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La Repubblica Rassegna Stampa
19.08.2013 Al Jazeera alla conquista dell'America
cronaca di Massimo Vincenzi

Testata: La Repubblica
Data: 19 agosto 2013
Pagina: 28
Autore: Massimo Vincenzi
Titolo: «United States of al Jazeera»

Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 19/08/2013, a pag. 28, l'articolo di Massimo Vincenzi dal titolo "United States of al Jazeera".


                          Al Gore con il logo di Current TV

Dopo aver acquistato Current Tv, per l'Emiro del Qatar (proprietario di al Jazeera), il passo successivo è lanciare il canale al Jazeera America, in concorrenza con le altre reti televisive americane e con lo scopo di "migliorare l'immagine" dopo che per anni è stata associata ai messaggi di al Qaeda.
Come si legge anche nel pezzo, per i primi tempi la rete al Jazeera lavorerà in perdita (che problema c'è, quando il proprietario è l'emiro del Qatar) pur di sottrarre telespettatori alla Cnn.
All'inizio i programmi saranno dis tampo occidentale, con talk show, documentari, previsioni meteo. E poi? Non è specificato, ma non è difficile immaginare quale sia lo scopo del Qatar che, da sempre, finanzia i Fratelli Musulmani e il terrorismo islamico.
Ecco il pezzo:

NEW YORK -  Il piccolo logo d’oro con scritto sotto Al Jazeera America sembra scolpito sul muro di cemento accanto al 305 west sulla 34esima strada a Chelsea, ma per vederlo bisogna sapere cosa cercare. Niente insegne luminose, niente cartelli pubblicitari, si intuiscono dei televisori dietro le tende che chiudono le vetrine affacciate sul marciapiede, ma verranno accesi solo domani al via ufficiale delle trasmissioni. Parte da qui, dalla sede centrale di New York, l’ultima sfida della televisione del Qatar che va alla conquista del mercato più ricco e più difficile del mondo, quello made in Usa. In punta di piedi, con tanta ambizione ma poche parole perché, come ha scritto un sito specializzato in mass media, «hanno molti soldi, volti noti, buone idee ma anche un grande problema di immagine».
Ovvero far dimenticare al pubblico americano le dirette post Undici settembre quando dagli schermi arabi si affaccia Osama Bin Laden che ripete le sue minacce contro gli Stati Uniti. Viene poi la seconda guerra del Golfo e l’identificazione con il nemico ha il sigillo della Casa Bianca: «È un’emittente terrorista », dice l’allora Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld che non ama le metafore. Negli stessi giorni, a Washington, il proprietario del palazzo dove c’è la prima sede di corrispondenza nega il permesso di esporre il marchio: «Non metterete la vostra bandiera sulle mie finestre», giura al momento della firma del contratto. Sono passati anni, che valgono un’epoca, c’è un’altra America, c’è Obama e le teorie degli uomini di Bush non dominano più nei dibattiti, ma il terrorismo rimane un incubo collettivo e cambiare l’umore del pubblico è il primo vero ostacolo che i manager e i giornalisti di Al Jazeera devono superare.
A Mike Viqueira, notista politico che seguirà il Congresso, quando esce l’annuncio del suo nuovo incarico intasano l’account di Twitter con insulti vari: «Trecento messaggi in poche ore: ma perché vai con quelli?» racconta ad Usa Today. Nei piani alti della società gira un sondaggio che fotografa la situazione: «Il 75% degli intervistati che non ha mai visto un minuto dei nostri programmi ha una percezione negativa di noi. Il 90% di quelli che invece hanno visto qualcosa esprimono un giudizio molto positivo», spiega Ehab Al Shihab, l’amministratore delegato che guida l’operazione. Sorridente, abito scuro, cravatta fantasia, camicia bianca e occhialetti rotondi, sta in piedi all’ingresso della nuova sede. Bianco accecante dappertutto, alle sue spalle due schermi piatti, pochi metri più in là gli inservienti finiscono di pulire divani e pavimenti. Gente a ondate, il caos prima della prima. Per entrare bisogna superare un checkpoint tipo aeroporto, guardie vigilano in maniera discreta sull’ingresso. «Siamo eccitati, ci aspetta una sfida bellissima ma abbiamo lavorato tanto per farcela», ripete quasi a stesso.
La campagna acquisti è da scudetto, con parecchie star del giornalismo strappate alle tv rivali. A partire dalla presidente Kate O’-Brien, ex numero due di Abc, una scelta strategica: «L’abbiamo presa perché è una professionista di alto livello e perché è perfetta per il nostro progetto: lei sa quello che gli americani vogliono vedere quando si parla di notizie ma conosce anche e apprezza il nostro stile». Poi ecco, dalla Cnn, Ali Velshi, Soledad O’Brien e David Doss, famoso per la sua collaborazione con Anderson Cooper, Marcy Mc-Ginnis ( Cbs), Shannon High-Bassalik ( Msnbc), John Seigenthale (Nbc) e la numero uno: Joie Chen che porterà qui in prima serata il suo America Tonight. Lei spiega lo spirito e la linea editoriale: «Mi sentivo spenta, arrivata, ero in cerca di nuovi traguardi: qui c’è un clima emozionante, sono felice di partecipare a questa avventura. Ci occuperemo delle notizie del giorno, ma l’idea è quella di non inseguire gli altri network sulla loro stessa strada, dobbiamo realizzare un prodotto quanto più originale possibile». E il primo reportage sarà di un inviato embedded tra le gang che terrorizzano Chicago. Un “giornalismo diverso”, lo promette anche Ehab Al Shihab: «Vogliamo dare voce a chi non ce l’ha e farlo con il nostro stile rigoroso e obiettivo. A chi ci critica in anticipo dico: aspettate e poi giudicherete.
Msnbc e Fox sono molto politicizzate, la Cnn da un po’ insegue solo le celebrità, noi vogliamo raccontare la gente comune ». Per questo tra i dodici uffici aperti alcuni sono in città solitamente dimenticate dai grandi media nazionali come New Orleans, Seattle, Denver, Nashville: «Ci occuperemo delle persone, volti e storie private, tanta cronaca. In uno dei servizi che abbiamo preparato siamo andati a Detroit per coprire la bancarotta e lo abbiamo fatto attraverso le testimonianze di chi lotta per portare la città fuori dalla crisi». E poi gli esteri, ovviamente. Perché se ora in questi studi lavorano duecento persone, sono quasi 400 in totale e arriveranno presto a 900, è soprattutto grazie alla primavera araba. È il racconto di quelle rivolte che inizia a far cambiare idea agli americani, con una testimonial d’eccezione, Hillary Clinton: «A volte si può non essere d’accordo con le loro opinioni, ma fanno informazione ad alto livello: si ha la sensazione di vedere un vero prodotto giornalistico, non di essere invasi dalla pubblicità».
E all’inizio la televisione avrà solo 6 minuti di spot all’ora contro i 15 delle concorrenti: «Abbiamo messo in conto di perdere soldi nella prima fase, ma per noi è importante far passare il nostro messaggio. Poi tutto sarà più facile». La redazione sta su due piani. Finestre enormi cielo-terra illuminano l’open space. Alle scrivanie sono quasi tutti giovani, i consueti bicchieroni di caffè si mischiano con le scatole di cibo take away e le scalette dei programmi: «Non siamo ancora partiti ma da un mese facciamo numeri zero, l’ambiente è già vissuto». Paul Eedle è il direttore della programmazione, fa da guida durante il tour: «Quando abbiamo iniziato le selezioni ci sono arrivati oltre ventimila curriculum in poche ore. Abbiamo messo in piedi una squadra variegata, uomini e donne di diverse culture, nazionalità, formazione. Ragazzi entusiasti e professionisti più esperti che li possano guidare e far crescere: un mix vincente». Nei sotterranei del palazzo c’è il cuore pulsante della tv. Le cabine di regia, luci basse, decine di monitor: «Qui in prima fila ci sono i capi della produzione, poi i grafici e dietro di loro gli altri tecnici». Il design del video è chiaro, il logo sta in basso a destra, le scritte sottopancia spiegano chi c’è sullo schermo o il luogo da dove viene la ripresa: «Abbiamo scelto la semplicità perché non vogliamo che lo spettatore sia distratto da altro, noi vogliamo catturare la sua attenzione solo con la qualità della nostra informazione ». Si scende ancora per arrivare nell’epicentro: lo studio della diretta. Una grande sala dominata dall’arancione, con spruzzate blu e oro «che fanno tanto America» e una scrivania trasparente curva dove starà il conduttore. «Da qui trasmetteremo in diretta tutti i giorni per 14 ore, da qui produrremmo i nostri talk show: all’inizio saranno sull’attualità, poi arriveranno lo sport e gli spettacoli. E anche documentari di scienze e storia», si appassiona Eedle. Mentre parla, gli enormi schermi tv che coprono le pareti colorano la stanza con le loro immagini: la tragedia del Cairo si alterna con le vacanze di Obama. La visita è quasi finita.
Manca la studio del meteo, dove una ragazza bionda prende confidenza con il touch screen delle previsioni: viene anche lei dalla concorrenza, Cbs. Ehab Al Shihab è già partito, vola a Washington dove lo aspetta un’agenda zeppa di incontri con investitori e uomini politici: soldi e cura dell’immagine. E poi con gli operatori delle tv via cavo e dei satelliti, serve maggiore copertura perché quella di Current, la creatura di Al Gore, che Al Jazeera ha comprato per 500 milioni di dollari, non basta. Domani il segnale arriverà solo in 40 milioni di case, la metà della Cnn: «Essere visti è il nostro vero problema, ma presto cresceremo, siamo ottimisti. Saremo una bella sorpresa, sicuro ». Per uscire bisogna ripassare dalla sala regia. Simulano una diretta dal Cairo. «Ehi, ma ce l’abbiamo una cartina dell’Egitto?», chiede il capo, lunghi capelli e barba bianchi. Dietro di lui un ragazzo pronto: «Beh, se non ce l’abbiamo noi...» e tutti ridono. Le trasmissioni possono iniziare.

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