Egitto: l'esercito mette fuori legge gli islamisti commento di Fiamma Nirenstein, Antonio Ferrari, Alessandra Muglia, Andrea Riccardi
Testata:Il Giornale - Corriere della Sera Autore: Fiamma Nirenstein - Antonio Ferrari - Alessandra Muglia - Andrea Riccardi Titolo: «Uccisi figli e fratelli dei capi. Benzina sul fuoco della rivolta - Sul Medio Oriente cala l’incubo di una stagione di terrorismo - L’élite che ha scelto i generali contro l’islamizzazione - Il difficile futuro dei cristiani d’Oriente, una terza via per e»
Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 18/08/2013, a pag. 15, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo " Uccisi figli e fratelli dei capi. Benzina sul fuoco della rivolta " preceduto dal nostro commento. Dal CORRIERE della SERA, a pag. 3, l'articolo di Antonio Ferrari dal titolo " Sul Medio Oriente cala l’incubo di una stagione di terrorismo " preceduto dal nostro commento, a pag. 5, l'articolo di Alessandra Muglia dal titolo " L’élite che ha scelto i generali contro l’islamizzazione ", a pag. 6, l'articolo di Andrea Riccardi dal titolo " Il difficile futuro dei cristiani d’Oriente, una terza via per evitare l’estinzione ". Ecco i pezzi:
Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " Uccisi figli e fratelli dei capi. Benzina sul fuoco della rivolta "
Fiamma Nirenstein
Pubblichiamo il testo dell'intervento di Fiamma Nirenstein nell'edizione delle 13 del TG5 di ieri, 17/08/2013 :
Vista da Israele l’immensa ondata di sangue che sommerge in questi giorni il Medioriente ha un aspetto surreale. Venerdì mentre in Egitto l’esercito faceva centinaia di morti tra i Fratelli musulmani mentre in Siria proseguono gli scontri tra Assad e i gruppi dei ribelli tra i quali molti estremisti appartenenti alla Jihad mondiale, mentre questi nel Sinai si aggirano contro tutti e specialmente contro Egitto e Israele , mentre in Libano una bomba uccideva una ventina di Hezbollah in uno scontro che li vede in prima linea in Siria a fianco di Assad, in Israele giungeva in visita in un’atmosfera idilliaca Ban Ki Moon per benedire i colloqui tra israeliani e palestinesi iniziati da pochi giorni. La popolazione israeliana vive la sua vita quotidiana nella piccola Terra che è diventata Israele da quando le rivoluzioni della cosiddetta “ primavera araba” hanno scardinato tutti quei dittatori locali che, certo, a scapito della loro popolazione rappresentavano un riferimento internazionale che oggi non c’è più. Israele conserva la sua forza quieta in mezzo ad un mare di odio e i fratelli musulmani, integralisti islamici, hanno ricevuto un duro colpo in Egitto, mentre il potere del generale El Sisi è ancora sconosciuto quello vecchio però era molto pericoloso.
Ecco l'articolo di Fiamma Nirenstein sul GIORNALE
Abdel Fatah al Sisi
Il generale Sisi sta sbagliando strategia, e gli errori che sta compiendo lo condurranno a una guerra insopportabile in un Paese povero, disordinato, disapprovato da tre quarti del mondo. Innanzitutto, la Fratellanza Musulmana non è certo un nemico da poco, e gli onnipotenti militari l'hanno sottovaluta imprigionando, all'inizio, solo la leadership ufficiale e non il quadro intermedio organizzatore che seguita a gestire la piazza. La presenza della Fratellanza in tutti i paesi musulmani, il radicamento nella società egiziano dove è riuscita a diventare maggioranza benché perseguitato da decenni, la sua alleanza con i movimenti jihadisti più duri, dove ognuno è pronto a morire, ne fanno un nemico che non sarà mai disposto a mollare lo spazio conquistato da poco. In secondo luogo, il generale Sisi si è avventurato in quella spirale sanguinosa per cui fra i morti, i feriti, gli arrestati ci sono le proprie stesse viscere, e il perdono non esiste.
Chi costringerà mai la Suprema Guida della Fratellanza Musulmana Mohamed Badie, che dirige l'organizzazione islamista dal 2010 e che è stato arrestato il 10 luglio, a venire a un qualsiasi compromesso con il nuovo governo ora che suo figlio Ammar Mohammed Badie di 38 anni, è stato ucciso in piazza Ramses con due pallottole?
Ammar era un ingegnere elettronico, molto popolare e amato. Badie non potrà in nessun modo perdonare l'esercito responsabile della morte del figlio. Anche Asmaa, figlia diciassettenne del leader del Partito Giustizia e Libertà dei Fratelli musulmani Mohammed Beltagi, è stata uccisa. Un'altra faida definitiva si preannuncia dato che le forze di sicurezza hanno arrestato Mohamed al Zawahiri, il fratello del capo di al Qaeda Ayman, che ha sostituito Bin Laden alla sua morte. Basta pensare all’irriducibilità di Nasrallah, il capo degli Hezbollah, che ha perso il figlio in battaglia con Israele e il fratello guerrigliero in Siria. Il suo odio si placherà solo dando la caccia ai suoi nemici. Vicino al governo dei militari restano l'Arabia Saudita, la Giordania, i Paesi del Golfo, preoccupati per la nuova aggressività di Al Qaeda e delle forze jihadiste figlie della Fratellanza; Putin a sua volta si avvicina a Sisi, a caccia dello spazio perduto dagli Usa.
Ma due grandi gruppi protestano contro Sisi di fatto appoggiando la determinazione della Fratellanza contro il compromesso. Da una parte l'Europa e gli Stati Uniti, orrificati dalla strage, desiderosi di ordine ma capaci solo di suggerire parole imbelli che ricordano la situazione siriana, sempre condannata e mai affrontata. Dall'altra parte, sono in marcia cortei di talebani, di jihadisti afghani, pakistani, sudanesi, yemeniti, tunisini... A Bengasi una bomba ha devastato la rappresentanza egiziana. La guerra pro e contro la Fratellanza Musulmana è cominciata, e oltre ai nostri buoni sentimenti, anche le organizzazioni jihadiste si muovono. La battaglia umanitaria dell'Occidente può essere sfruttata contro di noi, sta ai leader europei e anche a Obama, fermare il sangue ma giuocare un ruolo intelligente e non autolesivo. www.fiammanirenstein.com
CORRIERE della SERA - Antonio Ferrari : " Sul Medio Oriente cala l’incubo di una stagione di terrorismo "
Il pericolo di una radicalizzazione dei Fratelli Musulmani non ci pare credibile, anche perché sono gli stessi fratelli musulmani a rappresentarlo. Il loro movimento è rimasto fuori legge per 30 anni, quindi non si capisce perché non debba ritornarvi.
Antonio Ferrari Fratelli Musulmani
Il Medio Oriente ci ha abituato a temere l’estate e soprattutto il mese di agosto, quando i freni inibitori si allentano e il calore stagionale si moltiplica con l’odio più incontrollabile e feroce. La gelida furia dei militari e della polizia egiziana, lanciati all’assalto del manipolo di irriducibili sostenitori del deposto presidente Morsi, asserragliati nella moschea di El Fath, ha contorni inquietanti. E ci restituisce l’immagine di un gigantesco Paese sull’orlo del baratro, assediato dalla propria rassegnazione, circondato dall’impotenza del mondo, e focolaio di un pericolosissimo contagio regionale, anzi globale. Il rischio che quella che ormai ha i connotati di una guerra civile diventi l’occasione per lanciare una nuova campagna terroristica, come era stato annunciato da fonti dell’Intelligence, è alto, e l’allarme è serio e motivato. Nessuno può sottovalutare che è egiziano l’uomo diventato il numero uno di Al Qaeda, dopo la morte di Osama Bin Laden, cioè il medico Ayman Zawahiri. Sicuramente furibondo per l’arresto, ieri, di suo fratello. Si ha poi l’impressione che troppi fatichino a valutare conseguenze che coinvolgono tutti: l’intero Mediterraneo, l’Unione Europea, con l’Italia nella posizione geografica più esposta. Costringere a più miti consigli l’Egitto, prostrato dalla crisi, con pesanti sanzioni economiche e con il taglio indiscriminato degli aiuti sarebbe esiziale. È pur vero, ad esempio, che gli Stati Uniti donano al Cairo un miliardo e mezzo di dollari all’anno, ma il denaro era (ed è rimasto) il premio per aver firmato la pace di Camp David con Israele: pace fredda, mal digerita dalla gente e avversata soprattutto dai Fratelli musulmani, ma pur sempre pace. Tagliare questo aiuto, di cui il Paese ha assoluto bisogno, significherebbe creare condizioni di totale e fatale instabilità. Se è vero che le casse egiziane sono vuote, che le riserve valutarie sono al minimo storico, che le banche hanno sospeso le transazioni, e che il turismo è crollato rovinosamente, inghiottito dalla paura e dai divieti, l’allarme è massimo. Nessuno osa immaginare che cosa accadrebbe se il conflitto impedisse l’agibilità del canale di Suez, i cui pedaggi sono una delle primarie risorse. È pur vero che il passaggio è meno cruciale di qualche anno fa, perché nel frattempo sono state create rotte alternative, soprattutto per i rifornimenti energetici. Ma il traffico è sempre assai consistente, e per un armatore l’obbligatoria circumnavigazione dell’Africa comporterebbe aggravi pesantissimi, in una fase di crisi globale non ancora risolta. L’occhio già vede i devastanti effetti sociali, politici e religiosi prodotti nel fragile Egitto, dove la vera conciliazione fra tutte le componenti confessionali si sta sgretolando. I Fratelli musulmani hanno subìto le violenze delle Forze armate, ma ora i copti denunciano che in tutto il Paese sono state assaltate e devastate 49 chiese cristiane, comprese quelle cattoliche e protestanti. Però tutto questo non può spingerci a voltare il capo per non vedere le violenze indiscriminate dei soldati contro la popolazione civile, gli assalti alle moschee, gli attacchi dagli elicotteri. L’Egitto trema. Ma tremano per il rischio di un velenoso contagio quasi tutti i Paesi della regione. Se l’Arabia Saudita ha deciso di abbandonare il deposto presidente Morsi e i suoi Fratelli per schierarsi a fianco dell’esercito condotto con sistemi brutali dal generale Al-Sisi, vuol dire che il timore di un collasso del cartello arabo sunnita e moderato, di cui Riad è il gigante finanziario, il Cairo il centro decisionale e Amman la componente più filo-occidentale e ragionevole, ha superato abbondantemente il livello di guardia. Il prudente re saudita Abdullah è pronto a tutto pur di impedire ai Fratelli musulmani di avanzare, dopo aver favorito generosamente, e con ogni mezzo, tutti i movimenti estremisti della galassia musulmano-sunnita. Non volendo vedere per tempo che una parte del denaro finiva nelle periferie di quell’Al Qaeda, ridimensionato ma sempre temibilissimo, che sta penetrando con le sue milizie regionalizzate tutti i Paesi più fragili: dalla Libia alla Tunisia, al Libano. Gli attentati e le esecuzioni a Beirut e più a nord, nella città di Tripoli, sembrano anticipare le grandi manovre di quello che potrebbe diventare l’incubo prossimo venturo: la mortale resa dei conti fra sunniti e sciiti. Se il regime siriano, in questo momento, assiste impassibile, pur con malcelata soddisfazione, al bagno di sangue egiziano, che nella sostanza ha frenato la riscossa dei ribelli anti-Assad, anche i nemici di un tempo, Iran e Iraq, seguono le violenze egiziane con trepidazione. Cercando di immaginare il futuro equilibrio. Se mai vi sarà.
CORRIERE della SERA - Alessandra Muglia : " L’élite che ha scelto i generali contro l’islamizzazione "
Alessandra Muglia
Dopo la destituzione del presidente islamico Mohamed Morsi il 3 luglio scorso, un’ondata di «militarismo nazionalista» sembra travolgere le élite intellettuali al Cairo e dintorni: scrittori, giornalisti, uomini di cultura, tutti compatti nel considerare il regime dei militari come il male minore rispetto al potere islamista, persino dopo la carneficina di questi giorni. «L’esercito sta facendo il suo dovere per proteggere il Paese dalla barbarie: se non saranno fermati, i Fratelli musulmani cancelleranno l’intero Paese e la sua cultura millenaria», riflette Youssef Ziedan, 55 anni, autore del bestseller «Azazel» (edito in Italia da Neri Pozza), riconosciuto come miglior romanzo in lingua araba nel 2008 e paragonato a «Il nome della rosa» di Umberto Eco per la sua ambientazione storica e il tema del fanatismo religioso. Stesso drammatico pronostico da parte del celebre romanziere Alaa Al-Aswany: «Se non fosse intervenuto l’esercito, gli islamisti avrebbero distrutto il Paese – dice –. Non capisco gli occidentali che vogliono darci delle lezioni. Siamo forse destinati a tornare all’età della pietra? Gli arabi hanno soltanto il diritto all’oscurantismo?». Secondo l’autore del besteller «Palazzo Yacoubian», «è il popolo che vuole la pelle della Fratellanza ». Un esercito che sembra tornato ad essere l’incarnazione della volontà popolare, come nell’epoca migliore del nasserismo. «L’esercito non è solo: con soldati e poliziotti c’è la gente comune, lo si vede anche nei filmati della tv», dice Ziedan, che alterna l’attività di scrittore con quella accademica e di direttore del Centro dei manoscritti e del Museo della Biblioteca alessandrina. I media stanno svolgendo un ruolo essenziale nell’onda di ostilità verso i Fratelli musulmani che scuote l’Egitto. Un fatto comprensibile dopo un anno di minacce e la lista nera dei giornalisti da eliminare stilata nell’era Morsi. «L’esercito ha ristabilito lo stato di diritto», ribadisce il giornalista Hicham Kassem, che dopo aver passato due decenni a combattere il regime di Mubarak a volte anche al fianco dei Fratelli, si è ricreduto: «Pensavo di conoscerli, avevamo stabilito un rapporto di fiducia, ma una volta al potere hanno rivelato il loro vero volto: hanno eliminato tutti i contro-poteri, anche quelli esistenti sotto Mubarak». È quello che ha sempre sostenuto Ziedan: «I Fratelli musulmani non sanno nulla di Islam, sono persone che usano la religione per realizzare i propri scopi. Non sono islamici ma un gruppo assetato di potere». Lo studioso (insegna filosofia islamica e sufismo all’università del Cairo) lo ha potuto verificare anche personalmente perché processato con l’accusa di aver insultato la religione con un libro («La teologia araba e le origini della violenza religiosa»). «Quando mi hanno interrogato, mi hanno chiesto cose di cui non sapevano nulla. Il mio non è un caso isolato: la cultura li spaventa, vogliono metterci a tacere. Sono ignoranti, non scrivono né leggono nulla, ovvio che noi intellettuali lottiamo per cacciarli. Quattro mesi fa, scrittori, registi, attori e studiosi si sono piazzati per settimane davanti al ministero della Cultura quando l’allora presidente Morsi ha messo un’islamista ignorante a ricoprire la carica». Ziedan sottolinea che la posta in gioco travalica i confini nazionali: «È una questione internazionale, non un puro evento egiziano», dice. «Tra gli arrestati della Fratellanza ci sono molti afghani, turchi, libici. Giorno dopo giorno arrivano conferme che le sue fila sono supportate dall’Iraq, dalla Siria, dall’Afghanistan. Abbiamo a che fare con terroristi. E anche l’Europa rischia di essere travolta dall’odio che soppianta la bellezza, la poesia e la cultura».
CORRIERE della SERA - Andrea Riccardi : " Il difficile futuro dei cristiani d’Oriente, una terza via per evitare l’estinzione "
Andrea Riccardi
In tre grandi Paesi arabi è in gioco la democrazia: negata violentemente da Assad in Siria, incapace di gestire la convivenza tra sciiti e sunniti in Iraq, ridiscussa dal colpo di Stato militare in Egitto, perché i Fratelli musulmani l’avrebbero sequestrata. La democrazia non sembrerebbe in grado di gestire il pluralismo stratificato delle società arabe, dove ci sono modi diversi di essere musulmani (sciiti e sunniti, laici, spirituali e fondamentalisti), dove ci sono diversità etniche, come i curdi, e minoranze cristiane. La vita dei cristiani è infatti una vera cartina di tornasole delle turbinose società musulmane. Nel 2014 saranno cent’anni dalla prima grande strage del Novecento: quella degli armeni uccisi con tanti altri cristiani dell’impero ottomano. Lo vollero non tutti i turchi e non tutti i musulmani, ma i nazionalisti «Giovani turchi», mobilitando odio e fanatismo. Dopo la Prima guerra mondiale, i maroniti (cattolici) ottennero il Libano, dove i cristiani erano maggioritari: davano voce alla convinzione cristiana di non essere sicuri sotto la maggioranza musulmana. Nacque la fragile democrazia libanese, un piccolo mondo originale tra gli arabi, provato in seguito da tanti dolori. Per altri cristiani ci fu l’illusione della protezione europea. Per i più sicurezza volle dire credere nel nazionalismo arabo: lo fecero gli ortodossi in Siria (cui appartiene Paul Yagizi, vescovo di Aleppo rapito da ignoti con il vescovo siriaco Mar Gregorios). Dal grembo del nazionalismo arabo sono venuti tanti dittatori, a cui i cristiani sono stati per lo più leali considerandoli una protezione dalla maggioranza islamica. Hanno sperato in una laicizzazione dell’Islam; ma è venuto il fondamentalismo. Saddam Hussein, in Iraq, rappresentava una sicurezza per i caldei (cattolici). I cristiani di Siria vedono la fine di Assad come un salto nel buio (diversamente pensa padre Dall’Oglio — che speriamo presto libero — schierato con l’opposizione siriana). I dittatori sono stati una sicurezza per i cristiani, che pur ne conoscevano il doppio gioco. Il potere di Mubarak era dietro al terribile attentato alla chiesa copta d’Alessandria all’inizio del 2011, alimentando la strategia della tensione. È vero che, durante la «primavera» egiziana, musulmani e cristiani chiedevano insieme la libertà. Ma i vescovi erano perplessi: la democrazia non avrebbe portato il dominio della maggioranza (musulmana)? Non è un caso che il patriarca copto Tawadros abbia palesemente appoggiato il colpo di Stato di Al Sisi. Una posizione rischiosa per una minoranza, indice del gran timore per il futuro. In Iraq non si contano gli attentati ai cristiani, facile bersaglio. Non c’è stato un disegno sul loro futuro: restare a Baghdad tra i musulmani o concentrarsi in una regione più cristiana, come la piana di Ninive? Tra le incertezze, i cristiani emigrano. In Iraq ne restano molto meno della metà dell’inizio della guerra a Saddam. All’inizio del Novecento erano il 25% degli iracheni e ora sono l’1%. In Siria erano nel 1960 il 15% e oggi forse il 6%. In Egitto restano tanti, circa il 10%. Ma anche qui il futuro è buio. I Paesi occidentali possono poco; anzi, spesso la loro «protezione» ha creato difficoltà ai cristiani orientali con i governi e l’opinione pubblica. Forse i cristiani del mondo possono di più dei governi: non solo dare solidarietà (che deve crescere), ma elaborare una visione. Questa manca in un periodo in cui sono rare quelle della politica, come si vede dall’incertezza americana sull’Egitto e dall’impotenza europea. Durante la Guerra fredda, di fronte alla grave situazione dei cattolici dell’Est, la Santa Sede fece prima una strenua opposizione, poi, da Giovanni XXIII, praticò il dialogo, che prese il nome di Ostpolitik. Scelte frutto di visioni. Nel mondo arabo, è tutt’altra vicenda, ma ci vuole una concentrazione di idee e di relazioni. Forse bisogna riunire i grandi leader delle Chiese cristiane. Anche questo è ecumenismo. Le minoranze cristiane vanno aiutate a non restare ostaggio di situazioni impossibili. L’emigrazione o la ricerca dei dittatori-protettori non possono essere le uniche scelte per i cristiani. Non hanno futuro. In Egitto, al Tayyib, gran imam di Al Azhar (purtroppo in cattivi rapporti con il Vaticano), ha lanciato la riconciliazione nazionale. Ora non facilmente praticabile. Ma questo è lo spazio dei cristiani. Il loro futuro non sarà facile nel mondo arabo. Il XXI secolo conoscerà la fine dei cristiani d’Oriente? Non ce lo auguriamo. Finirebbe una storia bimillenaria. Sarebbe una grande perdita per il mondo arabo-musulmano, perché i cristiani sono un pilastro di pluralismo in quelle società e una garanzia contro il totalitarismo.
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