Leggendo gli articoli di politica estera del SOLE24ORE ci convinciamo sempre di più che l'organo della Confindustria rende inutili, superflue, le analisi di Manifesto e Unità. Il pezzo di Alberto Negri di oggi, 27/07/2013, a pag. 16, con il titolo "Economie arabe in macerie" lo dimostra, se per caso qualcuno ritenesse il nostro paragone esagerato.
L'unica cosa corretta è il titolo, ma Negri, invece di chiedersi perchè, ne ignora le cause e getta la responsabilità sull' Occidente. Non gli passa per la mente che tutti quegli stati dei quali racconta le miserie sono retti da regimi islamici, nessuno dei quali è mai riuscito a migliorare le condizioni economiche di vita dei propri cittadini.
Che la Confindustria sia una associazione che difende gli interessi economici dei propri iscritti ci sembra ovvio, ma che il giornale che la rappresenta pubblichi un articolo come quello di Alberto Negri ci pare il massimo del degrado giornalistico. Disinformazione pura, i giornali seri na avrebbero fatto al massimo una "opinione".
Confindutria Alberto Negri
Ecco l'articolo:
Scontri nelle piazze in Egitto agitate dal golpe dei militari, guerra civile in Siria e Iraq, la Tunisia scossa da un altro omicidio politico, la Libia sotto il ricatto delle milizie, il Libano in bilico nello scontro confessionale, la Palestina soffocata da un'eterna e ingannevole speranza: le società del Mediterraneo - 28o milioni di persone ( tra 20 e 40 anni, il 3o% sotto i 14 anni - sono sconvolte dall'instabilità come mai era accaduto negli ultimi cinquant'anni.
Questa non è più una primavera araba e neppure una transizione ma una resa dei conti accelerata che rischia di inghiottire gli Stati usciti dalla decolonizzazione.
Ma intanto sono le economie della sponda Sud che affondano e rendono ancora più profondo il baratro della povertà e del disagio, certo non l'ultima causa delle fratture politiche insieme alle divisioni religiose, etniche e confessionali.
% dei giovani sotto i 30 anni sono disoccupati, un egiziano su due vive con meno di due dollari al giorno. La crisi economica, incoraggiata anche dall'abile sabotaggio dei militari e dal vecchio regime, ha sbalzato di sella Morsi prima ancora della rivolta nelle piazze e dell'intervento del generale Al Sissi.
Anche qui in Europa, dove la crisi del lavoro è arrivata molto dopo rispetto alla sponda Sud, spesso non sappiamo bene cosa facciamo.
Guardiamo quasi sempre soltanto un lato della medaglia. Prendiamo la messa fuorilegge dell'ala militare degli Hezbollah, che in Libano è anche un partito di governo, decisa dalla Ue nonostante i malumori dell'Italia che tende a preservare da cattive sorprese il suo contingente militare nel Sud del Libano.
Le consenguenze economiche di questo bando al Partito di Dio sciita che combatte in Siria al fianco del dittatore Bashar Assad sono in realtà molto serie. Il Libano - quattro miliondi di abitanti di cui il 25-30% sono profughi siriani e palestinesi che combattono con i libanesi per un posto di lavoro residuale - è un Paese assai vulnerabile.
Gli Stati del Golfo, che sostengono i gruppi islamici smunti, hanno cominciato a ritirare i permessi di lavoro alla popolazione sciita libanese le cui rimesse secondo la Banca centrale di Beirut costituiscono almeno il 10% del Pil.
Un altro duro colpo per un'economia già in ginocchio per il crollo degli investimenti stranieri e del turismo dal Golfo.
Mettiamo sanzioni senza valutarne l'impatto. La Siria con la guerra civile ha fatto un salto indietro di 35 anni: più della metà della popolazione - 22 milioni-vive sotto la soglia di povertà. Dall'inizio del conflitto sono stati persi 2,3 milioni posti di lavoro e il tasso di disoccupazione è salito al 49%, l'indice dei prezzi al consumo è aumentato dell'85% e la lira siriana si è deprezzata sul dollaro del 300 per cento. Mentre il sistema sanitario collassava sono state imposte sanzioni internazionali che bloccano l'importazione di farmaci salvavita, equipaggiamenti e pezzi di ricambio: l'ultimo bilancio Onu dice che le vittime sono oltre 100 mila e i feriti più di 250 mila.
Diciamo che vogliamo sostenere la sponda Sud ma in realtà l'affondiamo.
Gli aiuti arrivano soltanto a chi ci piace o ci torna utile e spesso sbagliamo anche direzione, scoprendo con ritardo che i ribelli siriani non sono tutti uguali, accettando che Paesi come l'Arabia Saudita e il Qatar finanzino i peggiori assassini di marca islamica: eppure i monarchi del Golfo sono nostri alleati, investitori riveriti e corteggiati. Dopo avere foraggiato salafiti e jihadisti - in Egitto, Iraq, Siria, Libia - con l'intenzione di tenerli lontano da casa loro, le monarchie arabe rimpinguano adesso il bilancio del nuovo Egitto in mano ai militari: gli americani, per salvare la faccia e mostrare che hanno ancora qualche influenza, hanno appena rinviato la consegna di quattro caccia F-16 ma si guardano bene dal defmire colpo di Stato quanto è avvenuto al Cairo.
Si immergono nel negoziato israeliano-palestinese per evitare di guardarsi intorno sulle macerie di un Medio Oriente dal quale, dopo i recenti disastri, vogliono fuggire perché hanno sempre meno bisogno del suo petrolio.
Alla Tunisia dell'appassita rivoluzione dei gelsomini, che certo non ha un valore strategico pari all'Egitto, non arriva quasi nulla, neppure una visita di cortesia: ma i suoi disoccupati e la ripresa economica del più civile Paese della sponda Sud dovrebbero interessarci.
Eppure qualche segnale positivo dall'Italia viene, come dimostra il fresco investimento della Recordati.
In Libia la Nato dopo avere fatto la guerra a Gheddafi si è defilata lasciando che sia l'Italia a occuparsene con qualche flebile sostegno europeo. Qui i leader delle milizie hanno iniziato un accerchiamento di Tripoli e delle principali città per spaventare la popolazione e mandare un messaggio chiaro: eventuali provvedimenti di disarmo forzato da parte del governo non sono graditi.
Gli interessi dei miliziani si stanno quindi saldando con quelli dei gruppi islamici più radicali. Sarà con loro che dovremo trattare un giorno i nostri contratti enegetici e le commesse?
L'Europa, se ancora esiste, dovrebbe mettersi al tavolo e ragionare le sue mosse.
Anche nei confronti dell'Iran, Paese con cui l'Italia - ma non solo - ha sempre avuto ottimi rapporti economici e culturali. È un periodo poco brillante per la nostra immagine internazionale: proviamo a risollevarla con qualche inziativa autonoma e di buonsenso, altrimenti anche i nostri vicini della sponda Sud penseranno che non contiamo davvero nulla.
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