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La Stampa-Il Foglio Rassegna Stampa
30.07.2013 Iniziano i colloqui a Washington
Maurizio Molnari, Mattia Ferraresi e una frecciata a Ugo Tramballi

Testata:La Stampa-Il Foglio
Autore: Maurizio Molinari-Mattia Ferraresi
Titolo: «Israeliani e palestinesi di nuovo allo stesso tavolo- Ecco quel che la lobby liberal J Street sussurra a Obama»

Iniziano i colloqui israelo-palestinesi a Washington, riprendiamo oggi, 30/07/2013, gli articoli di Maurizio Molinari dalla STAMPA, di Mattia Ferraresi dal FOGLIO.  Non riprendiamo quello di Ugo Tramballi sul SOLE24ORE, solita aria fritta, tranne una frase del pezzo, che Tramballi scrive per non smentirsi, eccola:
"
Perfino Bibi Netanyahu ora dice che per Israele 'la pace è una scelta strategica'. Anche Abu Mazen e Fatah capiscono di dover affeontare le illusioni di vittoria che avevano venduto ai palestinesi".


Complimenti Tramballi, duro, anche se menzognero, con Netanyahu, affettuosamente vicino a Abu Mazen, che dovrà affrontare nuovamente altre illusioni di ... vittoria. Perchè poi 'vittoria' lapsus freudiano ? non devono fare la pace, quindi un compromesso ? Perchè allora 'vittoria' per Abu Mazen ? Attento Tramballi, certe cose si pensano ma non si scrivono, altrimenti come farà a presentarsi ancora come equilibrato ?

La Stampa-Maurizio Molinari:" Israeliani e palestinesi di nuovo allo stesso tavolo"

Con una cena dopo il tramonto, per rispettare il Ramadan dei musulmani, sono iniziati ieri sera a Washington i primi colloqui diretti dal 2010 fra israeliani e palestinesi. Ospiti del Segretario di Stato John Kerry, affiancato dal neo-capo negoziatore americano Martin Indyk, attorno al tavolo si sono ritrovati gli israeliani Tzipi Livni e Yithak Molco assieme ai palestinesi Saeb Erakat e Mohammed Shtayyeh.

Per il presidente americano Barack Obama si tratta di «un momento promettente verso una pace possibile e necessaria» ma avverte che «servono buona fede e determinazione per riuscire». La prudenza si ritrova anche nei commenti di Kerry, che parla di «un negoziato di mesi», e di Indyk, veterano del Medio Oriente nell’Amministrazione Clinton, secondo il quale si tratta di «una sfida enorme».

A conferma della scelta di procedere a piccoli passi l’incontro di Washington - che include oggi una sessione di lavoro al Dipartimento di Stato - ha lo scopo limitato di raggiungere un’intesa su agenda e modalità dei negoziati, ovvero date e località degli incontri, canali di comunicazione fra le parti e calendario dei temi da affrontare. Se le sei missioni svolte da Kerry in Medio Oriente dall’indomani del viaggio di Obama hanno portato all’accordo sulla necessità di negoziati sui quattro maggiori contenziosi confini, sicurezza, status di Gerusalemme e rifugiati - si tratta di decidere da dove cominciare.

Tanto basta per far emergere i disaccordi, perché mentre i palestinesi vogliono iniziare dalla definizione dei confini e dal congelamento degli insediamenti, per gli israeliani il primo tema deve essere la sicurezza. Da qui la prudenza dei protagonisti.

Livni, ministro della Giustizia israeliano e capo negoziatore, parla di «cautela e speranza». Hanan Ashrawi, portavoce palestinese, indica «difficoltà superiori a quelle dei precedenti negoziati» per «le divisioni fra palestinesi di Cisgiordania e Gaza» come per «la presenza di partiti di estrema destra nel governo Netanyahu».

A sottolineare le debolezze del premier israeliano e del presidente palestinese Abu Mazen è David Makovsky, apprezzato analista di Medio Oriente del «Washington Institute», secondo il quale «non sono leader come Begin, Sadat o Rabin, in grado di guidare il popolo, ma governanti vulnerabili, costantemente alla ricerca di equilibrio fra costi e benefici nella scelte da fare».

Tale vulnerabilità è dimostrata dall’accordo sulla liberazione di 104 detenuti palestinesi da parte di Israele: Abu Mazen l’ha ottenuta come pre-condizione per i colloqui ma Netanyahu, aspramente contestato per aver incluso autori di attentati e omicidi, afferma che «saranno liberati nel corso dei negoziati» ,che potrebbero durare 6-9 mesi.

Dennis Ross, ex consigliere per il Medio Oriente degli ultimi tre presidenti Usa, ritiene che ad aiutare il negoziato potrebbe essere «la situazione regionale», segnata dall’instabilità: «tutti i maggiori attori hanno seri problemi cui far fronte» e dunque

«Israele e palestinesi sono lasciati soli a fronteggiare il loro contenzioso, con meno rischi di interferenze» rispetto al passato.

Nelle indiscrezioni che rimbalzano dagli opposti campi vi sono frammenti di novità: gli israeliani sarebbero favorevoli ad accettare una presenza internazionale lungo la Valle del Giordano e i palestinesi accettano il principio di scambi di territori rispetto alla linea di confine del giugno 1967.

Il Foglio-Mattia Ferraresi: " Ecco quel che la lobby liberal J Street sussurra a Obama "

                                                            Mattia Ferraresi

 Nella vasta schiera dei pessimisti sul processo di pace fra israeliani e palestinesi non c’è J Street, la lobby americana pro Israele che da sinistra sostiene una conclusione diplomatica del conflitto e immancabilmente attira accuse di tradimento da parte dell’establishment filo israeliano. Un paio di settimane fa il direttore esecutivo di J Street, lo stratega democratico Jeremy Ben-Ami, ha riversato la sua rabbia in un articolo pubblicato dal New York Times. Ben-Ami sostiene che una eterogenea coalizione che si estende da Gerusalemme a Washington ha lavorato con zelo per screditare le manovre con cui il segretario di stato, John Kerry, ha riportato al tavolo delle trattative gli inviati israeliani e palestinesi. La coalizione dei “naysayers”, quelli che dicono sempre no, sostiene che non vale nemmeno la pena tentare, “ma che cosa avrebbero detto alle personalità che hanno affrontato le più grandi controversie dell’umanità? Cosa avrebbero detto a Martin Luther King, a Nelson Mandela o a Gandhi? Non vi scomodate, tanto le forze contro cui combattete sono troppo potenti? Non perdete tempo?”, ha scritto Ben- Ami. In un’intervista al magazine New Republic, punto di riferimento degli ebrei liberal americani, Ben-Ami spiega che il nuovo round di dialoghi promossi da Washington non è un motivo sufficiente per esultare (“se la soluzione dei due stati fosse semplice da realizzare l’avremmo già fatta”) ma le difficoltà non giustificano i sentimenti umbratili che circolano nella galassia filo israeliana a Washington e dintorni. “L’essenza del sionismo – dice Ben- Ami – consiste nell’avere uno stato. E al momento Israele non ha confini e non è chiaro che cosa il resto del mondo riconosce come stato. Se Israele vuole continuare a mantenere i suoi territori, deve concedere diritti a tutti quelli che ci vivono”. E’ l’essenza di quello che il direttore di J Street chiama “moderazione passionale”, una specie di centrismo sionista che dalla fondazione della lobby, nel 2008, si è incrociato spesso e volentieri con le ragioni dei detrattori di Israele. Coperta da una facciata sulla quale sono affisse le ragioni della “two state solution” e le necessità di Israele di garantire la sicurezza del proprio territorio, J Street si è allineata spesso con le critiche più convenzionali al governo di Gerusalemme: ha fatto pressioni sull’Amministrazione Obama per non porre il veto a una condanna dell’Onu contro Israele chiesta a gran voce dai palestinesi e dalla Lega araba, ha invitato alle conferenze annuali i più accesi avvocati del boicottaggio nei confronti degli insediamenti israeliani. Lo stesso Ben-Ami ammette che non compra i prodotti delle colonie perché si sente “a disagio a dare sostegno economico agli insediamenti”, e contemporaneamente specifica che il “bds” (sigla che sta per “boicottare, disinvestire e sanzionare”) non è la linea ufficiale di J Street. Quest’anno l’ospite d’onore della conferenza è Peter Beinart, autore del libro “The Crisis of Zionism”, e avvocato del boicottaggio delle colonie come unico mezzo per ottenere un accordo di pace che bilanci la sicurezza israeliana e i diritti dei palestinesi. Le connessioni di J Street hanno provocato una spaccatura profonda con le storiche associazioni filo israeliane, su tutte l’Aipac, e hanno convinto diversi democratici al Congresso a tagliare i ponti con la lobby di Ben-Ami. Chi non ha abbandonato J Street, invece, è George Soros, generosissimo finanziatore dell’iniziativa. L’appoggio di J Street al tentativo di Kerry, altrimenti immerso in una coltre di scetticismo, è il riflesso di un dibattito che ribolle a Washington fra gli avvocati delle concessioni israeliane per raggiungere un accordo duraturo e chi è convinto che quello attorno al tavolo delle trattative sia soltanto un gioco tattico per spillare concessioni, mentre fra la Casa Bianca e il Palazzo di vetro Israele assiste allo spettacolo dell’erosione della propria autonomia. E intorno ai suoi confini si agitano forze bellicose.

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