempsey, che il 19 luglio in una lettera al Congresso ha spiegato che un intervento militare in Siria è rischioso, costosissimo, richiede l’impiego di centinaia di aerei, navi e sommergibili e si trasformerà in un impegno a lungo termine. I numeri allarmanti del generale sono: un’operazione di almeno un anno e dodici miliardi di dollari, con la possibilità concreta di essere costretti infine a mandare anche le truppe di terra (l’incubo “boots on the ground”, l’esatto contrario della politica del presidente Barack Obama). Il paper che sbugiarda la cautela del Pentagono è del 31 luglio ed è firmato da Christopher Harmer, un ex analista della marina che ora lavora per l’Institute for the Study of War (è un think tank specializzato in analisi e dettagli politici e militari sulle guerre americane in Iraq e in Afghanistan, da tempo segue anche la crisi in Siria). Harmer sostiene che imporre una no-fly zone temporanea sulla Siria sarebbe un’operazione a basso costo, che impegnerebbe una forza modesta e non comporterebbe la perdita di alcun soldato americano. Nota che delle 27 basi aeree potenzialmente utilizzabili dall’aviazione del presidente Bashar el Assad ne restano in funzione soltanto sei: le altre o sono in territorio ribelle o sono assediate oppure non possono essere usate perché Damasco non ha abbastanza mezzi – rimangono soltanto 100 aerei – e abbastanza personale. Le basi sono: l’aeroporto internazionale di Damasco, Dumayr e Mezze, tutte e tre vicino alla capitale; Qusayr, vicino Homs; Tiyas, in mezzo al deserto; e l’aeroporto internazionale Bassel el Assad, a Latakia, sulla costa. L’analista americano sottolinea una fondamentale differenza tra “destruction” e “degradation”: può darsi che per distruggere la forza aerea siriana siano necessarie centinaia di missioni, ma per degradarla, quindi per paralizzarla e impedire che gli aerei si sollevino dal suolo, basta infinitamente meno: aprire buchi nelle piste con le bombe, fare saltare la torre di controllo e le cisterne con il carburante. Terzo punto, dirimente: gli Stati Uniti hanno la capacità di colpire la Siria restando fuori portata del sistema di difesa aereo integrato delle forze armate di Damasco. Possono lanciare missili Tomahawk con i sommergibili e missili aria-terra con velivoli che resteranno fuori dallo spazio aereo siriano, evitando ogni rischio di abbattimento. Gli israeliani hanno dimostrato che si tratta di una possibilità concreta e hanno bombardato la Siria quattro volte da febbraio (almeno). Lo strike contro le basi siriane potrebbe anche distruggere gli aerei, creando una no-fly zone di fatto. Harmer ha calcolato cosa sarebbe necessario, analizzando le foto satellitari e contando bunker per bunker, pista per pista e installazione per installazione. Compila una lista breve: tre navi da guerra – per i Tomahawk – e 24 aerei per lanciare un totale di 72 missili. L’interruzione dei voli durerebbe tra i 7 e i 10 giorni, il tempo materiale di aggiustare le piste, e in quel tempo l’aviazione di Assad non potrebbe assolvere le sue tre mansioni: bombardare i ribelli, rifornire la linea del fronte e importare rifornimenti da Russia e Iran. Ondate di strike molto ridotte rispetto alla prima: basterebbe la metà dei missili, ogni 10 giorni, per allungare la durata della no-fly zone (senza contare l’effetto sui militari di Assad, abituati ad avere la supremazia aerea). L’analisi è accompagnata da questa avvertenza neutra: “Questo è uno studio tecnico, non è una raccomandazione a favore o contro lo strike, non comprende valutazioni sull’effetto che avrebbe sul regime, sui ribelli e sui vari stati che appoggiano le due parti”.

Il WaPo chiede una “rappresaglia diretta”
Ieri il generale Dempsey ha spiegato per davvero in una seconda lettera perché il Pentagono non interviene, senza più ripararsi dietro i costi e i rischi: “Perché i ribelli siriani non sosterrebbero l’interesse degli Stati Uniti”. Ha annullato all’ultimo momento un incontro con la stampa straniera – segno che ha da fare. Da Israele il ministro dell’Intelligence, Yuval Steinitz, dice che secondo l’intelligence israeliana la strage di mercoledì vicino Damasco è il risultato di un attacco con armi chimiche. “Il mondo osserva, il mondo condanna, il mondo si limita a parlare”, ha poi detto, condannando l’inerzia internazionale. Mentre il governo siriano bombarda i siti della strage per seppellire eventuali prove, sembra ormai remoto il momento in cui Obama minacciava di intervenire anche soltanto in caso di “spostamento” delle armi chimiche. Il Washington Post ieri ha chiesto con un editoriale di procedere a una “rappresaglia diretta contro la Siria” se sarà accertato l’uso di armi chimiche.

Mattia Ferraresi - "  Ribelli addestrati da Washington in Siria? Per ora l’attendismo sciatto dell’Onu riflette il vuoto americano"


Mattia Ferraresi, Bashar al Assad

Roma. Un primo gruppo di 300 ribelli siriani addestrati dagli americani in Giordania sta combattendo vicino Damasco e questo avrebbe provocato la reazione rabbiosa del regime di mercoledì con armi chimiche, scrivono il Figaro e il sito israeliano Debka. Lo scoop ancora non ha sostanza, anche se da tempo si parla dell’apertura di un fronte sud. Intanto, la reazione del Consiglio di sicurezza dell’Onu alle notizie sugli attacchi chimici è formulata in un linguaggio anche più sciatto e prudente di quello che normalmente circola al Palazzo di Vetro. La bozza presentata dal viceambasciatore americano presso le Nazioni Unite, Rosemary DiCarlo, chiedeva al segretario generale Ban Ki Moon di “prendere urgentemente le misure necessarie per indagare sul campo gli attacchi” e di fare pressione perché gli ispettori onusiani guidati dallo scienziato svedese Ake Sellström possano agire liberamente. Passata al filtro dei protettori di Bashar el Assad al Consiglio di sicurezza, Russia e Cina, la dichiarazione americana si è trasformata in un generico segnale di “preoccupazione” accompagnato dalla speranza che “si faccia chiarezza su quello che è accaduto”. Persino Pechino si augura che gli ispettori indaghino, ma a patto che si consultino con il governo per condurre le operazioni in modo “obiettivo”, un giro di dichiarazioni che ha ispirato le reazioni di Israele – dove ieri sono caduti quattro razzi lanciati dal Libano, possibile risposta all’attentato di Ferragosto nel cuore del quartiere di Beirut controllato da Hezbollah – che per bocca del ministro dell’Intelligence ha rigirato il dito nell’ipocrisia di una comunità internazionale che condanna, auspica, investiga, promette e poi non fa nulla. L’attacco chimico potrebbe rappresentare, insomma, “una grave escalation nel conflitto”, come ha detto il vicesegretario generale dell’Onu, Jan Eliasson, con un linguaggio talmente levigato da far sembrare decisionista quel Barack Obama che un anno fa ha istituito la “linea rossa” per l’intervento in Siria e poi si è girato dall’altra parte ogni volta che è stata varcata. Al centro dell’insostenibile posizione americana ora c’è Samantha Power, vociante attivista per i diritti civili che all’inizio di agosto è stata confermata ambasciatrice americana presso l’Onu. L’ex giornalista ha svergognato l’inazione americana in Ruanda e ha costruito assieme a Susan Rice – ora consigliere per la Sicurezza nazionale – l’impianto politico per l’intervento americano in Libia a fianco di Francia e Inghilterra. Durante i colloqui con i senatori che l’hanno confermata ha ammesso l’evidente “fallimento del Consiglio di sicurezza dell’Onu nel rispondere al massacro in Siria” e con il consueto stile magniloquente ha parlato di “una disgrazia che la storia giudicherà severamente”. Mercoledì, mentre dalla Siria arrivavano le immagini atroci delle vittime degli agenti chimici, Power ha scritto su Twitter: “Notizie devastanti: centinaia di morti nelle strade, inclusi bambini uccisi dalle armi chimiche. L’Onu deve andare lì rapidamente e, se vero, i responsabili devono affrontare la giustizia”. La domanda, come ha notato il direttore del Weekly Standard, Bill Kristol, è: a chi era diretto il messaggio? “Il suo tweet – scrive Kristol – non era un richiamo all’azione delle Nazioni Unite. Samantha Power sa che le Nazioni Unite non faranno nulla. Il suo tweet è un’accusa, per la cronaca e per i libri di storia, al presidente Obama”. Power e gli interventisti liberal sono stati a lungo in silenzio di fronte alla guerra civile in Siria. Scontavano gli eccessi di zelo della guerra in Libia, pagati a carissimo prezzo con l’attacco al consolato di Bengasi, e si muovevano circospetti per non compromettere il loro ingresso nel rimpasto del team della sicurezza nazionale di Obama. Ora hanno l’occasione per dimostrare che il loro potere persuasivo presso il palazzo è più forte della calcolata inazione di Obama e delle farraginose burocrazie sopranazionali.

Un piano B se gli ispettori falliscono
Susan Rice, dal canto suo, promette che i responsabili dei massacri “pagheranno”, ma ancora una volta i primi a evocare una reazione più consistente di una edulcorata petizione della comunità internazionale non sono gli americani, ma i francesi. Il ministro degli Esteri di Parigi, Laurent Fabius, ha promesso una “reazione con la forza” se gli ispettori troveranno le prove degli attacchi chimici, ma contestualmente (e prudentemente) ha escluso la possibilità di un intervento militare sul campo, almeno per il momento. Questo apre un altro scenario, che riguarda il lavoro degli ispettori che domenica sono arrivati in Siria. Non si sa ancora che margine di manovra lascerà loro il regime per condurre ispezioni effettive nei luoghi in cui l’opposizione ha segnalato l’uso di armi chimiche. L’America ha già alcune conferme indipendenti, ma se vuole che le pressioni sulla comunità internazionale – la linea Power – siano efficaci ha bisogno del conforto degli scienziati dell’Onu. Oppure di un piano B se questi torneranno a mani vuote.

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