Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 08/08/2013, a pag. 15, l'articolo di Francesca Paci dal titolo " Egitto, fallita la mediazione internazionale ". Dal FOGLIO, a pag. 3, l'articolo di Rolla Scolari dal titolo " Quanto male fa a Hamas l’arrivo dei generalissimi al Cairo ". Da REPUBBLICA, a pag. 1-27, l'articolo di Ian Buruma dal titolo " Se il mondo applaude il golpe in Egitto ".
Ecco i pezzi:
La STAMPA - Francesca Paci : " Egitto, fallita la mediazione internazionale"
Abdel Fatah el Sisi
Il governo egiziano ha perso la pazienza. Dopo oltre un mese di feroce muro contro muro tra i sostenitori del deposto presidente Morsi e e i loro avversari capitanati dall’esercito il premier a interim Beblawi dice proprio così, «abbiamo perso la pazienza», e annuncia che la mediazione internazionale è fallita, che i Fratelli Musulmani sono i responsabili del conflitto e che gli islamisti meno inclini allo scontro farebbero bene a levare le tende approfittando della garanzia dell’incolumità perché ormai «la decisione di sgomberare le piazze è irreversibile». Il tono paternalistico, che ricorda il manifesto ormai diffusissimo al Cairo con un neonato tra le braccia di un militare, non lascia dubbi sulla determinazione delle autorità temporanee a risolvere in modo unilaterale la crisi costata già almeno 140 vittime.
«Abbiamo convocato una manifestazione contro le interferenze straniere e contro la minaccia dei Fratelli Musulmani» dice al telefono Mhamoud, attivista del movimento Tamarod che oggi protesterà nel nome di quei 30 milioni di firme contro Morsi raccolte a giugno e usate per la spallata contro il presidente da lui stesso votato nel 2012. Sullo sfondo, sempre più afoni, si smorzano gli appelli al «compromesso» degli Usa dalla cui pancia però è emersa ieri a sorpresa la denuncia del senatore repubblicano McCain, il primo tra i connazionali a definire quello egiziano «un golpe».
Nubi cupe si addensano sul Cairo. In città i Fratelli ribadiscono di aspettare «le pallottole a petto nudo» rafforzando l’impressione di una vocazione al martirio che stride con le richieste di legittimità democratica e evoca invece i proclami del telepredicatore qatarino Qaradawi e le minacce jihadiste di Zawahiri. L’esercito combatte per la sua credibilità in Sinai, dove ieri sarebbero stati uccisi 60 «terroristi», e lascia i sit-in ribelli alla mano pesante delle forze dell’ordine (per tenersi fuori dalla rissa e preparare la strada alla candidatura del generalissimo el Sisi?). L’economia annega mentre le piazze avversarie si rilanciano reciproche accuse di torture. Il contesto internazionale non agevola una soluzione pacifica con lo spettro di una nuova guerra fredda che darebbe a Mosca la statura per sostenere i militari egiziani nella repressione degli islamisti offrendo loro un finanziamento alternativo agli 1,5 miliardi di dollari americani. E il Golfo, attore centrale di questa partita? Nella confusione di queste ore pare che l’Arabia Saudita (sostenitrice di el Sisi contro i Fratelli filo Qatar) abbia offerto asilo all’ex presidente Morsi...
Il FOGLIO - Rolla Scolari : " Quanto male fa a Hamas l’arrivo dei generalissimi al Cairo "
Ismail Haniyeh con Mohamed Morsi
Gerusalemme. Sono lontani i tempi in cui nelle strade di Gaza comparivano cartelloni con il viso di Mohammed Morsi e il deposto presidente egiziano stringeva la mano al premier di Hamas, Ismail Haniye. Il movimento islamista palestinese è una costola della Fratellanza musulmana dell’ex rais e se un anno fa ha festeggiato l’elezione del primo presidente islamista, oggi osserva in un silenzio da equilibrista la situazione al Cairo. La procura generale egiziana ha accusato il leader deposto di cospirazione con il gruppo palestinese nei giorni della sua evasione di prigione, nel 2011. I mass media nazionali portano avanti in queste ore una campagna contro il movimento di Gaza, accusandolo di interferenze nella disordinata situazione interna. Dopo la deposizione di Morsi, le nuove autorità egiziane – indirizzate dal comandante delle Forze armate Abdel Fattah al Sisi – hanno limitato i passaggi di persone e beni attraverso il valico di Rafah, tra Gaza ed Egitto e bloccato molti tunnel sotterranei del contrabbando che tengono in vita l’economia locale. Ai tempi dei Fratelli musulmani, spiega un funzionario di Hamas al Foglio, entravano da Rafah mille persone al giorno e ne uscivano altrettante. Oggi il numero è sceso a 150. E i prezzi di beni come il cemento e il carburante sono saliti a causa della chiusura delle gallerie sotterranee. Durante il breve mandato di Morsi, la popolarità di Hamas è cresciuta dal 31 al 38 per cento anche grazie all’aumentata libertà di movimento al confine di Rafah, l’unica porta verso l’esterno non controllata da Israele. Ma i vertici di Hamas si aspettavano di più dal nuovo corso islamista del Cairo: aperture capaci di rafforzare l’economia della Striscia e lo status politico del movimento. Così non è stato. I Fratelli si sono rivelati più conservatori che innovatori in politica estera e i cartelloni con la faccia del presidente egiziano sono stati presto costituiti a Gaza da quelli con l’immagine dell’emiro del Qatar, primo capo di stato a visitare la Striscia nel 2012. L’Egitto di Morsi restava comunque uno degli ultimi alleati di Hamas, considerato un gruppo terroristico dall’occidente. All’inizio del conflitto siriano il movimento palestinese ha preso le distanze dal suo principale finanziatore, l’Iran, a causa del suo coinvolgimento a fianco del regime di Bashar el Assad. Ora “al movimento non resta che migliorare le sue relazioni con il nuovo regime egiziano – spiega al Foglio Khalil al Anani, esperto di organizzazioni islamiste dell’Università di Durham – I toni per ora restano però quelli dell’antagonismo”, soprattutto da parte egiziana. La leadership di Gaza non ha commentato formalmente gli eventi egiziani e le accuse di cospirazione, ma ha accusato i rivali di Fatah – che governano la Cisgiordania – di aver lavorato a una campagna di veleni contro di loro in Egitto. Per ora, i vertici scelgono il profilo basso. Ahmed Youssef, uno dei leader di Hamas, spiega al Foglio come “sia necessario essere pazienti: abbiamo una relazione strategica con l’Egitto e dobbiamo mantenere la sicurezza in Sinai”. Ammette che adesso, tra Gaza e il Cairo, i contatti politici sono congelati, restano soltanto quelli fondamentali sulla sicurezza – e che la situazione resterà stagnante fino a quando la direzione politica non sarà definita in Egitto. Il movimento – dice – è pronto a cooperare con chiunque governi al Cairo. Isolata sul piano interno – vista la nuova crescente ostilità con Fatah – dopo aver perso l’alleato iraniano, ora Hamas non può mettere a rischio la relazione con i vicini egiziani. E, spiega al Anani, nonostante i toni minacciosi di questi giorni anche l’Egitto ha interesse a conservare un dialogo con Gaza, per non perdere quel ruolo di mediatore regionale rafforzato da Hosni Mubarak e mantenuto da Morsi.
La REPUBBLICA - Ian Buruma : " Se il mondo applaude il golpe in Egitto "
Ian Buruma
Buruma definisce Morsi come 'democratico reazionario'. Non è ben chiaro che cosa intenda con quel binomio. 'Reazionario', sì, senza dubbio. Ma 'democratico'? Morsi? I Fratelli Musulmani?
Anche Hitler, nel '33, salì al potere dopo aver vinto democraticamente le elezioni. Questo non significa che sia stato un leader democratico.
Mubarak non era democratico, ma, se non altro, aveva il pregio di essere laico. Morsi, oltre a non capire niente di democrazia, ha peggiorato l'Egitto da dittatura laica a teocrazia islamica.
Perciò l'Occidente non può che applaudire al 'golpe' dei tamarod e dell'esercito.
Ecco il pezzo:
Egitto e Thailandia hanno poco in comune, ad eccezione di una cosa: in entrambi i Paesi, in epoche diverse, dei cittadini istruiti che si considerano con orgoglio democratici hanno finito per salutare con approvazione dei colpi di Stato militari contro dei governi eletti. Dopo essersi opposti per anni a dei regimi oppressivi, la Thailandia nel 2006 e l’Egitto lo scorso mese, sono stati felici di vedere i loro leader politici estromessi con la forza. Tale contraddizione non è immotivata. I leader eletti nei due Paesi, Thaksin Shinawatra in Thailandia e Mohamed Morsi in Egitto, sono stati degli ottimi esempi di democratici reazionari, che tendevano a considerare la propria vittoria elettorale alla stregua di un mandato che avrebbe permesso loro di manomettere la Costituzione e comportarsi da despoti. E non sono stati soli in questo. Anzi: Shinawatra e Morsi sono probabilmente i tipici leader di quei Paesi che non hanno conosciuto un governo democratico. O non ne hanno conosciuti abbastanza. Il primo ministro della Turchia, Recep Tayyip Erdogan, appartiene alla stessa specie. E se nel 1991 ai leader del Fronte islamico di Salvezza algerino (Fis) fosse stato concesso di salire al potere, quasi certamente anche loro si sarebbero rivelati dei governanti reazionari, a dispetto della loro vittoria in un’elezione democratica. Sono stati invece travolti da un golpe militare prima che una seconda tornata elettorale potesse aver luogo, scatenando una violenta guerra civile che si è protratta per otto anni e pare sia costata la vita a duecentomila persone. Gli eventi che nel 2006 fecero seguito al colpo di Stato in Thailandia non furono altrettanto sanguinosi. Tra gli elettori di Thaksin il risentimento tuttavia persiste, anche adesso che il ruolo di primo ministro è affidato a sua sorella Yingluck. Il rischio che per le strade possa divampare la violenza è costante. Solo l’ottantacinquenne sovrano Bhumibol, anziano e fragile, continua a rappresentare un simbolo di coesione nazionale. Senza di lui gli scontri tra i poveri delle campagne e le élite delle città potrebbero divampare in breve tempo. Ciò non lascia presagire nulla di buono per la democrazia thailandese. E un nuovo intervento dell’esercito è l’ultima cosa di cui i thailandesi hanno bisogno. Ad oggi la situazione in Egitto appare decisamente peggiore. Il leader del golpe militare, il generale Abdul-Fattahel-Sisi, ha promesso che si opporrà alla Fratellanza Musulmana di Morsi con la forza. A luglio, in due diverse occasioni, le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco contro i sostenitori della Fratellanza mentre questi erano intenti a manifestare pacificamente contro l’estromissione e l’arresto di Morsi – uccidendo quasi duecento persone. Le unità della polizia segreta un tempo attive sotto l’ex presidente Hosni Mubarak (e note per la disinvoltura con cui ricorrevano alla tortura) oggi vengono ricostituite per la prima volta dalla rivoluzione di piazza Tahir, nel 2011. Nulla di tutto ciò è democratico o liberale. E tuttavia queste vicende sono viste di buon occhio da molti egiziani, compresi alcuni attivisti dei diritti umani. Un uomo, che nel 2011 fu selvaggiamente preso a calci a piazza Tahrir da un membro delle forze armate, oggi afferma che il popolo egiziano dovrebbe “fare fronte unico” con l’esercito, e che tutti i leader della Fratellanza Musulmana dovrebbero essere arrestati. Un attivista democratico di spicco, Esraa Abdel Fattah, ha definito il partito di Morsi una banda di terroristi sostenuti dall’estero. Altrettanto afferma la dirigenza dell’esercito: per “combattere il terrorismo” sono necessarie misure speciali, il massimo dispiego della forza e il ritorno delle unità di sicurezza. Alcuni commentatori stranieri sono rimasti delusi quanto i sostenitori egiziani del golpe. Un noto scrittore olandese ha affermato di non essere molto interessato alle sorti dei sostenitori di Morsi, che considera tutti “islamo- fascisti”. E intanto i governi stranieri, compreso quello degli Stati Uniti, fingono di non vedere. L’amministrazione del presidente Barack Obama rifiuta di definire quanto accaduto un “colpo di Stato”. Il segretario di Stato John Kerry ha addirittura affermato che il golpe è stato un «ripristino della democrazia». Che il governo di Morsi fosse privo di esperienza e spesso incompetente, e che abbia dimostrato scarso interesse nell’ascoltare opinioni diverse da quelle dei propri sostenitori, spesso lungi dal poter essere definite liberali, è indubbio. Ma i sostenitori di Morsi non sono terroristi sostenuti dall’estero. Né si può dire che Morsi sia una versione egiziana dell’ayatollah Khomeini. L’elezione che ha portato Morsi al potere ha dato per la prima volta voce a milioni di persone, molte delle quali povere, non istruite e religiose. Forse non si trattava di perfetti democratici, né di individui particolarmente tolleranti verso chi ha delle opinioni diverse dalla loro. Molti di loro nutrono delle convinzioni – ad esempio sul ruolo delle donne, sul sesso e sul posto che spetta all’Islam nella vita pubblica – che i liberal laici considerano ripugnanti. Ma mettere a tacere queste persone con la forza e definirle terroristi sostenuti dall’estero non può che portare nuova violenza. Se non si rispettano gli esiti delle elezioni democratiche la gente cercherà altri modi per far valere la propria voce. Le tendenze dispotiche di Morsi hanno forse danneggiato la democrazia, ma estrometterlo con un golpe significa colpire la democrazia a morte. Quello di colmare il divario esistente nei Paesi in via di sviluppo tra le élite urbane, laiche e più o meno occidentalizzate, e i poveri delle zone rurali rappresenta un problema annoso. Una soluzione potrebbe essere quella di imporre un processo di modernizzazione secolare senza tener conto dei poveri e delle organizzazioni religiose. L’Egitto ha già subito degli Stati di polizia laici, sia di destra che di sinistra. In alternativa, si potrebbe lasciare che la democrazia faccia il proprio corso. Per fare ciò, occorre consentire qualche forma di espressione religiosa nella vita pubblica. In Medioriente, nessuna democrazia che non prenda in considerazione l’Islam potrà mai funzionare. Tuttavia, senza la libertà di poter esprimere opinioni e convinzioni diverse, la democrazia è destinata a rimanere illiberale. Per i partiti islamisti è duro accettare tutto questo. Molti islamisti infatti preferirebbero una democrazia illiberale a una democrazia liberale. Ma i liberali che realmente appoggiano la democrazia devono accettare il fatto che anche gli islamisti hanno il diritto di svolgere un ruolo in politica. L’alternativa è di tornare alla tirannia illiberale. Una possibilità che il sostegno con cui è stato accolto il golpe contro Morsi fa apparire tanto più probabile.
Per inviare la propria opinione a Stampa, Foglio e Repubblica, cliccare sulle e-mail sottostanti