Egitto: la situazione continua ad essere instabile. Che cosa fanno gli Usa ? Intanto l'economia e il turismo colano a picco
Testata:La Repubblica - La Stampa Autore: Renzo Guolo - Francesca Paci Titolo: «La realpolitik di Obama nella polveriera egiziana - Tra le 'rovine' della Primavera araba disertate dai turisti»
Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 07/08/2013, a pag. 26, l'articolo di Renzo Guolo dal titolo " La realpolitik di Obama nella polveriera egiziana ". Dalla STAMPA, a pag. 13, l'articolo di Francesca Paci dal titolo " Tra le “rovine” della Primavera araba disertate dai turisti".
La REPUBBLICA - Renzo Guolo : " La realpolitik di Obama nella polveriera egiziana "
Renzo Guolo
Più che 'realpolitik', quella di Obama in Medio Oriente e nei Paesi islamici in generale, sembra totale incapacità politica. Prima s'è fatto abbindolare dalla 'primavera' riconoscendo e legittimando i Fratelli Musulmani, poi è stato zitto di fronte alla seconda rivoluzione, quella dei tamarod. Continua a tendere la mano all'Iran, ora più di prima perché crede alla favola di Rohani 'moderato'. Un disastro dietro l'altro.
Mentre stringono la tenaglia attorno ai Fratelli Musulmani, i militari egiziani avvertono le perplessità delle cancellerie occidentali, timorose che la repressione inneschi una spirale nel quale resterebbe spazio solo per un disastroso conflitto armato. L’uomo forte del nuovo potere in riva al Nilo, il generale Al Sissi, accusa così gli Stati Uniti ma anche l’Unione europea, di aver voltato le spalle agli egiziani, di aver tradito la volontà popolare, ostile a Mohamed Morsi, di non supportare con forza il nuovo governo davanti alla sfida del terrorismo. Significativamente, Al Sissi afferma di non aver mai sentito né Obama né Kerry dopo il 3 luglio, ma solo il suo omologo alla Difesa, Hagel. La guida delle stellette si rivolge, così, alla Casa Bianca e a Foggy Bottom attraverso il Washington Post. Lamentando lo scarso sostegno a un intervento ritenuto in linea con gli interessi e i valori Usa. Invitando gli americani, che negli ultimi due anni hanno avuto stretti rapporti con i Fratelli musulmani, a usare la loro influenza per evitare che essi si radicalizzino e accettino la road map indicata dai militari. Parole che confermano come il “golpe popolare” non abbia certo convinto l’amministrazione Obama: anche se John Kerry, in nome della realpolitik, dirà nelle stesse ore che al Cairo i militari hanno “restaurato la democrazia”. In realtà, lo schiaffo arrivato attraverso il Post rivela come molti degli attori regionali mediorientali e nordafricani, consapevoli che la politica estera americana prevede una presenza meno diretta nell’area, comincino a muoversi secondo logiche autonome. Nella vicenda egiziana, gli Stati Uniti si trovano tra fuochi diversi, bersaglio di laici, nazionalisti e islamisti. La Fratellanza ritiene che, senza l’avallo americano, Al Sissi non si sarebbe mosso. È la stessa tesi di Al Qaeda, che torna a farsi viva con Zawahiri, che pure accusa i Fratelli di aver accettato le vie della democrazia. Quanto a Tamarrod e i nasseriani, tra i principali protagonisti della rivolta anti Morsi, hanno sempre pensato che il presidente deposto si reggesse su un ferreo accordo con Washington. Una posizione scomoda, quella americana, che deve tenere conto della svolta impressa ai rapporti con il mondo islamico dal discorso di Obama al Cairo nel 2009 e la logica di una potenza globale. In riva al Potomac, la preoccupazione maggiore è ora che i militari egiziani facciano del 3 luglio un’occasione per semplificare, per un lungo periodo, il campo politico. Aleggia, infatti, tra le stellette la tentazione della resa dei conti definitiva con i rivali storici della Fratellanza. Una soluzione di tipo algerino, repressione durissima e poi parziale inclusione nel sistema politico degli islamisti in posizione di debolezza, legittimata da quel plebiscitario mandato popolare che i militari ritengono di aver ottenuto con le manifestazioni di massa del 26 luglio contro il “terrorismo”. Espressione che, nel nuovo corso egiziano, non indica solo le correnti jihadiste ma quanti rifiutano il nuovo, vecchio, ordine emerso dopo la deposizione di Morsi. Alla Casa Bianca, come nelle cancellerie occidentali messe sotto accusa da Al Sissi, si teme che il vuoto lasciato dalla Fratellanza decapitata sia occupato dalle frange islamiste più radicali. E che queste si saldino, sul terreno del jihad, con quelle che già operano nel Sinai. Sulla sponda sud del Mediterraneo, l’instabilità diventerebbe, allora, la regola. Anche perché l’evidente fallimento dell’islam politico non si traduce nel rafforzamento delle forze democratiche. Le stesse mobilitazioni laiche sembrano esprimere più un impulso alla rivolta che far emergere un progetto politico e un nuovo blocco sociale che lo sostenga. In questa polarizzazione tra le vecchie forze del passato, militari o islamiste che siano, e nella debolezza degli attori sociali emergenti, c’è tutto lo scacco della primavera egiziana.
La STAMPA - Francesca Paci : " Tra le 'rovine' della Primavera araba disertate dai turisti"
Francesca Paci Luxor
Corrono appena 5 anni tra la paparazzatissima sortita a Petra dell’allora presidente francese Sarkozy in compagnia della neo fidanzata Carla Bruni e quella di Obama, che sei mesi fa ha girovagato due ore tra i leggendari colonnati nabatei assai più deserti del circostante Wadi Rum. Se la sicurezza impone infatti in questi casi l’evacuazione della zona, stavolta, diversamente dal 2005, i visitatori da allontanare si contavano. L’effetto del caos nella vicina Siria non si limita al campo profughi di Za’atari, ma sta minando le fondamenta stesse del piccolo regno hashemita, a partire dal turismo, latitante al punto che i noleggiatori di cavalli all’entrata della Città Rosa hanno ridotto il prezzo della corsa da 12 a 5 dinari (5 euro).
Il vento della Primavera araba non ha risparmiato i siti archeologici che in Giordania come in Egitto, Libia, Siria e perfino nel meno coinvolto Libano accusano oggi l’instabilità politica regionale e si riflettono in modo grave sull’economia nazionale di cui, per dire, il turismo giordano rappresentava fino al 2010 il 12,4%. La guerra civile tra Assad e i suoi nemici è dilagata talmente che, dopo aver assorbito un calo del 14% nelle presenze turistiche, il governo di Beirut ha spostato il celebre Festival di Baalbek dagli spettacolari templi di Giove e Bacco che ospitarono Nureyev e Ella Fitzgerald alla capitale.
Dall’altro lato del Mediterraneo anche la Libia post Gheddafi conterebbe molto sulla magica Leptis Magna per differenziare lo sviluppo ipotecato dal petrolio. Fino a due anni fa i resti della capitale romana che diede i natali all’imperatore Settimio Severo pagavano il prezzo della chiusura del Paese con una cifra irrisoria di turisti oscillante sui 50 mila l’anno. Ora il Colonnello non c’è più ma è l’incertezza politica a mantenere gli stranieri lontani dalle dune spazzate dal Ghibli che hanno preservato il foro e l’anfiteatro di uno dei maggiori siti archeologici del Mare Nostrum. Le dimissioni del vice premier al Barassi, che lunedì ha denunciato «il peggioramento della sicurezza», addensano ombre cupe sul futuro della Libia rendendolo una scommessa vaga quanto gli scavi di Leptis Magna, in gran parte sotto terra.
Le resistenti meraviglie del passato testimoniano mute la fragilità del presente. Luxor, nel confinante e turbolento Egitto, fotografa lo sbandamento di un paese disertato dai visitatori che fino al 2010, al ritmo di 9 milioni l’anno, davano lavoro a 12 milioni di egiziani e rendevano alle casse del paese 12 miliardi di dollari. Oggi, mentre la rivoluzione si sfalda nel braccio di ferro tra esercito e islamisti, gli hotel disseminati tra i resti dell’antica Tebe e la tomba di Tutankhamen funzionano al 5% delle loro potenzialità e il favoloso 5 stelle Hilton Luxor offre tre notti a 518 dollari.
«È già qualcosa, è una speranza» commenta al telefono un archeologo siriano. Le notizie che giungono dalla «sua» Palmira raccontano di bombardamenti sul santuario di Bel e la cittadella di Fakhreddine II dove veniva celebrata la regina Zeinobia. Laggiù, quando torneranno i turisti, sarà comunque troppo tardi.
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