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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Assaf Gavron, Idromania 19/08/2013

Idromania                                         Assaf Gavron
Traduzione di Shulim Vogelman
Giuntina                                              euro 15

Tel Aviv. «Un giorno mi sono messo a fantasticare. Se arrivo a novantanove anni come sarò? E come sarà il mondo intorno a me? Che tecnologie userò per muovermi, per comunicare, per passare il tempo? E il mio paese, esisterà ancora?». Assaf Gavron sogna molto e non ha paura dei sogni. Perché le fantasticherie, anche quelle difficili e politicamente scorrette, sono il motore dei suoi romanzi. Sono storie in cui dice iniziando questa intervista dalla casa di Tel Aviv «preferisco esplorare ciò che non sono e non conosco piuttosto che, come spesso si consiglia ai narratori, limitarmi a scrivere di ciò che ho vissuto». Dalla proiezione di un se stesso centenario in un minaccioso futuro prossimo nasce Idromania (Giuntina, pp. 225, euro 15, traduzione di S. Vogelmann), appena uscito in Italia, che lo scrittore presenta al Festival della Letteratura Ebraica di Roma il 23 luglio. Un esperimento riuscito di fantascienza passionale e thriller politico, con cui questo quarantaquattrenne dall’aria da ragazzo si conferma nella leva dei narratori israeliani (tra gli altri Eshkol Nevo, Etgar Keret, l’arabo israeliano Sayed Kashua) che hanno raccolto il testimone dei grandi come Yehoshua, Kaniuk, Oz. In Idromania siamo nell’anno 2067. A causa del mutamento climatico, in Medio Oriente le temperature si sono alzate e le risorse idriche sono scarsissime. Di ciò che era Israele è rimasta soltanto Cesarea, con i suoi quartieri galleggianti e l’aria torrida, e gli immediati dintorni: il resto della nazione dopo una lunga guerra è passato nelle mani dei palestinesi. Ma i veri padroni di ogni cosa sono le multinazionali che controllano commercio e distribuzione dell’acqua, ed è proprio contro i mercanti d’acqua che si schierano Maya, la protagonista del romanzo, e il marito Ido. Ido ha creato un impianto domestico che permette di immagazzinare e depurare la pioggia; proprio mentre sta decidendo cosa fare della propria invenzione, però, l’uomo scompare lasciando sola Maya con un pancione di sette mesi. È incinta, senza denaro e la polizia la accusa di un omicidio. Eppure, trasferitasi nel villaggio di Charod, la donna non si arrende e convince gli abitanti (tra cui il centenario Assafgi, divertente e nostalgica controfigura dello scrittore) a realizzare il progetto di Ido affinché l’acqua sia di tutti, sfidando multinazionali e governo. Scritto in una lingua scarna come i paesaggi che tratteggia, Idromania tocca i tasti più delicati della contemporaneità israeliana e lo fa senza cautele. Gavron ne è consapevole. «Conflitto e dialettica sono parte della nostra identità. Parte della sfida di vivere qui anche quando vorresti andartene. Come ho fatto in passato, trasferendomi a Berlino e a Vancouver». Sarà pure un fatto identitario, ma per Gavron provocare è la posta in gioco nella scrittura. Nel 2006, quando uscì La mia storia, la tua storia (Mondadori), che raccontava di un kamikaze palestinese che fa saltare in aria un autobus a Tel Aviv, finì persino davanti a un giudice. «L’autista di un pullman di linea sosteneva che mi fossi ispirato a lei per uno dei personaggi e mi citò in tribunale. Ma il clima non era favorevole al libro fin dall’inizio: un editor si rifiutò di revisionarlo, alcuni giornali lo attaccarono. Perché l’attentatore suicida palestinese ha una sua voce. È un essere umano e io ho voluto mettermi nella sua testa, restituire le sue motivazioni». A mettersi nella testa di qualcuno che non gli somiglia né la pensa come lui Gavron ci ha riprovato anche con il recente Hagiva (La collina), ancora inedito da noi su un colono che fonda un insediamento illegale nei Territori occupati. Ma forse non si è mai spinto così avanti come in Idromania, dove immagina la fine di Israele. Impresa non facile per uno che, come lui, è figlio di due intellettuali emigrati dall’Inghilterra negli anni 60. I genitori si definivano sionisti e lui, liberal di sinistra, continua a pensare che «nonostante oggi sia carico di tensione, sionismo resta il termine che definisce il diritto degli ebrei ad avere una propria terra. Dentro questa parola c’è la nostra storia e l’idea che non siamo qui per caso».  Idromania, spiega tornando al libro, non è una profezia, ma un teorema di fantascienza di Philip Dick. «Non sono un analista politico né un indovino» puntualizza, «mi limito ad alcune constatazioni. Nei 65 anni di vita di Israele non c’è stato decennio in cui i confini non siano cambiati. E poi c’è un altro fattore: l’asse del potere mondiale si sposta verso l’Asia e cala l’influenza degli Stati Uniti, il cui appoggio per noi è centrale». Anche stavolta in patria c’è chi non l’ha presa bene. «Però la cosa buffa è che questo scenario futuribile può essere usato a proprio vantaggio di chi ha opinioni diverse. Per dire: guarda come finiremo se non facciamo la pace. Oppure: guarda come finiremo se abbassiamo la guardia». Se la trama ruota intorno alla scarsità d’acqua, da sempre cardine dello scontro con i palestinesi in una zona parzialmente desertificata (secondo un rapporto Onu già nel 2020 la situazione idrica della striscia di Gaza potrebbe diventare insostenibile), il romanzo disegna però anche i mutati rapporti sociali di una futura società ipertecnologica in cui la gente, dotata di occhiali multimediali e chip sottopelle, perde il senso della comunità. Eppure le pagine di Gavron non sono oscure, anzi possiedono una persistente energia vitale. E Maya, la protagonista, bella e forte, non dà la vita solo partorendo: grazie alla sua intelligenza trova una soluzione per cambiare il mondo. Simbolo di chi, vivendo in un posto durissimo, ha i piedi ben piantati nella terra. E un’incrollabile fiducia in se stesso, qualunque avversità il futuro abbia in serbo.

Lara Crinò
Il Venerdì di Repubblica


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