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La maledizione del Sinai (Traduzione dall’ebraico di Sally Zahav, versione italiana di Yehudit Weisz) Nella Penisola del Sinai, su una sperficie di circa 61.000 km quadrati, quasi tre volte lo Stato di Israele, vivono 550.000 abitanti, meno di un decimo della popolazione israeliana. I suoi abitanti, per la maggior parte cittadini egiziani, non sono di origine egiziana: il loro dialetto arabo è saudita, la loro cultura è diversa da quella egiziana, e si identificano nello Stato egiziano quanto i beduini del Negev in quello di Israele. Questo perché il beduino non s’identificherà mai in uno Stato, dal momento che rappresenta l’ordine e la legge, mentre nel deserto è naturale che le leggi in vigore siano quelle delle tribù. Solo quando il beduino è integrato in un sistema di governo e ne gode i benefici, allora s’identifica nello Stato, per esempio in Giordania, ma anche così non è detto che funzioni. La Penisola del Sinai non è mai stata parte integrante dell’Egitto: è stata annessa soltanto all’inizio del XX° secolo, quando gli inglesi che allora governavano il paese, avevano voluto mantenere separato l’impero ottomano dal Canale di Suez. L’Egitto non volle mai imporre le proprie leggi nel Sinai, come chiunque può verificare: ci sono poche strade, mentre ci sono spazi immensi, inaccessibili a infrastrutture del governo, come polizia, ospedali e scuole. Persino l’esercito ha considerato il Sinai solo come un’area di addestramento oppure un campo per operazioni militari contro Israele. In generale si può affermare che l’Egitto non ha mai desiderato il fardello del Sinai, un figliastro che non poteva immaginare costasse così tanto. Dopo la conquista del Sinai da parte di Israele con la Guerra dei Sei Giorni (nel giugno del 1967) i beduini vennero a patti con l’IDF (le Forze di Difesa Israeliane): se Israele avesse concesso ai beduini di rimanere autonomi e di vivere la loro vita, non si sarebbero opposti al dominio di Israele sul territorio. Israele fece finta di non sapere che i beduini coltivavano piantagioni di papavero, che producevano una parte assai significativa dell’oppio consumato a livello mondiale, e i beduini a loro volta, facevano finta di non vedere i turisti israeliani che sulle spiagge del Mar Rosso non seguivano le regole confacenti ai loro costumi. I numerosi villaggi turistici che allora sorgevano a Taba, Nawiba, di-Zahab, e a Ofira (Sharm-e-Sheikh) avevano portato loro benessere, così come le vicine basi dell’IDF. Le buone relazioni tra beduini e Israele si basavano sul fatto che Israele non aveva alcuna intenzione di condividere con loro la propria cultura, per cui non entrava in merito ai principi e alle leggi che seguivano da tempi immemorabili.
Un dettaglio molto importante da tener presente è che il confine tra Israele ed Egitto era solo una linea sulla carta geografica, non esisteva una barriera o un muro, e questo consentiva ai beduini del Sinai, insieme con i membri delle loro famiglie che vivevano nel Negev, di mantenersi facendo contrabbando di merci, droghe, donne e immigranti illegali che cercavano lavoro in Israele. Le autorità israeliane erano al corrente di questi traffici , ma per anni fecero molto poco per impedirli, poiché era interesse comune mantenere buone relazioni. I beduini del Sinai fornivano a Israele non solo merci ma anche informazioni di intelligence. Quando nel 1982 Israele si ritirò dal Sinai, la sovranità della Penisola ritornò all’Egitto, che però non s’interessò agli immensi spazi desertici o alle montagne della Penisola, ma si limitò a governare esclusivamente sulle cittadine sparse sui litorali: sulla costa del Mediterraneo (Rafiah, el-Arish, Sheikh Zayed), sulle coste del Mar Rosso (Taba, Dahab, Nawab, Sharm-e-Sheikh) e sulla costa della Baia di Suez (e-Tur, Ras Sudar, Abu Rudis, Port Fuad).
Questo stato di tensione si accrebbe ancora di più dopo la firma degli Accordi di Oslo nel 1993, quando finanziamenti internazionali iniziarono a fluire nella Striscia di Gaza. Questi fondi venivano trasformati in merci, soprattutto da Israele, ma anche dall’Egitto, perché i prezzi erano più bassi. I beduini residenti nel Sinai del Nord vedevano se stessi come gli intermediari naturali tra Gaza e l’Egitto, mentre gli ufficiali egiziani, la polizia e il mukhabarat (il servizio segreto egiziano) volevano approfittare delle mediazioni sul commercio e sul trasporto. La tensione aumentò quando il commercio con Gaza iniziò a introdurre le armi che le fazioni contrarie all’OLP, soprattutto Hamas e Jihad islamica, volevano importare nella Striscia di Gaza attraverso i tunnel con l’Egitto, essendo impossibile il passaggio da Israele. Persino mentre Israele governava ancora sulla Striscia, il contrabbando attraverso i tunnel era diventato un’importante fonte economica per i beduini che vivevano nel Sinai del Nord. Fino al momento in cui Hamas prese il sopravvento nella Striscia di Gaza nel giugno del 2007, il contrabbando era diventato il partner privilegiato dei beduini, perché una gran parte dei proventi di Hamas deriva dalle tasse imposte a quanto viene fatto entrare nella Striscia attraverso i tunnel. Parallelamente, molti membri dell’organizzazione jihadista, che a Gaza si oppone ad Hamas, hanno lasciato la Striscia per rifugiarsi nel Sinai tra i beduini nella zona di el-Arish e Sheikh Zabed. Così possono continuare a controllare i loro traffici ma da una zona sicura. Il governo di Hamas aveva spedito delle spie nel Sinai del Nord per tenere sotto controllo le loro attività e per mantenere il controllo del contrabbando dal lato egiziano, tutto questo sotto gli occhi ben aperti, ma foderati di dollari, degli addetti alla sicurezza egiziani. Nello stesso tempo, Hamas cercava di trasformare il Sinai in una base secondaria da cui attaccare Israele, anche perché, essendo il territorio sotto il controllo egiziano, Israele non poteva intervenire. Ogni volta che Israele intensificava la caccia ai terroristi che da Gaza lanciavano missili, Hamas spostava le proprie basi di lancio verso attacchi terroristici agli autobus e alle truppe militari israeliane oppure con lanci di missili verso le città israeliane, malgrado la sovranità sul Sinai fosse egiziana. Dopo la caduta di Morsi, l’Egitto accusa Hamas di essere responsabile del caos terroristico nel Sinai, e non senza buoni motivi. Parallelamente, jihadisti provenienti da altri campi di battaglia diventati troppo pericolosi, in particolare Iraq e Afghanistan, avevano iniziato ad arrivare nel Sinai, e avevano trovato rifugio tra i beduini. Avevano portato con sé l’esperienza che avevano accumulato nel tempo, nell’uso delle armi e dei carri armati, nel fabbricare bombe, e nel preparare esplosivi. Nel gennaio-febbraio 2010, gli jihadisti del Sinai avevano ricevuto notevoli rinforzi quando centinaia di attivisti dell’Islam radicale erano stati liberati in massa dalle prigioni egiziane e si erano uniti alle manifestazioni contro Mubarak. Per gli egiziani questa era la “Primavera araba”; per gli jihadisti questa era la libertà di fare ciò che volevano, sia contro l’Egitto che contro Israele. Per ricevere finanziamenti, armi e munizioni, gli jihadisti del Sinai dovevano compiere attacchi terroristici e organizzarsi. Nell’ottobre del 2004, furono colpiti l’Hotel Hilton a Taba e i turisti della spiaggia di Ras-el-Shaitan. Nell’aprile del 2006 i terroristi lanciarono tre attacchi alla città di Dahab, vi furono 27 morti e un centinaio i feriti. Nell’aprile del 2010 dal Sinai furono lanciati due razzi Katyusha sul porto di Eilat, e uno di essi cadde nella zona di Aqaba, in Giordania, un obiettivo che venne giudicato intenzionale. Nell’agosto del 2011 un’unità di terroristi s’infiltrò dal Sinai in Israele, a nord del posto di blocco di Ain Netafim sulla strada che da Rafiah porta a Eilat: otto israeliani furono uccisi. Nell’aprile del 2012 un razzo Grad fu lanciato su Eilat, cadendo su una zona residenziale. Nell’agosto del 2012 un attacco terroristico fu lanciato contro soldati egiziani che sostavano all’incrocio dei confini tra Israele, Egitto e Gaza: vi furono 16 morti, un mezzo di trasporto fu dirottato dai terroristi, e fu fatto esplodere in Israele. E’ importante far notare che i terroristi che eseguirono questa azione erano tutti dotati di cinture esplosive. Negli ultimi anni diverse organizzazioni hanno fatto esplodere il gasdotto che portava energia dall’Egitto a Israele e Giordania. I responsabili erano dei beduini, ma sicuramente con l’aiuto dagli jihadisti.
Alla fine di giugno 2012, l’ascesa dei Fratelli Musulmani al potere in Egitto è stata la migliore notizia per gli jihadisti del Sinai, poiché sapevano molto bene che il loro governo non avrebbe mai preso la decisione di combatterli, data la vicinanza ideologica tra Fratellanza e jihadisti: entrambi credono nella supremazia dell’Islam su tutte le altre religioni, nell’obbligo religioso della jihad, nel fatto che Israele è un’entità illegittima, ed entrambi sono a favore dell’applicazione della Shari’a su tutti i livelli di vita nelle terre dell’Islam. E così fu: Morsi smorzò le reazioni dell’esercito contro gli jihadisti del Sinai, e dopo che questi nell’agosto 2012 avevano ucciso i 16 soldati, Morsi congedò addirittura i capi militari. L’esercito attese pazientemente il momento giusto per sbarazzarsi di Morsi e degli jihadisti che avevano congiuntamente preso il controllo sul Sinai, e l’occasione arrivò durante le manifestazioni di massa che scoppiarono in Egitto il 30 giugno di quest’anno. In questi giorni l’esercito è impegnato a sbarazzarsi dei sostenitori di Morsi nelle piazze del Cairo e di Alessandria. Gli jihadisti del Sinai sostengono i Fratelli Musulmani e la loro richiesta che Morsi ritorni alla Presidenza. L’esercito è convinto che ci sia un legame tra i Fratelli Musulmani e le organizzazioni del Sinai, e i Fratelli aspettano che le organizzazioni jihadiste del Sinai attacchino l’esercito per alleggerire la pressione sui dimostranti. C’è quindi una buona probabilità che queste organizzazioni possano vendicarsi nei confronti dell’esercito per aver disperso i dimostranti e per i morti tra i Fratelli Musulmani. La vendetta potrebbe arrivare sotto forma di attacchi contro obiettivi militari e contro la polizia nel Sinai, ma anche all’interno del paese. A metà luglio, l’esercito aveva denunciato che un camion carico di missili Grad sulla strada verso il Cairo era stato bloccato al posto di blocco di Ismailia. Se così fosse, significa che i missili degli jihadisti potranno raggiungere non solo Eilat ma anche in direzione del Cairo e Alessandria. Gli jihadisti del Sinai non stanno aspettando l’esercito con delle rose in mano. Stanno preparando una guerra in cui, per ottenere la vittoria, cadranno molte vite umane. Se ne stanno trincerati nei crepacci di montagna, in posti dove un carro armato sarebbe un facile bersaglio. L’esercito dovrebbe arrivare a piedi e cercare di farsi strada sui pendii della montagna, o con elicotteri che diventerebbero facile bersaglio del fuoco da terra. Israele potrebbe essere coinvolto negli eventi in Sinai, a livello d’intelligence e persino dal punto di vista operativo, e che queste attività le conduca d’accordo con l’esercito egiziano. Le due maggiori organizzazioni che operano nel Sinai sono: “Majlis Shura al-Mujahadeen fi aknaf beit al-maqdas”- il “Consiglio Consultivo dei Combattenti della Jihad nell’Area di Gerusalemme”- è un’organizzazione la cui base è a Gaza con molti effettivi nel Sinai, responsabile dei lanci di missili Grad su Eilat della scorsa settimana, e anche di numerosi attacchi alle stazioni di polizia nel Sinai del Nord. Quest’organizzazione è sotto il controllo dei palestinesi ma ha anche contatti in Egitto, e agisce sotto l’ispirazione ideologica della Jihad mondiale. “Jamat al-tuhid waljihad”- ”Unità e Gruppo della Jihad”: questa organizzazione fa parte di un gruppo più ampio – “jamat al-tuhid wal-jihad fi ‘Arab Afriqiya”- l’ “Unità e il Gruppo della Jihad nell’Africa Occidentale”. Agisce con metodi operativi allineati a quelli di al-Qaeda. Un altro gruppo è stato menzionato in questi giorni, “Dar’a Sinai”- “Lo scudo del Sinai”, ma il suo coinvolgimento in attacchi terroristici è ancora da chiarire. Mordechai Kedar è lettore di arabo e islam all' Università di Bar Ilan a Tel Aviv. Nella stessa università è direttore del Centro Sudi (in formazione) su Medio Oriente e Islam. E' studioso di ideologia, politica e movimenti islamici dei paesi arabi, Siria in particolare, e analista dei media arabi. |
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