Egitto, esercito e polizia contro Fratelli Musulmani: centinaia di morti. Cronaca e interviste di Giuseppe Sarcina, Viviana Mazza, Pietro Del Re
Testata:Corriere della Sera - La Repubblica Autore: Giuseppe Sarcina - Viviana Mazza - Pietro Del Re Titolo: «Al Cairo una giornata di guerra. In strada bossoli e tende strappate - 'La diplomazia esitante di Obama ha fallito' - Ormai è una guerra civile che può disintegrare il Paese»
Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 15/08/2013, a pag. 2, l'articolo di Giuseppe Sarcina dal titolo " Al Cairo una giornata di guerra. In strada bossoli e tende strappate ", a pag. 5, l'intervista di Viviana Mazza a Roger Cohen dal titolo " «La diplomazia esitante di Obama ha fallito» ". Da REPUBBLICA, a pag. 7, l'intervista di Pietro Del Re a Gilles Kepel dal titolo " Ormai è una guerra civile che può disintegrare il Paese ". Ecco i pezzi:
CORRIERE della SERA - Giuseppe Sarcina : " Al Cairo una giornata di guerra. In strada bossoli e tende strappate "
Giuseppe Sarcina
IL CAIRO — Nella notte del Cairo c’è chi piange i morti e chi si limita a contarli, con un macabro esercizio che pretende di avere un significato politico. Ma da ieri l’Egitto è un altro Paese. In guerra con una parte di se stesso, con gli ospedali pieni di feriti, con un governo dimezzato e isolato sul piano internazionale. I militari hanno imposto il coprifuoco (dalle 21 alle 7) e almeno un mese di «stato di emergenza». La polizia ha impiegato 12 ore per sgomberare i due accampamenti dei Fratelli musulmani, i sostenitori del presidente Mohammed Morsi rovesciato con un golpe militar-popolare (se così si può dire) il 3 luglio scorso. Nella piazza della moschea di Rabaa al Adawiya e a Nasr City vicino all’Università, i bossoli, le cartucce dei lacrimogeni si mescolano con i lacerti delle tende strappate, delle coperte, dei teloni di plastica. Quante vite sono andate perse? Alle otto di sera il portavoce del ministero della Salute fornisce il bollettino: 61 morti e 321 feriti in piazza Rabaa al Adawiya, 21 in piazza Al-Nadha, 16 morti e 68 feriti all’Università. Poi ci sono le altre città: 35 vittime a Fayoum, 45 a Minya, quattro a Helwan e così via. Per ora il totale arriva a 235 deceduti e 2.001 feriti. A questo conto vanno aggiunti i 43 poliziotti che hanno perso la vita. Ma è chiaro che sono numeri purtroppo provvisori, anche se appare strumentalmente esagerata la conta dei Fratelli musulmani: almeno 2.200 «martiri» e migliaia di feriti. Tra i morti figurano anche tre giornalisti. La mattanza ordinata dal generale Abdel Fattah Al Sisi ha mandato in frantumi i fragili equilibri su cui si reggeva il governo provvisorio che avrebbe dovuto condurre il Paese a nuove elezioni entro nove mesi. Il vicepresidente Mohamed ElBaradei si è dimesso con un messaggio di poche righe: «Mi risulta difficile continuare…». L’abbandono del Premio Nobel per la pace, della figura più conosciuta e credibile fuori dall’Egitto, ha già fatto precipitare le quotazioni del regime militare. Nel pomeriggio, una dopo l’altra, sono arrivate le reazioni dei partner internazionali. Quasi stupita, frastornata quella più importante, l’americana. Il segretario di Stato John Kerry chiede «la revoca il più presto possibile dello stato di emergenza». Poi, però, lo stesso Kerry fa sapere di avere parlato con il ministro degli Esteri egiziano e di «ritenere che il cammino verso una soluzione sia ancora aperto». Il residuo di credito statunitense è l’unico frammento che sfugge al diluvio di condanne: dal segretario dell’Onu Ban Ki-moon, a quello della Nato Anders Fogh Rasmussen; dal premier britannico David Cameron, ai ministri degli Esteri francese, Laurent Fabius e italiano, Emma Bonino. Perfino il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan, accantonato l’ancora fresco ricordo degli scontri di piazza Taksim, ha «deplorato» la violenza della polizia egiziana. Le diplomazie occidentali, perfino quelle più familiari con questa area come quella britannica e americana, si erano illuse che il blocco dei Fratelli musulmani potesse essere sciolto senza «macelleria messicana» (come avrebbe detto Ferruccio Parri). Certamente si apre un problema serio per i generali del Cairo: la Casa Bianca, che si era fatta convincere ad accettare e poi a giustificare il colpo di Stato di Al Sisi (tirandosi dietro i governi alleati), non mancherà di moltiplicare le pressioni. Per il semplice motivo che Washington rappresenta il polmone d’acciaio di questo Paese alla deriva da tutti i punti di vista. E non solo per l’assegno di 1,5 miliardi di dollari versati, ogni anno, ormai da decenni. Nei prossimi giorni, probabilmente, si capirà se Al Sisi ha qualche possibilità di uscire dall’angolo. Nel frattempo il generale fa diffondere dalla tv di Stato «Nile news» le immagini di quella che viene definita «una necessaria operazione di ordine pubblico». I morti, il sangue dei feriti, il fumo, le cariche violente della polizia, i cecchini in borghese che sparano dai tetti sulle barricate, il panico dei ragazzini braccati (tra le vittime c’è una sedicenne, figlia di un leader musulmano) si vedono solo sugli schermi delle catene internazionali o delle due tv filo-islamiche, Al Jazeera e Al Arabiya . «Abbiamo il pieno controllo di tutta la città», proclamano gli ufficiali. Ma sono parole stonate. I sostenitori di Morsi non sono domi. Nonostante la polizia abbia arrestato 150 miliziani armati e diversi leader dei Fratelli musulmani. Malgrado, secondo quanto riferito dal ministero dell’Interno, siano stati requisiti gli arsenali trovati nei campi sgomberati (mitragliette, fucili automatici). Ebbene il popolo degli islamisti, che resta un pezzo importante di questo Paese e il vincitore delle prime e finora uniche elezioni democratiche, non smobilita. Anzi moltiplica gli obiettivi da attaccare. Ieri hanno lanciato molotov davanti al ministero delle Finanze e, nello stesso tempo, si sono scagliati contro 22 chiese cristiane. Il papa copto, Tawadros II, «è rinchiuso in un monastero per paura di essere assassinato», ha rivelato all’Ansa padre Rafic Greiche, portavoce della Chiesa cattolica egiziana. Nella prima notte di coprifuoco è facile percepire quanto di provvisorio e anche di tragicamente improvvisato via sia anche in questa strategia dell’emergenza. Correndo, mimetizzati in una limousine di rappresentanza, lungo il ponte Sei ottobre, nove chilometri di sopraelevata con vista sul Nilo che arriva fin quasi a piazza Tahrir. Un corridoio d’asfalto, tra i più trafficati nel mondo, sempre, a qualsiasi ora. Ma adesso, nell’oscurità, sul rettilineo infinito così deserto, così silenzioso, si può cogliere la mortificazione di questa grande, fascinosa megalopoli. Si può indovinare il pericoloso sbandamento dell’Egitto, su cui vegliano, solitarie, le sagome dei soldati. Ancora poco e sarà l’alba. E un altro giorno difficile.
CORRIERE della SERA - Viviana Mazza : " «La diplomazia esitante di Obama ha fallito» "
Viviana Mazza Roger Cohen
«La politica dell’amministrazione Obama sull’Egitto è stata un pasticcio totale. Diventerà un caso di studio sull’inettitudine in campo diplomatico». Così scriveva ieri l’editorialista del New York Times Roger Cohen sul suo account Twitter. Raggiunto al telefono, il giornalista nato a Londra, con un passato di corrispondente estero in quindici paesi, e che continua a viaggiare e scrivere sul Medio Oriente, ricorda l’esitazione mostrata da Washington già durante le proteste di Piazza Tahrir. «All’inizio c’era stata una mediazione perché il presidente egiziano Mubarak restasse al potere per altri sei mesi, prima che fosse chiaro che bisognava lasciarlo andare». Poi però l’amministrazione Obama ha appoggiato la Fratellanza Musulmana, tanto che è stata accusata dalla piazza di sostenere Morsi come prima aveva fatto con Mubarak. «La politica americana era stata quella di appoggiare i despoti nella regione perché erano visti come un baluardo contro i jihadisti, mentre invece la radicalizzazione viene a mio parere alimentata da una società senza opportunità. Dopo Mubarak, Obama ha capito che, in effetti, avere elezioni libere e aperte, con la partecipazione degli islamisti, era una via d’uscita dall’impasse. Quando Morsi è salito al potere, gli Stati Uniti hanno cercato di appoggiarlo. Ma Morsi ha fallito, in parte perché la Fratellanza Musulmana era cresciuta come un’organizzazione segreta non abituata alla democrazia liberale, in parte perché i sauditi con fondi e pressioni hanno cercato per tutto il tempo di sovvertirlo, e la società egiziana si è spaccata». Cosa avrebbero potuto fare gli Stati Uniti? «Avrebbero dovuto essere chiari sin dall’inizio, agire in modo più determinato per far sì che Morsi aprisse veramente a tutte le forze politiche e sociali, che facesse le scelte giuste in economia, e avrebbero dovuto frenare l’esercito. Avevano i mezzi per farlo. Ma avrebbero dovuto agire prima che Morsi accrescesse i suoi poteri, prima dello scontro sulla costituzione e prima che i gruppi di sinistra e laici restassero fuori. Ma non riesco a pensare a dichiarazioni significative di Obama». Ma perché tanta esitazione? «Penso che abbiano avuto un peso le pressioni dei sauditi che spingevano gli alleati americani a tagliare con Morsi. E penso che l’amministrazione non sapesse cosa fare, anche se certo non credo che gli Stati Uniti possano risolvere tutti i problemi». Come giudica le scelte di Obama rispetto alle promesse fatte al Cairo, appena eletto, di cambiare la politica di Bush sul Medio Oriente? «Certo Obama non è entrato in guerra come Bush, e io gli do credito per l’intervento in Libia che era giustificato anche se la situazione attuale non è buona. Ma è stato deludente su Israele e i palestinesi, e ha agito in Siria oltre che in Egitto con troppa esitazione». Il segretario di Stato John Kerry aveva detto che la deposizione di Morsi forse avrebbe evitato la guerra civile. «Sembra che non avesse ragione». Washington ha fatto di tutto per non chiamarlo «golpe». Lo è? «Ovvio che è un colpo di Stato. Certo, c’erano decine di migliaia di persone in strada, e tantissima rabbia, ma se un esercito rovescia un presidente scelto in elezioni libere, l’ultima volta che ho guardato nel dizionario veniva chiamato “colpo di Stato”. L’amministrazione ha fatto di tutto per evitare il termine perché, certo, avrebbe conseguenze in termini di aiuti, ma questo continuo zigzagare e cambiare posizione ha giocato un ruolo negativo». E adesso cosa possono fare gli Stati Uniti e l’Europa? «Ora che centinaia di persone sono state uccise, non penso che si possa invertire il corso degli eventi. I Fratelli Musulmani torneranno ad operare in modo sotterraneo. Adesso l’Ue chiede alle autorità egiziane di agire con ritegno, ma mi sembra un po’ tardi».
La REPUBBLICA - Pietro Del Re : " Ormai è una guerra civile che può disintegrare il Paese "
Pietro Del Re Gilles Kepel
«Quando tornerà la calma in Egitto? Tutto dipende da quanto tempo riusciranno a resistere i Fratelli musulmani, perché stavolta l’esercito mi sembra davvero determinato a schiacciarli, proprio come fece nel 1954», dice il francese Gilles Kepel, politologo, accademico e grande esperto del mondo arabo. «Allora, la confraternita era strutturata proprio come lo è adesso, e tutti i suoi membri furono ammazzati, imprigionati o costretti all’esilio dai soldati di Nasser». Professor Gilles Kepel, ma era proprio inevitabile che si giungesse ai feroci massacri del Cairo? «Sì, perché nessuna delle due parti è disponibile a fare un passo indietro e perché nessuno crede più in un compromesso. Qui, oltre a una battaglia di civiltà tra forze islamiste e forze anti-islamiste, simile a quella che si combatte in Turchia e in Tunisia, c’è anche il rischio di una disintegrazione dello Stato egiziano, come dimostrano, per esempio, gli attacchi contro le chiese coopte da parte di chi accusa i cristiani di aver sostenuto la destituzione del presidente Morsi». In queste ultime ore i Fratelli musulmani sembrano godere dell’appoggio di buona parte della popolazione egiziana. Si può parlare di guerra civile? «Sì, ed è una guerra civile che si aggiunge alle altre guerre civili che stanno insanguinando il Medio Oriente, a cominciare da quella siriana. Anche in Egitto ci sono scene di inaudita violenza, con moltissimi morti. Del resto, a evacuare i presidi dei Fratelli musulmani del Cairo hanno mandato poliziotti e soldati, che sparano al petto e alla testa dei manifestanti». Lo stesso accadeva quando fu destituito Mubarak. «Certo, e anche allora le forze di sicurezza sparavano proiettili di piombo, e non di plastica, attorno al Palazzo Maspero, sui rivoluzionari e sui coopti, come se l’Egitto fosse ormai prigioniero di un circolo vizioso impregnato di violenza». Come si comporteranno adesso quegli intellettuali della sinistra egiziana che sostengono l’esercito contro Morsi? «Uno di loro, il premio Nobel Mohammed El Baradei, s’è appena dimesso da vice-presidente. Del resto, prima del suo arresto, lo stesso Morsi aveva adottato una serie di misure estremamente repressive destinate a cancellare ogni forma di contro-potere in Egitto». Quali saranno le ripercussioni a livello regionale di quanto sta accadendo al Cairo? «Il nuovo governo egiziano ha ricevuto una enorme manna finanziaria, pari a circa 15 miliardi di dollari, da parte dell’Arabia Saudita, che vede nei Fratelli musulmani un rischio per la propria stabilità interna. Gli stessi Fratelli sono invece sostenuti dal Qatar, il quale ha denunciato la loro repressione. E se Ankara condanna con violenza l’esercito egiziano, il regime di Bashar Al Assad si è felicitata con i suoi generali, sostenendo di combattere gli stessi nemici terroristi. Questa guerra civile egiziana sta creando una profonda spaccatura all’interno dei sunniti nel mondo arabo ». Ma i Fratelli musulmani potranno ancora contare sull’aiuto del Qatar? «Solo in parte, perché tra le monarchie del Golfo il Qatar è sempre più isolato, e perché al suo nuovo premier, nominato dopo la recente abdicazione dell’emiro, è stato chiesto di ridimensionare la strategia espansionistica lanciata dal suo predecessore». Oltre che opporsi all’adozione dello stato d’emergenza, che altro cosa possono fare gli Stati Uniti per calmare le acque? «Washington, come del resto le cancellerie europee, si trovano in un ruolo molto scomodo. Gli Stati Uniti sono accusati di aver sostenuto Morsi, il quale chiuse i tunnel verso Gaza per asfissiare Hamas, ma sono anche invisi ai Fratelli musulmani perché considerati i primi alleati dell’imperialismo sionista. In Egitto sono dunque visti come nemici da entrambe le parti antagoniste. In questo scenario, Mosca potrebbe opportunisticamente intervenire. Offrendo il suo appoggio, sia pure in un primo momento soltanto simbolico, all’esercito egiziano».
Per inviare la propria opinione a Corriere della Sera e Repubblica, cliccare sulle e-mail sottostanti