Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 09/08/2013, a pag. 16, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo "Il killer di Fort Hood : 'Io, americano jihadista ho ucciso per l’Islam' ".
Maurizio Molinari, il terrorista islamico Nidal Hasan
«Il killer sono io, ero dalla parte sbagliata del conflitto e ho cambiato schieramento»: il maggiore dell’Us Army Nidal Hasan difende se stesso nel processo per la strage di Fort Hood, al fine di trasformare l’aula in un palcoscenico di propaganda jihadista. Il 5 novembre 2009 Hasan, psichiatra nella base texana di Fort Hood, vicino a Killeen, entra nell’edificio dove è in corso la vaccinazione dei militari in partenza per l’Afghanistan, grida «Allahu Akbar» (Allah è il più grande) e spara con due revolver contro i commilitoni. Causa 13 morti e 30 feriti prima di essere immobilizzato. Le indagini svelano che a indottrinarlo è stato Anwar alAwlaki, l’imam del New Mexico divenuto capo di Al Qaeda in Yemen, che in effetti gli rende omaggio sul web: «Hasan è un eroe».
A quasi quattro anni di distanza il processo si svolge nella stessa base. Il giudice Tara Osborn e tredici giurati - tutti militari - devono decidere se condannarlo alla pena capitale e Hasan vuole facilitare loro il compito. Nelle fasi pre-dibattimentali si è battuto, con successo, per vedersi riconoscere il diritto all’autodifesa, «perché nessun militare può tutelarmi» e alla prima udienza ha esordito con una dichiarazione-shock: «Questo processo dimostrerà con sufficienza di prove che il killer sono io». «I testimoni diranno che questa guerra è terribile perché morte, distruzione e devastazione sono patite da entrambe le parti ma - ha aggiunto - io ero dal lato sbagliato e ho cambiato schieramento».
Con indosso la divisa dell’Us Army, il 42enne soldato musulmano-americano, nato in Virginia da genitori palestinesi originari della Cisgiordania, punta a difendere il principio che il suo è stato un atto di guerra, legittimo come quelli che «l’America commette uccidendo musulmani in Afghanistan e Iraq». Nella seconda udienza Hasan conferma l’approccio.
Quando il giudice della Corte marziale gli legge le 13 imputazioni per omicidio e le 32 per aggressione a mano armata, evita di pronunciarsi «non colpevole». «Vuole rimuovere ogni impedimento alla pena di morte», spiega l’avvocato Kris Poppe, che non lo difende in aula. Pur nell’assenza di telecamere e fotografi, tale determinazione punta a trasformare il processo nell’occasione per legittimare la Jihad da parte di un soldato musulmano degli Stati Uniti.
Hasan voleva dichiararsi colpevole a priori, ammettendo di aver sparato 146 proiettili sui commilitoni «per proteggere i musulmani e i leader taleban in Afghanistan», ma il giudice ha rifiutato di ammettere tale tesi come linea difensiva. Azioni e parole di Hasan evocano il comportamento tenuto da Khalid Sheik Mohammed - il regista degli attacchi dell’11 settembre - durante il processo a Guantanamo nel settembre 2008, quando rivendicò con orgoglio la paternità dell’uccisione di quasi tremila civili affermando di «credere solo nella legge islamica» e di aver voluto «spingere tutti i musulmani a unirsi nella guerra all’America». Anche lui invocò la pena capitale: «È quello che desidero: morire da martire, grazie a voi».
Se l’ideologia jihadista accomuna il killer di Forth Hood e l’ideatore dell’11 settembre, nel caso di Hasan c’è un elemento in più: l’impronta di Al-Awlaki. L’imam che si vantava di essere americano - ucciso dai droni in Yemen nel 2011 - puntava infatti a reclutare i jihadisti dentro gli Usa, nella convinzione che potessero diventare l’arma decisiva.
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