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Informazione Corretta Rassegna Stampa
06.08.2013 Gli edifici disegnati da Daniel Libeskind raccontano le loro storie
Intervista di Shula Kopf

Testata: Informazione Corretta
Data: 06 agosto 2013
Pagina: 1
Autore: Shula Kopf
Titolo: «Gli edifici disegnati da Daniel Libeskind raccontano le loro storie»

Gli edifici disegnati da Daniel Libeskind raccontano le loro storie
Intervista dI Shula Kopf

(The Jerusalem  Report  29/7/2013, traduzione di Yehudit Weisz)


Daniel Libeskind

Il famoso architetto Daniel Libeskind  ha scoperto solo di recente che suo nonno paterno era stato un magid, un cantastorie che esercitava il suo mestiere da uno shtetl all’altro in Polonia. Queste tradizioni di famiglia si sono inserite perfettamente nel modo di Libeskind di intendere l’architettura; perché anche lui, è un cantastorie. Per Libeskind un edificio non è mai solo un edificio.

“Ho sempre pensato che l’architettura debba raccontare una storia perché se un edificio non racconta una storia, è inutile”, dice Libeskind a The Jerusalem Report durante una sua recente visita in Israele. “Ogni edificio dovrebbe raccontarti il motivo più vero, più profondo, per cui si trova lì”.

Libeskind,  67 anni,  è stato catapultato 14 anni fa nella stratosfera degli architetti più prestigiosi, con i suoi disegni di sculture ardite che fanno da vetrina per forme ad angolo acuto, muri inclinati e pavimenti in pendenza. Prima di allora era stato un professore che perseguiva teorie d’avanguardia.

Libeskind si è auto-definito architetto ebreo; ma con questo non intende rifarsi ad una affiliazione etnica. Si riferisce invece alla sua sensibilità ebraica, ai valori culturali che rintraccia nella saggezza chassidica dei suoi genitori, e come tutto ciò pervada il suo approccio all’architettura.

Afferma con sicurezza: “ Io sono un autentico architetto ebreo, respingo il modo non ebraico di considerare l’architettura come una mera realtà materiale. Io so che ogni edificio che amo è connesso a qualcosa d’indimenticabile, a qualcosa che ha a che fare con un mondo più vasto, non soltanto attraverso l’uso immediato e funzionale dello spazio.”

“L’architettura dovrebbe essere in grado di suscitare delle domande, non solo rendere la gente addormentata e anestetizzata, ma di evocare la reale energia della vita, che è ricca di qualcosa di infinitamente prezioso” continua, notando che anche il Talmud solleva delle domande e che la stessa letteratura biblica s’interessa di architettura.

“E’ l’idea ebraica di come il mondo giri tutto intorno alla memoria, per esempio, e le sue parole prendono il volo. E’ il concetto ebraico dello spazio che non è solo un idolo superficiale spesso venerato dalla gente, ma lo spazio è connesso alla cultura, allo spirito, ed ha una vasta risonanza in termine di tradizioni, del presente e di com’è orientato verso un nuovo orizzonte.”

A prescindere dalle sue scarpe da cowboy, dal prediligere gli abiti neri e il suo perenne sorriso, la caratteristica più peculiare di Libeskind è la sua eloquenza. Un maestro della metafora, ha l’abilità di trascinare gli ascoltatori nell’immaginare torri che egli fa apparire come per magia con la sola potenza delle parole. Impone la sua visione dell’universo ebraico conferendo ai suoi progetti significati che vanno oltre il cemento, l’acciaio e il vetro.


Museo ebraico di Berlino

Un esempio di questo suo primo mega-progetto, quello che l’ha reso celebre, è il Museo Ebraico di Berlino, che fu inaugurato nel 2001. Prima di vincere il concorso del progetto dieci anni addietro, Libeskind, il professore, non aveva mai disegnato un vero edificio, neppure una piccola casa privata, ancor di meno il più grande Museo in una delle più grandi città del mondo.

“Ma avevo capito che ciò di cui c’era bisogno era un legame stretto con questa invisibile cultura ebraica”.

Dopo l’inaugurazione, il Museo è diventato uno dei progetti architettonici più celebri al mondo, con la sua singolare forma a zig-zag incisa nello zinco, che vista dall’alto, ricorda una stella di Davide decomposta e destrutturata. Libeskind ha usato l’architettura per indurre una sensazione di disagio, creando di fatto il memoriale della Shoah.  “Non ho volutamente costruito un Museo ebraico per gli ebrei, perché loro non ne hanno bisogno. Gli ebrei conoscono già la storia” dice.

Al suo interno il Museo include elementi come un’alta struttura vuota in cemento, chiamata la Torre della Shoah, che non espone nulla, non è climatizzata (gelida d’inverno, soffocante d’estate), è solo una singola lama di luce diurna proveniente da una feritoia posta in alto.

“Quando ci riflettevo sopra, da ebreo, non da architetto, mi ero domandato se nella Torre della Shoah ci potesse essere una qualche luce”aveva raccontato Libeskind durante una conferenza tenuta alla sua ex Scuola di architettura, la Cooper Union a New York. “Per lunghissimo tempo, e questo progetto ha impiegato molti anni per la sua realizzazione, avevo pensato che non dovesse esserci alcuna luce. E poi, per caso, lessi il racconto di una sopravvissuta ad Auschwitz. Quando era rinchiusa nel carro bestiame, lei vide che c’era una fessura attraverso cui poter guardare fuori, e vi si appoggiò.  Disse che quella era stata l’unica cosa che la teneva in contatto con il mondo. E aveva pensato che la sua sopravvivenza avesse avuto a che fare con quel suo aggrapparsi alla luce.”

Libeskind ha disegnato un lungo, inaccessibile vuoto che taglia l’edificio, creando uno spazio che ospita l’assenza, a indicare il vuoto che lo sterminio di milioni di ebrei ha lasciato nella cultura tedesca. Per spostarsi all’interno del Museo, i visitatori devono attraversare una delle 60 passerelle che si aprono su questo vuoto.

Uno dei percorsi interni conduce a un vicolo cieco. All’esterno c’è il Giardino dell’Esilio e dell’Emigrazione per commemorare l’ esilio degli ebrei da Berlino.

Durante i primi due anni dall’inaugurazione, il Museo non ospitò alcuna Mostra di capolavori né di manufatti, solo l’edificio di per sé era l’attrazione che conquistò milioni di visitatori.

“Quando agli inizi parlai del Museo Ebraico a Berlino come di una narrazione, la gente mi disapprovava. Ci fu una rivista tedesca di architettura che dedicò un numero intero  a criticare l’edificio. Dicevano che era una follia e che non sarebbe venuto nessuno. Invece  la gente ha capito che dentro c’è una storia,  che l’architettura è in grado di narrare attraverso la luce, la temperatura, l’acustica e le proporzioni.”

A San Francisco, Libeskind ha creato il Museo Ebraico Contemporaneo sull’espressione ebraica l’chaim (alla vita), e sull’idea ebraica che le lettere  non sono solo dei segni ma partecipano attivamente alla storia mediante i loro significati simbolici e il loro valore numerico.  Due parti dell’edificio formano le lettere dell’alfabeto ebraico, chet e yud, che costituiscono la parola ebraica chai (vivo) e hanno insieme valore numerico 18. La chet che è più grande, assicura la continuità del complesso per mostre e spazi culturali, mentre la yud con le sue simboliche 36 finestre (doppio chai),  è posta sul passaggio pedonale.

L’edificio, inaugurato nel 2008, è rivestito da 3000 pannelli di acciaio di un brillante colore blu.

Quando Libeskind mise sulla carta il design del Museo Ebraico in Danimarca, scrisse la parola ebraica mitzva (comandamento, buona azione), per commemorare il salvataggio da parte dei danesi dei loro ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale, e l’usò come concetto-guida per la forma, la struttura e la luce del Museo.


Freedom Tower

Libeskind non destina le sue metafore architettoniche esclusivamente a edifici ebraici. Per Ground Zero a New York,  ha progettato quella che ha chiamato “La Torre della Libertà” alta  1776 piedi, che corrisponde all’anno della Dichiarazione dell’Indipendenza degli Stati Uniti d’America. Vista da un preciso punto di osservazione, la guglia della torre sarà perfettamente allineata alla torcia della Statua della Libertà.

“ I simboli hanno importanza” dice.

Il nipote del cantastorie ama raccontare al suo pubblico di come vide per la prima volta quella statua quando a 13 anni arrivò negli USA da immigrato con i genitori e la sorella. Prima di buttar giù il disegno del progetto, Libeskind dice di aver riletto la Dichiarazione di Indipendenza e la Costituzione.

“La mia architettura è differente perché, nella sua sensibilità,  è ebraica”  e aggiunge, senza fermarsi: ”ma solo per il fatto che un architetto è ebreo non significa che possegga  sensibilità ebraica. Egli può creare edifici goyish (gentili) persino se è un israeliano” e scoppia in una risata, il viso illuminato di contentezza.

Libeskind era giunto in Israele per parlare alla “Conferenza del Turismo Internazionale” a Gerusalemme, dove ha presentato i suoi vari progetti in giro per il mondo.  Dopo il successo di Berlino, ha ricevuto molte altre proposte, soprattutto per musei; ma dopo aver vinto il concorso per il World Trade Center, Libeskind ha ricevuto commesse per mega-progetti in tutto il mondo, anche ville,  grattacieli  e centri residenziali a Singapore, per un complesso di grattacieli nella Corea del Sud e torri di appartamenti privati a San Paolo, a New York e a Seoul.

Con un lieve accento dell’Est europeo,  di uno che ha imparato la lingua inglese a 13 anni, ha tenuto la sua conferenza a rotta di collo, così tanti sono gli edifici e così breve il tempo a disposizione. La conversazione con il  Report ha luogo nella sala VIP. Ma prima, lui e Nina, sua moglie e partner professionale, erano in attesa del colloquio con il Sindaco di Gerusalemme Nir Barkat. Hanno atteso pazientemente, approfittando dell’occasione. Libeskind sta disegnando il progetto di un centro multi-funzionale nel centro di Gerusalemme al posto dell’ex Cinema Eden, con una torre residenziale, un hotel, uno spazio commerciale e forse una piccola sinagoga.

Libeskind dice di affrontare tutti i suoi progetti con un senso di timore reverenziale, ma a Gerusalemme ancora di più. “Quando costruisci a Berlino o a New York, non puoi dare per scontato che tu possa fare qualunque cosa tu voglia” dice.”E, naturalmente a Gerusalemme questa sensazione è più forte ancora, per la storia della città e la sua dimensione spirituale. A livello pedonale devi creare un ambiente che sia contemporaneo, non sentimentale, ma che abbia l’atmosfera giusta. A Gerusalemme il fattore luce è importante.”

Libeskind non era partito con l’idea di fare l’architetto. Nato a Lodz, in Polonia da due sopravvissuti alla Shoah, la sua iniziale passione fu la musica. A 5 anni desiderava un pianoforte, ma i genitori erano riluttanti a portarne uno in casa temendo il risentimento dei vicini polacchi. Così il piccolo Daniel ebbe invece una fisarmonica.

“Se non fosse stato per l’antisemitismo, sono certo che non sarei mai diventato architetto,” dice    “di sicuro sarei stato un musicista.”

E rievoca l’infanzia di cui cita i “mini-pogrom.”

“Zhid era l’appellativo che ci rivolgevano, persino i nostri insegnanti; ci cacciavano via, ci malmenavano e dovevamo correre via, non abbiamo mai potuto far parte di qualsiasi cosa venisse organizzata a livello sociale” ricorda.  “Siamo cresciuti ben sapendo di essere circondati da nemici. Nessuno te l’aveva dovuto dire,  lo sapevi molto bene.”

Nel 1957 la famiglia immigrò in Israele, e dopo che Libeskind aveva vinto un concorso musicale con la fisarmonica, uno dei giudici, il famoso violinista Isaac Stern lo spinse a studiare pianoforte. Due anni più tardi la famiglia si trasferì a New York. Libeskind seguì gli studi di architettura al Cooper Union, ma abbandonò lo studio prestigioso dell’architetto Richard Meier dopo solo una settimana, lasciando il mondo accademico.

Nel 1998 aveva appena accettato un posto al Getty Center di Los Angeles quando vinse il concorso a Berlino. Con tutta la famiglia in cammino verso la California, i Libeskind fecero dietro front e si trasferirono a Berlino per avere la garanzia che il Museo sarebbe stato costruito come Libeskind l’aveva progettato. Il resto, come si dice, è storia.

“Ci sono molti architetti ebrei che progettano edifici che hanno un po’ a che fare con il pensiero ebraico,” dice. “Ci può essere un nome ebraico sul museo, ma non è stato un pensiero ebraico a crearlo. Persino a Dublino, o a Milano, io porto una differente sensibilità. Non inizio mai con “Qui c’è un progetto”, ma inizio con l’ascoltare l’ambiente e pensare a qualcosa di totalmente diverso. Perché ogni luogo ha una memoria e ogni luogo ha una storia. Nessun luogo è una tabula rasa, buona solo per un esercizio o un esperimento. Ogni luogo ha la necessità di raccontare, anche se è un posto banale in cui vivere, ma se vuoi migliorarlo, devi trovare un legame con quel luogo”.

Oggi Libeskind ha grandi progetti in giro per il mondo, compreso una torre residenziale a Varsavia, proprio vicino a dove sua madre, discendente del Rabbi Gerer, era cresciuta. “Ora c’è una Polonia diversa” dice. E se suo nonno se ne andava da uno shtetl all’altro a diffondere le sue storie, Libeskind ora viaggia da un posto all’altro nel mondo, progettando edifici che raccontano le loro.


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