Arriva in Israele la narrativa di fantascienza, lo racconta Elena Loewenthal recensendo il libro di Assav Gavron, uscito in Italiano, sulla STAMPA di oggi, 22/07/2013, a pag.35.
Sullo stesso quotidiano, a pag.18, Francesca Paci riferisce del successo di una sit-com in onda su una Tv israeliana, che pare abbia avuto successo, protagonisti arabi ed ebrei in vicende condominiali. Lo commentiamo pi+ avanti, prina dell'articolo.
Elena Loewenthal: " Israele, più degli arabi farà paura la sete"
Assaf Gavron Elena Loewenthal
Siamo nel 2067 – in fondo, a un passo di tempo da qui. Il mondo è prevedibilmente ipertecnologico e ovunque teleguidato. La gente porta un microchip sottopelle che consente transazioni finanziarie, contatti sociali, gestione domestica con la sola guida del pensiero. Il mondo si guarda attraverso un neanche troppo futuristico paio di occhiali che si portano addosso per accorciare distanze – o allungarle, tutto dipende dalle esigenze. In barba agli assetti geopolitici che possiamo immaginare di qui, cinquanta e rotti anni prima (un sospiro dell’universo), le grandi potenze in gioco, praticamente esclusive padrone del mondo, sono Giappone, Cina (ma fin qui più o meno ci siamo) e Ucraina. Il resto del mondo è puro suddito. In questo quadro, Israele è ridotta a una minuscola, assediata e fragile enclave, dentro uno Stato palestinese sempre più imperialista.
Questo lo sfondo, anzi il vivo contesto entro il quale si svolge l’avvincente Idromania , romanzo a mezza strada tra l’horror e la fantascienza del talentuoso israeliano Assaf Gavron, in uscita presso La Giuntina (traduzione di Shulim Vogelmann, pp. 232, € 15). Gavron, classe 1968, è un intellettuale eclettico, traduttore dall’inglese – è lui che porta in ebraico Salinger, Philip Roth e Safran Foer. Ha già scritto molto, tra l’altro la storia di due ragazzi, uno palestinese e uno israeliano, uscita per Strade Blu Mondadori nel 2009 ( La mia storia, la tua storia ).
Ma questo nuovo romanzo, premiato in Israele e già tradotto in svariate lingue, è un’avventura narrativa oltre che l’apripista di un genere letterario affatto nuovo, per l’ebraico. Un miscuglio di fantascienza e iperrealismo, il tutto condito da un sapiente uso delle ossessioni comuni, non solo in Israele ma in tutto il Medio Oriente e oltre. Perché questo mondo che Gavron raffigura a cornice di una storia incalzante di affetti e delitti, malavita e trame internazionali, sarà pure ipertecnologico ma è afflitto da una mancanza d’acqua drammatica e inguaribile. Maya, ad esempio, che è l’eroina femminile, ha sempre una sensazione di sabbia in bocca. E sin dalle prime pagine del libro si è tanto assorti nella lettura quanto presi dall’irrefrenabile impulso di andare a chiudere meglio il rubinetto della cucina che sporadicamente gocciola: quel ticchettio ritmato passava inosservato, finché non si è cominciato Idromania … Alla sera, poi, lavandosi i denti si avrà l’accortezza di chiudere l’acqua durante l’operazione, in fondo perché sprecarla… Fantascienza, dunque? Mica tanto: in Israele su quasi tutti i rubinetti pubblici campeggia l’invito, anzi l’imperativo, a non sprecare quell’acqua che è il bene più prezioso, per tutti.
Ma torniamo al romanzo, dove una fitta trama si incastona in questo quadro inquietante di un mondo al tempo stesso ipertecnologico in modo strabiliante ma anche poverissimo, appeso al filo di una sussistenza minima. Maya, una donna prossima alla quarantina, è incinta. Ma suo marito, un ingegnere idraulico molto in gamba che ha scoperto il modo per sfruttare l’acqua piovana affrancando la gente dal giogo delle poche multinazionali che hanno il monopolio della sua distribuzione, è scomparso. Lei lo cerca ma neanche troppo, nel frattempo accetta l’offerta di un conoscente: ottenere il sofisticato microchip di un avvocato morto, disponendo con ciò di tutti i suoi averi.
Un’operazione sottocutanea ai limiti del lecito, ma che travolge Maya in un turbine in avventure, compreso il non troppo entusiasmante reperimento del suo Ido. Che si rivelerà un eroe non proprio integerrimo. Prima di rivederlo, Maya attraverserà una serie di luoghi e situazioni che completano l’affresco di un mondo futuribile dove si sta meglio sottoterra o sott’acqua (del mare) piuttosto che nella luce impietosa di un torrido sole. Teatro della storia è uno Stato d’Israele ridotto all’osso dove non ci sono più né Gerusalemme né Tel Aviv, dove Tiberiade è stata da poco messa a ferro e fuoco dal nemico. Non resta che Cesarea – non a caso scelta da Gavron come città residuale: qui ci sono i resti di un prodigioso acquedotto romano.
Il romanzo si legge d’un fiato. Se si è israeliani più che mai, certo, perché l’autore intercetta e dipana qui le due ossessioni fondamentali del paese: la paura di essere annientato da quell’immenso mondo arabo che ha tutto intorno. O, prima ancora, di morire di sete, tutti insieme. Ma anche il lettore europeo (o americano), all’ombra delle sue confortanti riserve idriche, ha di che farsi prendere dalla lettura. Un po’ per la trama avvincente e convincente, un po’ perché la tecnologia fantascientifica che domina il racconto è al tempo stesso inimmaginabile e familiare. E poi, forse soprattutto, perché lo spettro dell’aridità fa paura anche a noi, che sappiamo di essere fatti quasi tutti d’acqua e sappiamo che senza di essa non c’è vita. Basta gettare uno sguardo all’universo, alla desolazione dei pianeti che ci stanno intorno, e pensare con sgomento che un giorno o l’altro anche noi torneremo a essere così: polvere cosmica. Idromania ci avvicina a quel futuro lì, niente affatto fantascientifico, in fondo.
Francesca Paci: " La sit-com che unisce palestinesi e israeliani"
Non dubitiamo del successo della sit-com, la trama è comune a tante altre simili che vengono diffuse nelle tv di molti paesi, Italia compresa. Gli incontri-scontri tra famiglie sono sempre uno spettacolo popolare.
Due parole invece sullo sceneggiatore, Sayed Kashua, collaboratore di Haaretz, dove ha una rubrica fissa sul supplemento settimanale.
Kashua è un arabo israeliano, scrive in ebraico, pubblica romanzi tradotti in molte lingue, abita a Tel Aviv, è quel che si dice un intellettuale arrivato, famoso nel suo paese (Israele) e fuori. I pezzi che scrive ogni settimana vorrebbero essere ironici, le disavventure di una famiglia arabo-israeliana alle prese con i problemi della vita quotidiana, lo saranno pure, anche se il loro livello non ne avrebbe consentito la pubblicazione su un quotidiano così intellettuale come Haaretz, se non fosse che Kashua è arabo, a dimostrazione della linea politicamente corretta del giornale.
Ebbene, Sayed Kashua, proprio in quanto scrittore arabo-israeliano, venne invitato nel 2008 al Salone del Libro di Torino, Israele era l'ospite d'onore e festeggiava anche i 60 anni dalla fondazione dello Stato.
Kashua rispose che sarebbe mai sarebbe venuto a "festeggiare lo Stato che opprime il suo popolo".
Per essere uno scrittore pacifista, aperto al dialogo, pubblicato e onorato in Israele, si possono capire quegli israeliani che, come ha scritto Francesca Paci, "al suo nome storcono il naso".
Francesca Paci Sayed Kashua
Mentre il segretario di Stato americano John Kerry suda sette camicie per riportarli al tavolo dei negoziati, israeliani e palestinesi siedono già da tempo alla stessa ora davanti alla medesima sit-com di Channel 2 «Avoda Aravit», le avventure tragicomiche di un condominio in cui gli arci-nemici condividono una normalissima routine che sono ormai un appuntamento cult per i telespettatori senza frontiere.
«Ho scritto il testo sulla base della mia esperienza e quindi ruota intorno ad Amjad, un giornalista palestinese che lavora in un periodico israeliano, proprio come facevo io» racconta lo sceneggiatore arabo-israeliano Sayed Kashua che si appresta a battezzare la quarta serie in prima serata dopo aver vinto i maggiori premi del piccolo schermo.
Sul piano politico israeliani e palestinesi concordano solo sul discordare completamente, paladini entrambi della propria narrativa irriducibilmente inconciliabile con quella dell’altra parte. La vita di tutti i giorni però, racconta una storia differente di cui, che piaccia o meno ai rispettivi schieramenti, «Avoda Aravit» con il suo 30% di share è la testimonianza più tangibile.
Da principio, come prevedibile, la sit-com ha fatto storcere più d’un naso. La scena artistica di Tel Aviv pullula di attori, scrittori e performer di origini palestinesi ma quasi tutti preferiscono tenere un profilo basso anziché fare della propria carriera una bandiera del dialogo. E anche i giornalisti israeliani come Amira Hass che hanno scelto di lavorare dalla parte di Ramallah non sono esattamente ben visti a casa. Lo spettacolo di uomini e donne che parlano arabo su una delle principali emittenti israeliane al di fuori del tg ha sfidato parecchi tabù al suo debutto nel 2007, mentre Hamas capitalizzava la vittoria elettorale del 2005 occupando manu militari la Striscia Gaza.
«All’inizio la gente non apprezzava molto perché “Avada Aravit” parla di loro, ma poi l’umorismo nel trattare gli stereotipi ha preso il sopravvento» spiega il protagonista Norman Issa al quotidiano «YNet». Secondo lui la chiave del successo di pubblico è proprio nel mettere a fuoco le similitudini invece delle sempre troppo rimarcate differenze: «Sia gli ebrei che gli arabi hanno paura gli uni degli altri, la nostra sitcom li porta a guardarsi da vicino ridendoci su anziché affrontando temi seri». I cambiamenti politici, a volerli davvero, si realizzano assai prima di quelli culturali.
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