Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 20/08/2013, a pag. 12, l'articolo di Ayaan Hirsi Ali dal titolo " Le rivoluzioni arabe non sono finite qui ". Da LIBERO, a pag. 15, l'articolo di Souad Sbai dal titolo " La Fratellanza non è un partito, ma una setta che non sa governare ". Dal GIORNALE, a pag. 15, l'articolo di Roberto Fabbri dal titolo "Dalla «bella morte» ai kamikaze. Il filo nero tra fascismo e islam ". Dal FOGLIO, in prima pagina, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " Perché in Egitto stiamo dalla parte dei militari contro la Fratellanza". Dalla STAMPA, a pag. 1-19, l'articolo di Roberto Toscano dal titolo " Arabi vs arabi, la democrazia è un miraggio ", preceduto dal nostro commento.
Ecco i pezzi:
CORRIERE della SERA - Ayaan Hirsi Ali : " Le rivoluzioni arabe non sono finite qui "
Ayaan Hirsi Ali
Fine della primavera araba. Al Cairo la storia egiziana sembra aver completato un intero, sanguinoso circolo. Dapprima la folla si è riversata in piazza Tahrir per chiedere la fine di una dittatura appoggiata dall’esercito. Poi, solo due anni dopo, la folla è di nuovo scesa in piazza Tahrir per chiedere la restaurazione di una dittatura appoggiata dall’esercito. Ora, a poche settimane dal colpo di stato che ha rovesciato il governo di Mohamed Morsi, eletto democraticamente, al Cairo il massacro è diventato una cosa normale. Nel 2011 l’Egitto sembrava essere arrivato a una svolta - ma la svolta è stata di 360 gradi. Siamo tornati a una legge marziale «temporanea» che probabilmente durerà anni. Nel quadro del Medio Oriente però - e probabilmente anche in Egitto - la rivoluzione è tutt’altro che finita. In Siria infuria una guerra civile sempre più settaria. In Tunisia continuano le proteste contro il governo islamista. In Libia la violenza tra milizie rivali è in aumento, come in Iraq. La violenza jihadista si sta diffondendo come un’epidemia e sta raggiungendo il Mali e il Niger. Solo nelle ricche monarchie del Golfo persiste una vaga forma di stabilità. Ma dipende in gran parte dall’alto prezzo del petrolio, che permette alle varie dinastie reali di tener buona la popolazione corrompendola. Monarchi meno ricchi, come il re di Giordania, temono di perdere il trono. La primavera araba avrebbe dovuto introdurre in Medio Oriente un ordine politico più democratico. Nei primi mesi del 2011, negli Stati Uniti sia i conservatori che i liberali si erano rallegrati della prospettiva di un nuovo Egitto governato da giovani e moderni dirigenti stile Google. Doveva essere una rivoluzione alimentata da Twitter. Invece, i primi beneficiari sono stati dei barbuti islamisti decisi a imporre la sharia. Una fazione islamista — i Fratelli musulmani — ha forse perso l’occasione di governare in Egitto. Ma altre sono tuttora molto popolari. La possibilità che un efficace intervento occidentale rovesciasse il dittatore siriano è andata in fumo proprio perché gruppi jihadisti estremi hanno preso in mano la guerra contro il presidente Bashar al-Assad. Osama bin Laden è morto, ma Al Qaeda è molto viva. Che cosa è andato storto? Le proteste che sono state impropriamente definite «primavera araba» hanno mostrato molteplici conflitti fra gruppi diversi e talvolta sovrapposti. All’inizio sono emersi i conflitti per le questioni economiche e le libertà politiche. La disoccupazione giovanile, i prezzi dei prodotti alimentari e la corruzione dilagante: erano questi i problemi che hanno portato al rovesciamento dei tiranni in Tunisia, Egitto e Libia. E sono tuttora attuali. Al Cairo, sono state rivolte a Morsi più o meno le stesse accuse che precedentemente erano state indirizzate a Hosni Mubarak. Ma ora vediamo che queste giovani società sono estremamente complesse, perché tre altre forme di conflitto sono venute alla luce. La prima riguarda l’identità: chi siamo e come possiamo organizzare la nostra società? Qui il conflitto è tra chi vuole mettere l’accento sull’identità nazionale araba e chi considera più importante l’identità religiosa islamica. Questa divisione risale alla caduta dell’impero ottomano. Il secondo conflitto è tra città e campagna. La gente di città tende a essere meno religiosa e più occidentalizzata, quella di campagna più conservatrice e sospettosa dell’Occidente. Il terzo conflitto, che precede i primi due, è il settarismo, soprattutto la rivalità tra Sunniti e Sciiti. Data l’ampiezza e la profondità di queste divisioni che attraversano le società del Medio Oriente, si è tentati di concludere che la democrazia è destinata a fallire. Prima o poi - sostengono i pessimisti - i paesi della primavera araba torneranno ai vecchi governi dispotici di «uomini forti». Per rimanere al potere in queste culture, dominate dal concetto di vergogna e onore, come ha scritto David Pryce-Jones più di 20 anni fa in The Closed Circle, un leader sembra debba adottare almeno alcune delle seguenti strategie: incutere paura, eliminare i rivali senza pietà, nominare amici fidati a capo dell’esercito e dei servizi di sicurezza, utilizzare alleanze straniere a suo vantaggio e - ovviamente - collocare busti, ritratti e statue di se stesso in ogni spazio pubblico. Alcuni osservatori si stanno già chiedendo quanto tempo ci vorrà prima che il capo di fatto dell’Egitto, il generale Abdel Fattah al-Sisi, cominci a mettere in atto questi principi. Io però non sono così pessimista da aspettarmi una completa restaurazione del vecchio ordine. La primavera è probabilmente fallita, ma ha cambiato irrevocabilmente il mondo arabo su vari fronti importanti. In primo luogo, il tribalismo non è più forte e coeso come prima. Gli individui appartenenti a una tribù o a un clan hanno trovato altri legami, e cominciano a sfidare le tradizionali forme di autorità in modi impensabili fino a una generazione fa. In secondo luogo, il fascino dell’Islam radicale comincia ad affievolirsi. Questa tendenza sembra paradossale, perché gli islamisti continuano a godere di grande popolarità. Ma dopo quel che la gente ha dovuto subire nei Paesi in cui gli islamisti sono giunti al potere - dall’Iran all’Afghanistan - non è più così ovvio che la sharia sia la risposta a tutti i problemi della modernità. Questa è la ragione della reazione contro gli islamisti che abbiamo visto in Egitto. In terzo luogo, gli effetti della globalizzazione hanno fatto cambiare atteggiamento nei confronti dell’Occidente. Grazie all’emigrazione e alle telecomunicazioni, gli arabi in particolare, e i musulmani in generale, sono ormai fisicamente e virtualmente collegati all’Europa e agli Stati Uniti come mai era avvenuto. Anche se non approvano tutto quel che si fa in Occidente, vedono come funzionano effettivamente le libere istituzioni politiche occidentali. In quarto luogo, l’emergere di gruppi finora oppressi non può essere fermato. Le donne, le minoranze religiose e gli omosessuali sono ancora estremamente vulnerabili in Medio Oriente e in Nord Africa. Ma questi gruppi si stanno organizzando. Negli ultimi tre anni, il femminismo è stato uno degli inattesi vincitori in Egitto. Infine, l’atteggiamento degli americani e degli europei è cambiato. In passato i despoti della regione sapevano presentarsi come strategicamente vitali per gli interessi occidentali. Nel bene e nel male quel gioco è ormai finito. I governanti che non dimostrano in modo credibile di essere stati legittimati dal popolo non possono più contare sul sostegno di Washington, Londra o Parigi. È significativo che il regime militare ripristinato in Egitto conti sull’appoggio economico degli stati del Golfo, non degli Stati Uniti. Tutti questi profondi cambiamenti significano che il Medio Oriente è vicino a una nuova era di pace, democrazia, libertà e prosperità? Assolutamente no. La collisione tra le divisioni tradizionali di quell’area e le nuove e dirompenti tendenze sarà tutt’altro che pacifica. Prevedo, con apprensione e sofferenza, un lungo periodo di conflitti in cui si susseguiranno e si sovrapporranno rivoluzioni e guerre religiose. Tutto quel che possiamo dire con certezza è che non si potrà ritornare ai vecchi tempi. C’è stata veramente una grande svolta nel mondo arabo - anche se è stata in una direzione che pochi commentatori occidentali avrebbero predetto due anni fa.
LIBERO - Souad Sbai : " La Fratellanza non è un partito, ma una setta che non sa governare "
Souad Sbai
L’intero occidente è oltraggiato, offeso, indignato perché l’esercito egiziano ha osato sgombrare le roccaforti dei Fratelli Musulmani, dove erano barricati da diverse settimane. Immediatamente, i media hanno chiesto al Consiglio di Sicurezza e alle Associazioni Internazionali dei diritti umani di condannare con estrema fermezza questa brutale aggressione. Poveri i Fratelli Musulmani, vittime di violenze! Queste dolci pecorelle, note per la loro innocenza, sono oggetto di violenze inaccettabili. È dunque necessario difenderle contro il mostro, ovvero l’esercito egiziano. Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, Turchia e l’Onu insorgono per denunciare l’ingiustizia, difendere gli innocenti e invitare il mondo a venire in loro soccorso. Il grido per rivendicare e proclamare il diritto di tutti i cittadini di manifestare «pacificamente » ha qualcosa di tragicomico. Ciò che più preoccupa in questo momento è che all'interno della Fratellanza si starebbe formando una fazione armata che si ispira ad Hamas, il movimento palestinese che comanda a Gaza fondato proprio come braccio operativo dei Fratelli Musulmani. Il gruppo militare Al Jamaa Al Islamiya, movimento militante islamista egiziano, considerato terrorista da Stati Uniti, Unione Europea e dal governo egiziano stesso, è un accanito sostenitore di Morsi e si propone da sempre di creare una repubblica fortemente ispirata ai valori dell’islamismo radicale. Per questo non si è fatta attendere la loro minaccia: «Ci sarà una rivoluzione globale in tutto il Paese e anche nel mondo». Altra incognita è il ruolo del potente partito salafita Al Nour, la seconda formazione politica egiziana. A detta loro starebbe dalla parte dei «pro-Morsi», ma nei fatti cercano di discostarsi dai Fratelli Musulmani, forse per impossessarsi del loro elettorato. Intanto i governi occidentali hanno fatto le orecchie da mercante sino ad oggi, come anche il Presidente degli Stati Uniti, Barak Obama, che nel suo recente discorso non si è esposto ed è stato ambiguo. Gli occidentali avevano sognato un Egitto governato dalla Fratellanza, che invece si sono è rivelata fondamentalista e convertitisi solo apparentemente alla democrazia, sottovalutando la loro ignoranza nella gestione di uno Stato moderno, portando il Paese al medioevo. Solo i Paesi arabi sembrano aver capito come stanno le cose. Bisogna riformare il Paese e riunire le voci di tutte le frange moderate del popolo egiziano per un buon domani. I Fratelli Musulmani non sono e non sono mai stati un partito, è un gruppo, una setta che non ha un vero statuto, non hanno esperienza nel governare un Paese. In questo periodo di transizione bisogna resistere alle violenze della Fratellanza e dei jihadisti e formare un gruppo politico per riformare il Paese. Sono certa che non finirà come l’Algeria. Ci deve bastare che gli spari arrivino da un minareto, in cui all’interno c’era la Fratellanza armata fino a i denti e ci può bastare che il fratello di Mohamed al Zawahiri, era dentro questa moschea.
Il GIORNALE - Roberto Fabbri : " Dalla «bella morte» ai kamikaze. Il filo nero tra fascismo e islam "
Fratelli Musulmani, Carlo Panella, Fascismo islamico
«Il popolo egiziano è sceso in piazza il 30 giugno contro il fascismo teologico e religioso » dei Fratelli musulmani e del presidente deposto Mohamed Morsi. Il lettore distratto potrebbe confondere questa frase pronunciata dal consigliere strategico della presidenza ad interim egiziana, Mustafa Hagazy, con qualcosa cui siamo fin troppo abituati nel nostro Paese: l’appiccicare lo spregiativo termine «fascismo » a una posizione politica sgradita alla sinistra, allo scopo di delegittimarla. Ma non è questo il caso. Quella della vicinanza tra l’ideologia fascista in senso stretto, storico e i movimenti che a partire dal secolo scorso hanno propugnato la conquista del potere in nome dell’islam è una questione reale e non uno slogan diffamatorio. E il fatto che di questa vicinanza si parli poco nulla toglie alla sua sostanza. Il movimento dei Fratelli musulmani è stato fondato negli anni Venti, gli stessi che videro il sorgere e l’affermarsi del fascismo in Italia. Fin dall’inizio rappresentò la corrente islamica radicale, quella che vedeva nella jihad (guerra santa) lo strumento obbligato per imporre al mondo la sharia (legge coranica). Nemici dei musulmani, secondo la dottrina elaborata dal fondatore Hassan el-Banna che si definiva Murshi e Aam, ovvero Guida suprema (in tedesco farebbe Führer e in italiano Duce...) - erano e sono tutti gli infedeli e l’obiettivo finale è la conquista delle loro terre per trasformarle irreversibilmente in Dar el-Islam ( Casa dell’islam). Nemico privilegiato, ovviamente, l’ebreo, che i Fratelli musulmani hanno sempre qualificato con insulti di ogni genere.
In anni recenti un tale atteggiamento è stato ripreso portandolo ai limiti estremi dall’ex presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad, che nega esplicitamente il fatto storico dello sterminio di milioni di ebrei e inneggia alla distruzione dello Stato di Israele. Toni perfettamente sovrapponibili a quelli dei nazisti tedeschi, ma basta ascoltare i capi di Hamas e di Hezbollah per ritrovare concetti simili.
L’antisemitismo non è certo l’unico punto in comune tra estremismo islamico e fascismo. Un altro, assolutamente tipico, è il culto della morte contrapposto al rispetto della vita: voi occidentali avete paura di morire, mentre noi lo desideriamo, ripetono i fanatici musulmani da Al Qaida in giù. E certamente l’apologia del martirio ricorda molto da vicino la ricerca della «bella morte» che tanto spesso era sulla bocca dei fascisti più convinti.
Storicamente non mancano i dati di fatto. Il nazionalismo araboislamico è spesso stato ammiratore del fascismo europeo, e ne è spesso stato ricambiato con la fascinazione per una cultura sentita come alternativa a quella del mondo capitalista e per una religione fortemente legata al tradizionalismo: ai filofascisti colti di oggi piace in fondo anche il fatto che l’islam abbia relegato in secondo piano la tecnica e imbavagliato la cultura (il rogo dei libri non lo inventarono i nazisti tedeschi, ma i musulmani mille anni prima). Michel Aflaq, fondatore del partito panarabista Baath (quello di Saddam Hussein e degli Assad, per intenderci), era peraltro un attento lettore del Mito del ventesimo
secolo di Alfred Rosenberg e il muftì di Gerusalemme Hajj Amin al-Husayni fu il principale artefice dell’alleanza tra nazionalisti arabi, nazisti tedeschi e fascisti italiani, che cementò nel 1941 incontrando il Führer a Berlino e Mussolini a Roma: il suo obiettivo, mancato solo perché Hitler era concentrato sull’Europa, era una «soluzione finale del problema ebraico» su scala planetaria. Ma non si contano i tentativi di partiti nazionalisti arabi di ottenere aiuto e sostegno da Berlino negli anni Trenta, senza dimenticare il fiume di congratulazioni giunte a Hitler, nel segno del comune antisemitismo, dai Paesi arabi nel 1933 quando l’autore del Mein Kampf giunse al potere in Germania.
Tra gli intellettuali che più hanno evidenziato il parallelo tra fascismo ed estremismo islamico, un lavoro ineccepibile è stato fatto dall’inglese Bernard Lewis, a 97 anni uno dei più illustri studiosi viventi di questioni mediorientali. L’americano Paul Berman, autore del fondamentale Terror and Liberalism , ripete da oltre un decennio che il terrorismo islamico è «la nuova faccia del fascismo ». Il filosofo francese Michel Onfray parla spesso nei suoi libri di «fascismo musulmano », non diversamente da quanto faceva Christopher Hitchens. In Italia Oriana Fallaci definì l’islamismo «il nuovo nazifascismo, con il quale non sono possibili compromessi » e il giornalista Carlo Panella ha pubblicato tra l’altro nel 2007 Fascismo islamico per spiegare le inquietanti radici e i preoccupanti obiettivi del regime islamico iraniano.
Il FOGLIO - Daniele Raineri : " Perché in Egitto stiamo dalla parte dei militari contro la Fratellanza"
Daniele Raineri
Roma. Parliamo con un lavoratore egiziano di medio-alto livello, settore finanza, al Cairo, per capire perché la repressione militare contro i Fratelli musulmani raccoglie un consenso così largo in Egitto. Questo favore popolare è così forte che il governo due giorni fa è stato costretto a dichiarare fuorilegge le milizie scese in strada ad aiutare le forze di sicurezza, con bastoni e machete, contro gli islamisti. “La maschera dei Fratelli musulmani è venuta giù. Dopo il 3 luglio, dopo l’arresto del presidente Morsi, l’ambiguità politica della Fratellanza è finalmente finita e bastava ascoltare i loro proclami di violenza dai palchi dei sit-in. Erano stati abilissimi a imbastire un discorso per l’uditorio internazionale fatto di legittimità e vittoria elettorale da rispettare, ma qui dicevano che se il paese non gli fosse stato restituito allora sarebbe scoppiata la violenza. Minacciavano. Come se in questa situazione avessimo bisogno di altra brutalità. Per questo la gente ha accolto con sollievo l’intervento della polizia ai sit-in”. Gli egiziani respingono i Fratelli musulmani come si accorgessero all’improvviso di avere a che fare con un corpo estraneo? “E’ anche una questione di sentimento religioso offeso. Questa definizione che loro appioppavano a chiunque non fosse dalla loro parte: ‘infedele’. Come si fa? In Egitto la stragrande maggioranza della gente è profondamente religiosa, non esistono laici, il meno credente qui in Italia sarebbe un estremista cattolico. Si è sentita scomunicata in casa propria. Come si può accettare in pace di essere trasformati in ‘infedeli’ negli slogan e nelle marce e nei discorsi dai sit-in? Con che diritto? Alla protesta contro Morsi del 30 giugno, quella che poi ha fatto scattare l’intervento dell’esercito, c’erano manifestanti religiosissimi. La Fratellanza si è arrogata un diritto di monopolio sulla fede che nessuno aveva concesso loro”. I Fratelli si saranno pure rivelati un gruppo violento e avranno offeso il sentimento religioso nazionale, ma le forze di sicurezza hanno fatto irruzione con i blindati nei sit-in, hanno sparato, hanno usato i bulldozer, ci sono stati 600 morti nel primo giorno. “Le nostre forze di sicurezza non sono addestrate per questo tipo di operazioni e possono averle compiute malissimo, i blindati sono stati usati soltanto per abbattere le recinzioni costruite dai Fratelli musulmani. Si erano presi un pezzo di città con un’occupazione artificiosa, perché molti là erano figuranti poveri che stavano nelle tende per i pasti gratis ogni giorno e perché erano stati assoldati con 1.000 sterline egiziane (un po’ più di cento euro). Chi può veramente mollare il lavoro e passare 45 giorni fermo in un sit-in? Invadevano le case vicine per usare i bagni, sfondavano le porte”. Per sei settimane – Ramadan incluso – il campo principale di Rabaa el Adawiya ha espanso i propri confini chilometro dopo chilometro, fino a inglobare la grande strada che connette Nasr City e tutto il resto del Cairo all’aeroporto internazionale. Poi l’intervento militare e il massacro. “Ma sparavano ai soldati. I Fratelli musulmani sono violenti, attaccano le chiese, hanno attaccato la sede di un governatorato, una stazione di polizia. Cosa fareste da voi se in città girasse un corteo di gente con le armi?”.
Se arriva anche la parola “insurgency”
Ieri mattina l’avvocato di Hosni Mubarak ha detto a Reuters che l’ex presidente potrebbe essere rilasciato entro pochi giorni. In realtà la decisione potrebbe dover aspettare altre due settimane e non è certa, perché anche se cadono le accuse di corruzione resta in piedi il processo più grave per le morti dei manifestanti durante la rivoluzione del 2011. Le Monde diplomatique scrive che i sauditi hanno chiesto la rimozione di Morsi e un migliore trattamento per Mubarak in cambio dei 5 miliardi di dollari di aiuti elargiti per l’economia egiziana – il sovrano saudita ha molto a cuore Mubarak, quando nel 2011 seppe che Washington l’aveva abbandonato al suo destino si dice abbia avuto un malore dalla rabbia mentre era al telefono con Obama. Se l’ex rais fosse rilasciato, il simbolismo sull’aria di restaurazione che tira al Cairo sarebbe evidente. Il leader dei Fratelli musulmani, Mohamed Morsi, agli arresti e Mubarak libero. L’Egitto tornerà come prima? Ieri è circolata la foto di una strage di 25 reclute della polizia egiziana nel Sinai, fatte scendere dai mezzi e uccise con un colpo alle spalle. Per la prima volta Reuters ha usato il termine “insurgency” in un titolo sull’Egitto, per un pezzo che parlava di un’altra regione, Minya, a sud del Cairo, dove uomini armati attaccano stazioni di polizia e chiese. “Insurgency”: insurrezione armata islamista come in Iraq, Siria, Pakistan o Afghanistan.
La STAMPA - Roberto Toscano : " Arabi vs arabi, la democrazia è un miraggio"
Roberto Toscano
Abbiamo letto con soddisfazione l'analisi di Roberto Toscano simile in maniera stupefacente a quella di Hirsi Ali, profonda conoscitrice del mondo arabo musulmano che oggi vive in Usa in esilio per salvarsi la vita, non più garantita dall'Olanda, Paese nel quale viveva prima. Segnaliamo quindi questo sguardo in avanti di Toscano augurandoci che continui.
Non è passato molto tempo da quando i popoli arabi, pur profondamente diversi fra loro per strutture di potere e assetti socio-economici, trovavano una loro identità comune in una sorta di definizione per contrapposizione.
Da un lato si trattava della memoria storica, profondamente sentita a livello popolare, dell’umiliazione coloniale e neo-coloniale, e dall’altro dell’ostilità contro Israele, sentita come corpo estraneo la cui stessa esistenza era percepita come una perdurante sconfitta.
Oggi le cose sono profondamente cambiate, e lo si è visto quando, nel 2011, le masse arabe scese in piazza contro i regimi dittatoriali in Egitto e Tunisia non bruciavano bandiere americane né davano voce al loro odio nei confronti del nemico sionista. Sembrò allora una promettente presa di coscienza del fatto che libertà politica e giustizia sociale potevano essere conseguite soltanto identificando il nemico principale: regimi la cui esistenza poteva solo in parte essere attribuita a forze esterne.
Sarebbe tuttavia incauto rallegrarsi di questo segno di maturazione politica senza vedere quello che ha preso il suo posto nella coscienza collettiva dei popoli arabi.
Si sta infatti rapidamente aggravando un fenomeno che minaccia di essere devastante per ogni prospettiva non solo di cambiamento in senso democratico, ma di una semplice convivenza civile. L’ostilità verso un nemico esterno, che bene o male era servita a dare una minima coesione a Stati estremamente fragili, viene sempre più sostituita da una radicale, e spesso feroce, contrapposizione interna, da una spaccatura settaria che minaccia di trasformare gli Stati in crisi in Stati falliti.
Ovunque nel mondo la perdita di controllo prodotta dalla globalizzazione ha esasperato per reazione un’esigenza identitaria che mina la coesione delle comunità nazionali. Ma mentre in Europa il risultato è il rafforzarsi delle spinte centrifughe a livello territoriale (fino al separatismo), nel mondo arabo è la dimensione religiosa a definire tutta una serie di identità ostili e conflittuali.
Si parte dalla contrapposizione religione/laicità, che spinge a divisioni politiche inconciliabili soprattutto perché – con un equivoco che non è solo semantico ma profondamente concettuale – nel mondo islamico «laico» è equivalente ad ateo. La maturazione di un modo più corretto di impostare la questione, con il rafforzamento (come faticosamente è diventato possibile nel mondo cristiano) della opzione di una religiosità laica, non è certo per domani, anche se non mancano gli intellettuali islamici che stanno cercando di spingere in questa direzione. Nel frattempo i laici vedono da un lato un islamismo violento, wahabita nell’ideologia e jihadista nella prassi, e dall’altro un islamismo moderato (come quello dei Fratelli Musulmani o del partito Akp in Turchia) che temono voglia perseguire, anche se con mezzi pacifici, la stessa finalità di un’islamizzazione della società imposta con la legge. Un timore che arriva a portare, come oggi in Egitto e ieri in Turchia, sedicenti democratici a schierarsi a favore di dittature militari anche profondamente repressive, ma laiche.
La seconda contrapposizione si riferisce alla spaccatura fra musulmani ed appartenenti ad altre religioni. Il Medio Oriente è stato sempre caratterizzato da una pluralità di comunità religiose che, anche in regimi non pluralisti, avevano finora mantenuto spazi di «agibilità» e un’integrazione di fondo con le maggioranze musulmane. Pensiamo soprattutto alle antiche comunità cristiane d’Oriente. I dittatori laici (Saddam, Mubarak, Assad e lo stesso Gheddafi) avevano, agli occhi di queste comunità, il non secondario merito di non discriminare nei loro confronti. Certo, opprimevano tutti i cittadini, ma non in quanto appartenenti o no all’Islam. In tutti i Paesi in cui i dittatori laici sono stati sostituiti da governi di maggioranza islamica (Iraq, Egitto, Libia), i cristiani hanno cominciato a sentirsi minacciati dagli islamisti più radicali, ma spesso con la connivenza o la passività degli islamisti moderati, mentre in Siria la presenza nello schieramento anti-Assad di gruppi wahabiti ha comprensibilmente aumentato l’avversione delle minoranze non islamiche nei confronti di un’ipotesi di caduta del regime e il sospetto nei confronti di una «democrazia islamica».
Ma la spaccatura più significativa, più generalizzata, più drammatica è quella fra sunniti e sciiti. Si tratta di uno scisma all’interno dell’Islam che ha radici antiche, visto che nacque per una disputa sulle modalità di successione al Profeta, e che nei secoli ha visto un alternarsi di periodi di quiescenza con periodi di feroce scontro non molto diversi da quelli che per secoli hanno caratterizzato il difficile rapporto fra cattolici e protestanti.
I Paesi sunniti non hanno mai accettato che gli sciiti – tradizionalmente i dissidenti, i perdenti, i settari emarginati quando non perseguitati – acquistassero, con la rivoluzione iraniana del 1979, un riferimento sia ideale che materiale capace di renderli protagonisti, nonché pericolosi concorrenti dell’Islam maggioritario quando non agenti delle ambizioni dell’Iran. Questo era vero soprattutto nei primi anni dopo la rivoluzione, quando l’Iran non faceva mistero della propria intenzione di espandere la propria egemonia a tutto il mondo islamico. Un progetto ben presto rivelatosi poco realista, il che spiega una certa quiescenza della questione sunnita/sciita - una quiescenza che è durata fino alla caduta di Saddam, laico ma pur sempre sunnita. Quando gli americani hanno non solo imposto a Baghdad un nuovo sistema basato sulle elezioni e un governo maggioritario, ma hanno anche insistito per la strutturazione del sistema politico con riferimento alle tre comunità (sciiti, sunniti, curdi) diventava evidente che il governo iracheno sarebbe stato sciita.
I Paesi sunniti tuttavia, e in primo luogo l’Arabia Saudita, non hanno mai accettato che a Baghdad ci fosse un governo sciita, per giunta amico degli iraniani.
Il discorso sunnita sulla «Shia crescent» (la mezzaluna crescente sciita) agita lo spettro di un’espansione sciita che non sta nella realtà dei rapporti di forza, ma nasconde l’intenzione sunnita di rendere reversibile l’attuale status quo. Stiamo oggi assistendo a una vera e propria offensiva sunnita.
Non solo per l’Iraq, che infatti vede oggi un drammatico aumento del terrorismo sunnita – contro un governo sciita, va aggiunto, sempre meno democratico e sempre più repressivo – ma anche in relazione alla questione siriana. Gli alawiti, setta religiosa cui appartiene Assad, sono un «sottoprodotto» dello sciismo (l’Oriente è ricco di religioni e di sette spesso sincretiste), ma certo il dittatore siriano non è un paladino dello sciismo, bensì un tipico esponente, come suo padre, dell’ideologia del partito Baath, un partito laico nazionalista (e, a ben vedere, di tipo fascistoide) creato negli Anni 40 da un cristiano, Michel Aflaq.
Ma una delle ragioni del sostegno fornito dai Paesi sunniti (in primo luogo Arabia Saudita e Qatar) ai ribelli è il fatto che la Siria di Assad è l’anello di congiunzione fra Islam e Hezbollah, il movimento sciita più agguerrito, organizzato e politicamente abile, passato da movimento terrorista a partito politico senza mai abbandonare una significativa forza militare. In realtà, quindi, la Siria è anche, e forse soprattutto, terreno di scontro per la guerra civile sunnita-sciita, con Hezbollah che invia propri combattenti a sostenere Assad. E il pericolo è che lo scontro si estenda, come fanno temere recenti atti di terrorismo, all’interno del Libano, destabilizzando un Paese i cui fragili equilibri inter-comunitari sono garantiti, più che altro dallo spettro di un riaccendersi di una quindicennale guerra civile.
Se si aggiungono le sorti incerte della democrazia in Tunisia – dove laici, islamici moderati e islamici radicali non hanno ancora trovato un minimo di consenso – e l’incapacità della Libia del dopo Gheddafi di emanciparsi dalla prepotenza delle milizie armate, il quadro del mondo arabo non è certo incoraggiante.
Lo scontro fra arabi dovrà trovare una propria decantazione, un assestamento oggi imprevedibile e che comunque sarà diverso in ciascun Paese. Ma certo la realizzazione della promessa di democrazia e libertà della Primavera Araba non è per domani.
Forse è un miraggio, ma non nel senso di qualcosa di irreale bensì, come è in effetti il fenomeno del miraggio, il prodotto dell’illusione ottica che ci fa vedere vicino un oggetto del tutto reale, ma che è molto più lontano di quanto il nostro occhio creda di percepire.
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