Gli Usa avvertono i propri cittadini, al Qaeda può colpire obiettivi americani. Riprendiamo oggi, 03/08/2013, due articoli, dalla STAMPA, a pag.15, quello di Maurizio Molinari, dal CORRIERE della SERA , a pag.13, quello di Guido Olimpio.
La Stampa-Maurizio Molinari:" Al Qaeda vuole colpire gli Stati Uniti"
controlli negli aeroporti Maurizio Molinari
Gli Stati Uniti temono un imminente attacco contro una loro sede diplomatica in Nordafrica o Medio Oriente da parte delle cellule yemenite di Al Qaeda. L’intelligence Usa nelle ultime settimane ha intercettato un «intenso volume di scambi di messaggi fra esponenti Al Qaeda», come il vicepresidente Joe Biden ha spiegato ai leader del Congresso di Washington, arrivando alla conclusione che «potrebbe essere stato pianificato per domenica 4 agosto».
È a seguito di tale allarme che i droni della Cia la scorsa settimana hanno lanciato tre attacchi nelle aree dello Yemen dove operano le cellule jihadiste e di questo ha parlato giovedì nello Studio Ovale Barack Obama ricevendo il presidente yemenita Abdo Rabu Mansour Hadi. Lo Yemen è considerato il maggiore teatro di operazione di Al Qaeda anche per la presenza di Ibrahim Hassan al-Asiri, lo specialista di esplosivi che in più occasioni ha tentato di colpire l’America con mini-ordigni e - secondo un’inchiesta di «Time» - avrebbe addestrato numerosi giovani seguaci all’uso del Petn, molto potente e in grado di sfuggire ai controlli più sofisticati. Non essendo riuscita a porre termine alla minaccia, l’Amministrazione Obama ha scelto di renderla pubblica affidando al Dipartimento di Stato il compito di diffondere un’«allerta globale» per «un attentato che può avvenire o partire dalla Penisola araba» nell’arco di tempo che va dal 4 al 31 agosto.
L’allarme riguarda anzitutto ambasciate e consolati perché di queste sedi si parla nelle comunicazioni di Al Qaeda - e le recenti evasioni di massa di militanti jihadisti dalle carceri di Abu Ghraib in Iraq, di Bengasi in Libia e nel Nord del Pakistan fanno temere l’esistenza di un piano per lanciare un’offensiva durante il Ramadan, puntando a sorprendere l’America come lo scorso 11 settembre con l’attacco al consolato di Bengasi, nel quale fu ucciso l’ambasciatore americano Chris Stevens.
Per precauzione domani le sedi diplomatiche Usa dal Marocco al Pakistan saranno chiuse ma l’allarme del Dipartimento di Stato è più esteso e suggerisce cautela a tutti gli americani in viaggio in questi Paesi perché «i terroristi in passato hanno attaccato o avuto per obiettivo metropolitane, treni, scali aerei e marittimi».
In considerazione dell’entità del pericolo incombente il Pentagono ha messo in preallarme le unità speciali «Fleet Antiterrorism Security Team» dei Marines di stanza a Rota, in Spagna, a Sigonella, in Sicilia, e in Bahrein affinché possano reagire con brevissimo preavviso in caso di necessità. Proprio come non avvenne a Bengasi lo scorso anno.
Corriere della Sera-Guido Olimpio: " Il principe delle bombe che sfugge ai droni e alla Cia"
Ibrahim Al Asiri Guido Olimpio
Gli occhi dell’intelligence Usa scrutano molti fronti ma puntano soprattutto l’angolo meridionale della Penisola arabica, uno dei territori favoriti dai qaedisti. All’origine dell’allarme terrore vi sarebbe anche — e non solo — l’attività dei militanti nello Yemen. Lo rivelano alcuni episodi, concatenati. Il 16 luglio Al Qaeda nella Penisola arabica ha annunciato la morte di Said Al Shiri, numero due dell’organizzazione rimasto ferito, durante l’inverno, in un raid di droni. I suoi compagni lo hanno celebrato promettendo lotta ad oltranza. Moniti che non hanno certo fermato i «mietitori di Obama»: per tre volte in questi ultimi dieci giorni i droni hanno sferrato nuove incursioni colpendo i militanti e alcuni civili. L’ultimo colpo nell’Hadramaut, regione inospitale per i «bianchi» ma rifugio per tanti ricercati. Gli attacchi facevano parte della «caccia» globale che gli Usa hanno affidato ai velivoli senza pilota oppure erano azioni di pressione nel timore di sorprese? E i missili Hellfire — costo 100 mila dollari a pezzo — inseguivano bersagli generici o, invece, avevano scritto sulla loro testata il nome di Ibrahim Al Asiri?
Come hanno raccontato fonti dell’intelligence al settimanale Time «è lui il nostro uomo». C’è lui in cima alla lista degli obiettivi che la Cia presenta all’entourage del presidente. Al Asiri è da tempo un morto che cammina, prima però devono scovarlo ed eliminarlo. Saudita di Riad, sulla trentina, una vita passata a nascondersi, è il principe delle bombe. Ne ha costruite d’ogni tipo, sempre più piccole, facilmente occultabili. Ha iniziato con quella celata sul corpo del fratello Abdallah, mandato a morire nel tentativo di eliminare, nel 2009, il principe Nayaf, allora responsabile dell’antiterrorismo saudita. Poi è passato alle mutande bomba affidate al nigeriano Faruk Abdulmutallab al quale avevano assegnato la missione di distruggere un jet Northwest sul cielo di Detroit. Ancora: gli ordigni infilati in cartucce per stampanti e spediti su aerei cargo. E poi una cintura da kamikaze preparata per un attentatore che era in realtà un infiltrato saudita. Anche in questo caso voleva incenerire un aereo civile. Piani ambiziosi falliti all’ultimo istante o sventati. Sconfitte tattiche che — sostengono a Washington — non hanno intaccato la sua voglia di annientare il nemico. Ibrahim non si abbatte. «A nostro figlio hanno fatto il lavaggio del cervello — è la tesi dei genitori. —. È stato manipolato da altri». Gli «altri» sono i vertici di Al Qaeda nella Penisola arabica, formazione più viva che mai malgrado quei missili tirati dagli Usa. Per gli analisti la fazione è decisa a saldare il conto con gli americani. Ha studiato per anni le contromisure adottate a protezione del trasporto aereo, ha imparato dai suoi errori, ha cercato nuovi «esecutori» per gli attentati. In particolare degli elementi insospettabili, in possesso di documenti occidentali «puliti», mai schedati nelle liste nere e spesso reclutati nei Paesi europei. Un modus operandi suggerito dai responsabili operativi e da uno yemenita-americano, l’imam Anwar Al Awlaki, altra preda uccisa dai droni insieme al figlio e ad un collaboratore, sempre di nazionalità statunitense anche se nato nello Yemen.
Indagini, non definitive, hanno ipotizzato che Al Qaeda nella Penisola arabica abbia l’ambizione di ispirare gruppi affini presenti in altri scacchieri. Si è persino sospettato un ruolo nell’assalto al consolato statunitense di Bengasi l’11 settembre di un anno fa. L’attenzione sullo Yemen se giustificata da quanto raccontato può però fare il gioco dei criminali: tutti guardano a Aden e, invece, l’attacco arriverà da un’altra parte. Non sarebbe la prima volta.
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