Il compito di titolare gli articoli non è dei più facili, è vero, ma se si legge con attenzione il pezzo, si evitano gli strafalcioni. Come è successo oggi, 25/07/2013, al pezzo di Paolo Mastrolilli sulla STAMPA a pag.14, che è stato titolato " Addio al New York Times, Silver, l'uomo dei Big Data cacciato dai vecchi cronisti". E' vero il contrario, basta leggere l'articolo. Il NY Times ha fatto di tutto per trattenere Nate Silver al giornale, invano, perchè è stato lo stesso Silver a decidere di andarsene.
Il pezzo è interessante, un altro ritratto che illumina le grandi possibilità di auto-realizzazione esistenti negli Stati Uniti. Il mito del posto garantito a vita non è più un valore assoluto, come da noi, in Usa la mobilità è un fattore di crescita personale.
Nate Silver
Diciamo tanto che il mondo è cambiato, la tecnologia rimodella le nostre vite, il futuro dell’informazione è digitale, e poi il «New York Times» espelle come corpo estraneo il giornalista che porta più traffico al suo sito internet. Insanabile scontro culturale tra vecchio e nuovo? Giusto scetticismo verso chi riconduce tutto ai numeri? Follia editoriale?
La storia di Nate Silver racconta tutto questo, e di più. Nate è nato 35 anni fa in Michigan, da padre ebreo e madre gentile, perciò ama definirsi «mezzo ebreo» e interamente gay. Quando aveva sei anni i Detroit Tigers vinsero il campionato di baseball, e cambiarono la sua vita. Si innamorò dello sport nazionale americano, e soprattutto delle sue statistiche, che mettono al bando le ciance e delegano ai numeri l’analisi sulle probabilità di vittoria. Nate amava perdutamente i numeri e aveva studiato economia alla University of Chicago e alla London School of Economics. Questo successo accademico lo aveva portato un po’ fuori strada, procurandogli un posto di consulente a Chicago per la Kpmg: «La cosa che rimpiango di più nella mia vita: avere perso quattro anni a fare un lavoro che non mi piaceva».
Mentre perdeva tempo con l’economia, però, continuava a coltivare la passione statistica per il baseball. In maniera professionale, al punto di inventarsi il Player Empirical Comparison and Optimization Test Algorithm (Pecota), un sistema per prevedere le prestazioni future dei giocatori in base al loro passato. L’idea aveva funzionato, era riuscito a venderla a Baseball Prospectus, e così aveva mollato la Kpmg per diventare analista sportivo.
Sogno di una vita realizzato? In teoria sì, ma poco dopo a Nate era venuta pure la passione per la politica, ereditata dal padre professore. Così il primo novembre del 2007, mentre partiva la campagna presidenziale, aveva iniziato a pubblicare un diario sul blog «Daily Kos», firmato con lo pseudonimo Poblano. Obiettivo: applicare il suo metodo alle competizioni politiche. L’idea gli era venuta mentre era bloccato all’aeroporto di New Orleans, e si era irritato ad ascoltare le valutazioni dilettantistiche dei giornalisti: «Inutili». Lui invece aveva messo i numeri al lavoro, incrociandoli con sondaggi e demografia, e aveva inventato il sito «FiveThirtyEight», prendendo il nome dai voti elettorali in palio nelle presidenziali. Era diventato un fenomeno, guadagnandosi anche gli elogi del conservatore William Kristol sul «New York Times».
Alle elezioni del 2008 aveva azzeccato il pronostico di 49 stati su 50, Indiana esclusa, attirando l’attenzione dello stesso neo presidente Obama. Il resto è storia. Due anni dopo il «Times» aveva reclutato il suo blog, che nel massimo splendore era arrivato a convogliare il 71% del traffico dell’intero sito, e nel 2012 il numero degli stati previsti con precisione era salito a 50 su 50.
Venerdì Nate ha annunciato alla direttrice Jill Abramson che rinunciava alla «Signora in Grigio», per passare al canale televisivo sportivo «Espn», di proprietà del gruppo Disney. Era un anno che la trattativa andava avanti e, nonostante i tentativi di tenerlo fatti dall’editore Sulzberger in persona, ha deciso di andarsene. Il motivo è stato indicato nell’offerta che non poteva rifiutare: ritorno all’amato sport, ma libertà di occuparsi di qualunque tema, con un’intera redazione ai suoi ordini e un sacco di soldi. Poi apparizioni in tv anche con la «Abc», soprattutto sotto elezioni, e uno spazio persino la notte degli Oscar.
Sembrava tutto logico, fino a quando la «Public Editor» del Times, Margaret Sullivan, ha scritto che «Silver era un elemento di disturbo nella redazione, non si è mai integrato nella cultura del «New York Times». Peggio: molti colleghi lo disprezzavano, perché legati al vecchio giornalismo. Alla faccia del mondo che cambia.
Per inviare alla Stampa la propria opinione, cliccare sulla e-mail sottostante