Iran: inizia il mandato del neo presidente Hassan Rohani cambierà qualcosa rispetto ai suoi predecessori ? Cronaca di Tatiana Boutourline
Testata: Il Foglio Data: 01 agosto 2013 Pagina: 3 Autore: Tatiana Boutourline Titolo: «Meet the President»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 01/08/2013, a pag. 3, l'articolo di Tatiana Boutourline dal titolo "Meet the President".
Hassan Rohani
Sono giornate meste per Mahmoud Ahmadinejad, formalmente è ancora il presidente della Repubblica islamica d’Iran, ma da un mese e mezzo è già un “ex” e la frenesia con cui continua a viaggiare, provocare Israele e parlare dei suoi progetti (nell’ordine: occupare un ufficio a pochi metri da quello del suo successore, diventare un magnate dei media e, da ultimo, fondare un’università) non sortisce più alcun effetto. Ormai nessuno ha più tempo per Ahmadinejad. Le luci della ribalta sono tutte per l’uomo del momento, il presidente eletto Hassan Rohani, al quale non serve apparire: tutti comunque parlano di lui. In attesa di completare il puzzle delle nomine – le agenzie Isna e Mehr hanno diffuso una lista con l’assegnazione delle principali poltrone – al neo profeta della moderazione è sufficiente distillare sui social network le battute della campagna elettorale: “La libertà d’espressione è la soluzione di molte questioni; se l’Irib (la tv pubblica) trasmette il parto di un panda al posto delle manifestazioni dei lavoratori è naturale che poi sia ignorata; non possiamo denunciare l’ingiustizia in un paese nemico e tollerarla in un paese amico”. Tanto basta per la stampa internazionale: quest’estate il sessantaquattrenne Rohani è il miglior coniglio tirato fuori dal cilindro di Teheran dai tempi di Mohammed Khatami e, mentre si prepara al gran debutto – l’endorsement ufficiale dell’ayatollah Ali Khamenei sabato e il giuramento in Parlamento domenica – il neo presidente iraniano è persino stato omaggiato nel ritornello di un brano hip hop che scandisce ritmicamente: “Rohani mochakerim”, ossia “Ti siamo grati Rohani”, mutatis mutandis, un po’ come quando Barack Obama fu insignito del Nobel senza avere avuto il tempo di fare alcunché per meritarselo. Alla vigilia della cerimonia d’insediamento di Ahmadinejad il clima era tesissimo, le strade presidiate, i negozi e le fermate della metropolitana chiuse. Il volto rigato di sangue di Neda faceva capolino ovunque nei media internazionali e sui poster attaccati ai muri e continuamente rimossi dalla polizia municipale. Nelle strade limitrofe al Parlamento si sentivano distintamente cori diretti al presidente e all’ayatollah Khamenei: “Morte al dittatore!”. Una nutrita pattuglia di conservatori boicottò i festeggiamenti per la rielezione, anche i figli di alcuni esponenti di spicco della nomenklatura erano finiti nel centro di detenzione di Kahrizak per uscirne cadaveri e la tv inquadrò per sbaglio una fila di sedie vuote. Quell’estate, mentre in tv andavano in scena processi farsa “ai sediziosi”, il regime tremò come mai prima di allora. Khamenei lo ha implicitamente ammesso il 29 luglio davanti a un gruppo di universitari: “Sapete che se Dio non ci avesse aiutato durante la sedizione, se diversi gruppi di persone si fossero rivoltate le une contro le altre, sapete cosa sarebbe potuto accadere alla nazione?”. Il pericolo è stato scampato e mentre le primavere del mondo arabo si inabissano in una crisi dopo l’altra, Khamenei con Rohani brandisce una nuova patente di legittimità e si sente abbastanza sicuro da invocare le scuse di coloro che quattro anni fa denunciarono la frode elettorale di Ahmadinejad. La stagione della ferocia ha dato i suoi frutti, Khamenei può compiacersi del “voto epico”, gli iraniani rallegrarsi per l’assenza di brogli. In tempi di sanzioni e stravolgimenti regionali l’ordinaria amministrazione è quasi un lusso cui aspirare. Le cerimonie d’inizio mandato dei presidenti iraniani non sono aperte al pubblico e non prevedono coreografie elaborate. Gli insider le osservano a caccia di gesti inattesi di stizza o di approvazione come se bastasse un battito di ciglia in più o uno in meno per aggiornare la geografia del potere (nel 2009 l’ayatollah Khamenei negò ad Ahmadinejad il paterno abbraccio del 2005 e il presidente-pasdaran si dovette accontentare di sfiorare con le labbra la veste di una Guida suprema palesemente infastidita), ma sono faccende da entomologi. Quest’anno però è andata diversamente. Il ministero degli Esteri ha lanciato l’evento in grande stile sottolineando che per la prima volta sarebbero stati invitati “tutti i dignitari stranieri”. Nell’entusiasmo il portavoce Abbas Araghchi ha omesso di specificare che dall’invito erano esclusi i rappresentanti di Israele e Stati Uniti. La dimenticanza ha suscitato reazioni indignate da parte dei falchi e Araghchi ha corretto il tiro. Secondo Press Tv hanno confermato la partecipazione all’evento 40 ospiti eccellenti, tra cui il presidente afghano Hamid Karzai, quello pachistano Asif Ali Zardari, quello libanese Michel Suleiman, il primo ministro siriano Wael Nader al Halqi, il presidente della Duma Sergei Naryshkin (una visita del presidente russo Vladimir Putin potrebbe essere in calendario entro fine agosto) e il nuovo emiro del Qatar, Tamim bin Hamad al Thani. Un’altra tempesta è scoppiata intorno al nome di Jack Straw, ex ministro degli Esteri inglese, estimatore di Rohani dai tempi in cui il neo presidente iraniano era il “no nonsense nuclear negotiator” di Khatami. A metà luglio Straw ha auspicato un viaggio in Iran allo scopo di migliorare i rapporti bilaterali. Nel 2011 l’ambasciata britannica a Teheran fu assaltata da un gruppo di miliziani bassiji, i diplomatici inglesi lasciarono il paese in segno di protesta contro la mancata protezione da parte delle autorità e quelli iraniani furono espulsi dal Regno Unito. La presenza irrituale di Straw sarebbe dunque stata significativa per Londra, ma anche per altre capitali europee interessate a riallacciare il dialogo con Teheran. I falchi però si sono nuovamente messi di traverso: un deputato ultraconservatore ha minacciato di accogliere l’ex ministro con un lancio di pomodori e Straw ha precisato che non avrebbe comunque potuto partecipare ai festeggiamenti a causa di un impegno precedente. L’Unione europea sarà quindi rappresentata dai suoi diplomatici e bisognerà aspettare ancora per riannodare la tela del rapporto speciale con Rohani, perché pare quasi unanime l’opinione che quella offerta dalla sua elezione sia un’occasione da non lasciarsi sfuggire. Lo pensano 131 membri del Congresso che hanno trasmesso una lettera al presidente Obama invitandolo a prendere sul serio il neopresidente iraniano, lo scrive in una lettera accorata al New York Times l’ex ambasciatore francese François Nicoullaud, secondo il quale a Rohani non solo va ascritto il merito di aver ottenuto nel 2003 il placet alla sospensione dell’arricchimento dell’uranio, ma addirittura quello di aver fermato il programma di armamento atomico in mano ai pasdaran. Nessuna autorità iraniana lo potrà mai confermare – ha precisato Nicoullaud – perché la ricerca della bomba è ovviamente clandestina, ma le conversazioni che ebbe con le sue controparti iraniane glielo fecero supporre (c’è davvero chi ha descritto le sensazioni dell’ambasciatore come uno scoop del Nyt); e lo dice, forse peccando di protagonismo, il premier iracheno Nouri al Maliki assicurando che sul nucleare Rohani è pronto a intavolare colloqui diretti con Washington e che l’Iraq si candida al ruolo di mediatore, salvo poi essere smentito da Teheran. Il fatto che Rohani ritenga necessario un dialogo con gli Stati Uniti a proposito del dossier nucleare è pacifico: “Se doveste accordarvi su qualcosa preferireste parlare con il capo villaggio o con gli altri?”, ha chiesto il presidente durante la campagna elettorale lasciando intendere di considerare gli europei irrilevanti o poco più, con buona pace di Straw e compagni. Anche Ahmadinejad è giunto alla stessa conclusione e persino Khamenei non esclude più l’ipotesi di un tête à tête, con l’imprescindibile corollario “se” dell’America ci si possa fidare (e invece non si può mai). Cosa c’è allora a oggi di così nuovo ed entusiasmante in Rohani a parte il fatto che non è Ahmadinejad? Per ora nessuno lo sa per certo, così ciascuno proietta su di lui i suoi desiderata. Così Hamas – tutti, “buoni” e “cattivi”, hanno qualcosa da rimproverare a Teheran – sogna da lui una politica più equilibrata nei suoi confronti e Stanislas de Laboulaye, già direttore generale del Quai d’Orsay, lo descrive come “l’unico in grado di vendere qualcosa di profondamente impopolare agli altri leader iraniani”. Quel qualcosa di così impopolare è l’accordo negoziato a Teheran e siglato a Parigi nella stagione 2003-2004 con cui la cosiddetta troika – composta da Straw e dai colleghi, il tedesco Joschka Fischer e Javier Solana, ex capo della diplomazia europea che forse sarà presente alle cerimonie – si illuse di aver risolto la querelle nucleare iraniana. Il compromesso che, secondo una ricostruzione del Nyt, Rohani avrebbe strappato a Khamenei nel corso di una telefonata avvenuta davanti agli interlocutori europei (l’idea che la Guida suprema possa farsi imbeccare da un suo negoziatore, per quanto autorevole, per giunta sotto gli occhi indiscreti di plenipotenziari stranieri è davvero surreale), è utile a calmare le acque ma non è mai stato ritenuto definitivo, tanto che l’Iran tenne a sottolineare la dicitura “accordo volontario e temporaneo” e non fu solo una difesa di sovranità nazionale. Nel 2006 è stato proprio Rohani a chiarire l’ambiguità del patto: “Mentre parlavamo con gli europei a Teheran, installavamo l’equipaggiamento necessario nella centrale di Isfahan. In effetti, creando un clima di calma e serenità, siamo riusciti a completare il lavoro” (la conversione dell’uranio da yellowcake a hexafluoride, ossia il gas che può andare nelle centrifughe). Gli Stati Uniti supplicavano gli europei di non credere all’Iran – si è vantato Rohani – ma loro rispondevano: “Noi ci fidiamo di loro”. I fan di Rohani nel vecchio continente giustificano le sue parole ricordando che, con l’ascesa di Ahmadinejad, il neo presidente era stato messo all’indice come colui che aveva rinunciato agli inalienabili diritti atomici iraniani senza ricevere nulla in cambio, doveva pur difendersi, e non vedono perché non riammetterlo nel salotto buono per discettare di questioni internazionali e ridere con lui dei suoi anni a Glasgow proprio come durante l’ultima rimpatriata con Fischer evocata in questi giorni da Paul von Maltzahn, già ambasciatore tedesco a Teheran. Come dice Vali Nasr, ex consigliere dell’ambasciatore americano Richard Holbrooke e professore alla Fletcher School of Law and Diplomacy della Tufts University, per vendere un nuovo accordo a Khamenei e ai pasdaran, Rohani dovrebbe riuscire ad allentare la morsa delle sanzioni, “ottenere non soltanto parti di ricambio per aerei o altre caramelle, ma concessioni significative”. A quel punto, se il presidente avrà avuto successo, Khamenei e i falchi si prenderanno il merito di averlo appoggiato; se fallirà, potranno scaricarlo e mettere a tacere le voci che invocano moderazione. Nel frattempo tra la speranza e l’inerzia si discute di nomi, perché il peso delle profferte occidentali dipenderà anche dalla credibilità del nuovo team per i negoziati sul nucleare. Le indiscrezioni volevano Ali Akbar Velayati papabilissimo alla successione di Said Jalili. “Quando fai tre passi e ti aspetti che la controparte ne faccia cento è chiaro che non vuoi andare avanti”, aveva detto durante un dibattito elettorale condividendo le critiche a Jalili di Rohani. Il prescelto però, secondo una lista ufficiosa diffusa dall’Isna, sarebbe Mohammed Forouzandeh, ex pasdaran, ex ministro della Difesa e soprattutto uomo d’affari scaltrissimo. Meno noto di Velayati, Forouzandeh non può non godere della benevolenza di Khamenei, visto che guida la Fondazione degli oppressi, una delle istituzioni caritatevoli più potenti del paese con interessi che vanno dal settore petrolchimico, a quello navale, alle costruzioni. Gli altri nomi di rilievo nel risiko presidenziale sono agli Esteri quelli di Mohammed Javad Zarif, diplomatico esperto, già ambasciatore all’Onu di èra khatamiana e per questo rassicurante agli occhi degli occidentali; al Petrolio Bijan Zanganeh, altro reduce di epoca riformista annoverato come un tecnico abile; alla Cultura, Ali Jannati, ambizioso figlio del capo del Consiglio dei guardiani e alleato di lungo corso di Hashemi Rafsanjani. Quali che siano i volti del dream team, la sfida è improba: le sanzioni hanno dimezzato le esportazioni petrolifere, colpito la Banca centrale e affossato molte industrie. Secondo l’Isna la produzione automobilistica ha subìto una contrazione del 50 per cento e nell’ultimo anno 122 mila operai del comparto sono rimasti senza lavoro. Il riyal è debole, l’inflazione alle stelle, al 42 per cento ha puntualizzato il neo eletto, il 10 per cento in più di quanto dichiarato dall’Amministrazione Ahmadinejad. Teheran è un’intoccabile per le istituzioni finanziarie internazionali e gli investitori fuggono. Per rimanere al settore automobilistico, a causa delle sanzioni, Renault ha denunciato perdite per 327 milioni di dollari nel primo semestre del 2013 (Renault non ha stabilimenti in Iran ma assembla veicoli con kit prodotti altrove, ma con le attuali restrizioni sulle transazioni finanziarie con Teheran non può toccare i suoi utili). L’uomo della provvidenza sa che, senza un’inversione di tendenza, la luna di miele con l’elettorato potrebbe finire presto, così fa quello che può per allungare i tempi e cavalca l’onda degli umori popolari. “La felicità è un diritto del nostro popolo”, ha dichiarato nel suo primo discorso post elettorale. Impermeabile all’orrore dei falchi scioccati dall’eco sacrilega della dichiarazione d’indipendenza americana, Rohani insiste a proporre la sua faccia da “poliziotto buono” convinto che imporre con la forza la morale rivoluzionaria sia deleterio, non tanto per un subitaneo attaccamento ai valori del secolo dei lumi (un’adesione che la sua biografia del resto non lascia sperare) quanto per una valutazione spassionata riguardo ai costi e ai benefici della violenza. Secondo Rohani un regime solido ed efficiente può reggere solo abbassando il tasso di infelicità. Il Guardian ha messo in fila le gioie collezionate dagli iraniani dal giorno della sua vittoria: i giornalisti Massoud Bastani e Mahsa Amr Abadi, marito e moglie imprigionati per “sedizione” dal 2009 e separati quasi ininterrottamente da quattro anni, sono stati liberati insieme e fotografati abbracciati e sorridenti come una coppia qualsiasi. Altri dissidenti hanno ottenuto dei permessi e alcuni detenuti politici in attesa di processo sono stati rassicurati dalla promessa di sentenze light. Venticinque collaboratori di Bbc Farsi accusati di propaganda anti regime sono stati prosciolti e la polizia morale nelle strade pare come addormentata. Nel frattempo la reporter Fariba Pajou è stata arrestata, ma il bicchiere resta mezzo pieno, come se la vertigine di giugno con quei balli e quei canti e gli inni per Moussavi e Karroubi nelle strade con la polizia che restava a guardare, avessero scacciato il senso della realtà assieme alla paura. Eppure, mentre lo squalo Rafsanjani si gode il trionfo, Khatami, che forse non riuscirà a partecipare alle cerimonie di insediamento perché è accusato dai falchi di essere troppo vicino ai sedizionisti, avverte: “Il presidente non può fare miracoli”, e pare preoccupato, forse perché non è più il faro del riformismo illuminato o perché sa che il piedistallo su cui è stato innalzato Rohani è altissimo e la caduta potrebbe rivelarsi rovinosa. La sensazione che la felicità degli iraniani sia una bolla destinata a scoppiare presto fa capolino nelle vignette, su Facebook e Twitter. L’espressione “Rohani mochakerim” (Rohani ti siamo grati) viene usata ironicamente a corredo di qualsiasi evento positivo: ho trovato un paio di scarpe in saldo “Rohani mochakerim!”, stasera prende il satellite “Rohani mochakerim!, l’inflazione è già scesa allo zero per cento “Rohani mochakerim!”. Un blogger ha riassunto lo spirito del tempo: “Prima di giurare non è che Rohani può spiegare agli iraniani che è un presidente e non Harry Potter?”.
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