Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 29/07/2013, a pag.11, con il titolo "Siria, Al Qaeda si rafforza nella guerra fra i ribelli", il commento di Paolo Mastrolilli sulla crisi siriana.
Paolo Mastrolilli
Dall’esterno sembra un ufficio anonimo, come ce ne sono centinaia a Washington. Appena entri, però, ti ritrovi davanti a muri tappezzati con le mappe della Siria, cartine colorate delle città, e stanze dotate di collegamenti sicuri per parlare con informatori nascosti nei luoghi più pericolosi della guerra civile. Siamo in uno dei centri dove l’intelligence americana studia l’offensiva contro Assad 24 ore al giorno.
L’opposizione siriana è una galassia litigiosa e frammentata, in cui alleati e nemici cambiano ogni settimana. I jihadisti di Jabhat al Nusra ne stanno approfittando, impegnandosi nella fornitura di assistenza e servizi alla gente per conquistarne il consenso, sul modello di Hamas a Gaza ed Hezbollah in Libano. Tutto questo complica terribilmente le opzioni dei Paesi occidentali che vorrebbero far cadere il regime: se la strada è consegnare più armi ai ribelli, a chi darle senza rischiare effetti boomerang? Se bisogna trattare, chi ha abbastanza seguito da meritare un posto al tavolo? Se invece la soluzione è l’intervento armato, con chi vale la pena allearsi?
Il primo punto che preoccupa l’intelligence americana è proprio la situazione estremamente confusa: «I buoni - spiegano alcuni analisti impegnati sul terreno - cambiano ogni settimana. Gli oppositori con cui lavoravi ieri, domani fanno un’alleanza con i tuoi nemici». Un esempio su tutti, molto significativo. Nelle settimane scorse alcuni sunniti, con cui l’intelligence Usa collaborava contro l’alleanza tra gli sciiti legati all’Iran e gli alawiti di Assad, si sono praticamente vantati che l’ambasciatore americano in Libia Chris Stevens era stato ucciso dai loro uomini a Bengasi. Tanto per complicare la situazione, poi, questi terroristi sono gli stessi che gestiscono il traffico delle armi dalla Libia agli oppositori sunniti in Siria.
Il Free Syrian Army e la Syrian Opposition Coalition non sanno gestire i territori liberati, e gli islamici ne approfittano. Spesso si combattono tra loro, dopo aver scacciato i governativi, per il controllo delle città. Però al Nusra, che sarebbe la versione siriana di al Qaeda in Iraq, ha capito che per conquistare il consenso deve comportarsi in maniera intelligente, e quindi invece di tagliare gole scorta i bambini a scuola, distribuisce gelati e benzina gratis, pulisce le strade, riapre gli ospedali. La gente nota la differenza e appoggia i jihadisti, anche se non condivide la loro ideologia. Ad Aleppo, poi, ha preso molto potere la Sharia Commission, di cui fanno parte gruppi armati come Liwa’ al Tawhid, Ahrar al Sham, al Fajr al Islam, Saqour al Sham, Saqour al Islam e Ahrar Souriya. Il presidente è un trentenne, Hassan Kayari, ma dentro ci sono anche laureati alla prestigiosa Università al Azhar del Cairo, come lo sceicco Ahmed Zuheryati. In teoria la Shura non è amata dagli abitanti, perché è una struttura molto conservatrice che ricorda l’inquisizione. Però svolge un ruolo positivo come tribunale, rimpiazzando il sistema giudiziario sparito, e quindi porta consenso agli estremisti.
L’intelligence americana è quasi più preoccupata da questo fenomeno, che non dalla forza militare di Assad, perché se vincessero questi ribelli la Siria diventerebbe uno stato islamico nemico dell’Occidente.
Sul piano bellico, ormai siamo in una condizione di «resistance warfare», come la resistenza che avviene nei paesi occupati e può durare anni. L’ideologia domina. Il regime controlla le città, gli oppositori le campagne. I sunniti combattono gli alawiti e gli sciiti per il governo della Siria, mentre i curdi e i salafiti combattono per distruggere e smembrare il Paese. Alawiti e cristiani sostengono il regime per mancanza di alternative, ma non amano Assad. Sul terreno però operano anche dei martiri infatuati del leader, che si chiamano Assadyeen e sono spietati.
Il coinvolgimento russo e l’intervento di Hezbollah sono i fattori che hanno cambiato gli equilibri, provocando la ripresa del regime negli ultimi tempi. Ora però i ribelli stanno attaccando con più efficacia i convogli sulle strade e hanno recuperato posizioni. Aleppo è per il 50% nelle mani degli oppositori, per il 30% contesa, e per il 20% del regime, ma questo 20% comprende le zone più strategiche come l’aeroporto e l’accademia militare. Gli analisti Usa prevedono che alla fine cadrà, mentre Assad darà tutto per non mollare Homs. La chiave della sua sopravvivenza infatti è mantenere aperto il corridoio da est a ovest, che gli garantisce il controllo delle coste, e quello da nord a sud che unisce appunto Damasco a Homs.
Dare tutto significa anche continuare a puntare sulle armi chimiche. Il primo utilizzo registrato è avvenuto il 23 dicembre scorso, quando medici e i infermieri hanno detto di aver curato persone colpite dal gas sarin. Il regime lo usa con parsimonia, per terrorizzare la gente, ma non esagera per evitare l’intervento americano. Butta in strada un po’ di Gg, ammazza una cinquantina di persone, e due ore dopo è tutto finito: le case non sono distrutte e la gente può circolare senza maschere.
Anche l’opposizione è preparata tecnologicamente: usano i telefonini
Android per guidare il lancio dei loro missili, e hanno costruito piccoli carri armati per andare nei vicoli delle città, che guidano attraverso telecamere e sistemi presi dai videogiochi.
In questo quadro gli elementi che possono cambiare la dinamica sono cinque: l’accelerazione dell’intervento di Hezbollah; più aiuti da Russia e Iran; l’aumento dell’arrivo di volontari stranieri sunniti, che è già senza precedenti e minaccia poi di provocare un’ondata terroristica in Europa; una contaminazione in Turchia provocata dai curdi, che già vengono attaccati di Ankara nel nord della Siria; un allargamento a Giordania e Libano, che trasformerebbe la guerra civile in guerra regionale. L’invio di armi Usa, viste le condizioni dell’opposizione, è molto complicato perché potrebbe aiutare i nemici degli americani. Obama naturalmente può decidere di sbloccare lo stallo con un intervento militare diretto. Ma questo scenario, nel caso migliore, rilancia la preoccupazione degli analisti per quello che chiamano il «day plus 1»: chi terrà in piedi la Siria, il primo giorno senza Assad?
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