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Confini di Auschwitz e altro 17/08/2013

Leggo sempre volentieri Volli, perché in tutta IC, insieme a Pezzana, mi sembra la firma più equilibrata. Mi permetto di fargli osservare che nel 1947, quando il ricordo della Shoah era purtroppo ben più vivo di oggi, la dirigenza dell'Jishuv avrebbe accettato, a differenza degli Arabi, il piano di spartizione ONU, quindi confini ben più ristretti di quelli del 1949 (o pre-1967), che lui chiama con disprezzo "confini di Auschwitz". Per essere chiari, comunque vadano i negoziati, ritengo Gerusalemme la capitale di Israele, non credo che sia possibile mettere Ariel o Gush Etzion fuori dai confini (e non parliamo del Golan, che è tutt'altra faccenda), e ho molte riserve sulla liberazione dei terroristi che Nethanyahu ha accettato. Soltanto ce l'ho con gli idioti che ritengono di avere il diritto (divino?) di piazzare ogni tanto una roulotte in cima a qualunque collina della West Bank; mi fanno venire in mente il proverbio "l'appetito vien mangiando". E poi, di un paio di milioni di riluttanti ospiti che ne facciamo? Comunque si risponda, caro Volli, mi dispiace vederLa cedere a un vittimismo fuori luogo. Grazie per l'attenzione, buon lavoro,

Sandro Zanchi - Siena

rispondono Ugo Volli e Angelo Pezzana 

Gentile lettore,
l'espressione "confini di Auschwitz" non è mia ma, se non sbaglio fu coniata da Abba Eban sessant'anni fa e poi ripresa con forza da Shmuel Trigano. La ragione è che quelle linee armistiziali rendono facilissimo il blocco di Gerusalemme, che è raggiungibile solo attraverso un passaggio in una valle molto stretta e facilmente bombardabile; dividono Gerusalemme stessa, sottraendo a Israele la sua parte storica, incluso il quartiere ebraico e il Kotel (il muro del pianto, come si dice in Europa); portano a tiro delle armi individuali moderne, per non parlare di missili e cannoni il grande aeroporto internazionale Ben Gurion e tutta la zona industriale intorno a Tel Aviv; stringono Israele a metà della sua langhezza (verso Hedera) fino al minimo di 14 chilometri, che si percorrono in tre ore a piedi o in un quarto d'ora di carro armato; lasciano scoperte e facilissime le infiltrazioni terroristiche dalla valle del Giordano. Israele non può permettersele senza trovarsi in una situazione di gravissimo pericolo militare o di pura e semplice reclusione (di qui la denominazione secondo "Auschwitz"). Quanto a quelli che lei chiama "cretini", io li considero "pionieri", mi sembra che siano coloro che meglio nell'Israele attuale seguono la spinta che diede origine allo Stato. Nell'Ottocento erano detti "settlements" anche Petah Tiqva e Rishon Lezion, poi lo furono tutti gli "insediamenti" ebraici, che furono regolarmente minacciati e devastati dai terroristi arabi; ma grazie a loro Israele nacque e visse. Non c'è nessuna ragione al mondo per cui su terre non private ma demaniali non si possano insediare dei giovani che, mi creda perché l'ho visto, fanno rifiorire le vecchie colline della Giudea da cui è nato il popolo ebraico. Si tratta sempre di territori in zona C, secondo i trattati di Oslo, cioè affidati all'amministrazione israeliana e che attendono una definizione territoriale. Quanto a quel che ne sarà, ci sono due soluzioni. O resteranno nel territorio israeliano, cresceranno e prospereranno come tanti altri villaggi israeliani; oppure cadranno nel territorio di uno stato palestinese, che per ottenere la pace avrà fatto quel che Israele fece già nel '48, accettare che vi possa essere una minoranza di un'altro popolo e di un'altra religione. Le proporzioni degli ebrei oltre la linea verde del '49 (erroneamente chiamata confini del '67) e quella degli arabi al di qua di essa, sono molto simili. Non si vede perché Israele debba essere uno stato multinazionale e la futura Palestina no; come non si vede perché gli arabi possano costruire case e nuovi insediamenti e perfino una città (lo sapeva, si chiama Rawabi) e i "deficienti", come dice lei, non possano piazzare le loro roulottes in cima alle colline dove vivevano i loro avi già tremila anni fa, come l'archeologia ha dimostrato.
Ugo Volli

" à la guerre comme à la guerre", mi dispiace se con questo richiamo mi ritirerà la qualifica di 'equilibrato', ma io credo nella giustizia, oltre che nella pace. Da un lato c'è uno Stato che è sempre stato pronto a fare compromessi pur di arrivare alla pace, persino dopo la guerra dei 6 giorni era pronto a trattare, e si ricevette in cambio i 3 NO di Karthum. Dall'altra, stati e movimenti che non hanno nulla da invidiare alla Germania di Hitler, dove il più moderato - Abu Mazen - vuole una Palestina 'judenrein'. Malgrado ciò lo giudicano moderato.  Israele si difende, invece di usare per prima la maniera forte, come farebbe qualsiasi altro Stato nelle sue condizioni. Ma questo non basta a un Occidente che sta per essere travolto dalla sua stessa incapacità a capire la realtà che sta sconvolgendo il mondo. Non sta bene dirlo, ma di fronte a un via loro o via noi, io so benissimo da che parte stare. Come scriveva Albert Camus, "se i nazionalisti fanno saltare un bar ad Algeri dove mia madre sta bevendo il tè con le amiche, io sto dalla parte di mia madre". Ma, allora, a Camus nessuno avrebbe dato del guerrafondaio, il politicamente corretto non era ancora nato.
Cordialmente ,
Angelo Pezzana 


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