Su LA REPUBBLICA di oggi, 20/07/2013, a pag.44/45, con il titolo "Tel Aviv Football Club", Marco Mathieu intervista una seri di scrittori israeliani ultima generazione.
Tel Aviv, lo stadio
TEL AVIV- «Sono sempre stato appassionato di calcio: da ragazzino ero bravo, se fossi andato nella squadra giusta forse sarei diventato professionista». E invece il sorridente numero 10 («attaccante di ruolo») che incontriamo sul campo di Holon, periferia di Tel Aviv, è diventato scrittore: Assaf Gavron, 45 anni e sette romanzi già pubblicati, oltre a essere capitano di questa squadra particolare («Ci sono anche poeti e sceneggiatori, grazie al pallone tra noi si sono creati legami e progetti») è protagonista di quella che Maya Sela, 41 anni, firma culturale di Haaretz, non esita a definire «la nostra nuova scena letteraria». Da Gavron a Etgar Keret, il nome di maggiore successo, passando per Nir Baram, Dror Mishani e altri. «Usano una nuova lingua, più asciutta, contemporanea, quasi in contrapposizione a quella ingombrante e pomposa degli autori tradizionali», sostiene Sela. «Prima c’era un senso del dovere che attraversava la nostra letteratura, ora gli autori non avvertono più l’obbligo di scrivere la storia, ma più semplicemente una storia». Forse anche perché vivono quello che Gavron definisce «il sogno interrotto: come se la nostra generazione si fosse svegliata accorgendosi che la realtà è diversa da quel che ci aspettavamo». La conseguenza è che i loro libri risultano più personali, le loro vite più internazionali, influenzate dalla musica e dalla “pop culture”. «Va ricordato che questo è il Paese dove negli anni Sessanta i Beatles volevano venire a suonare», precisa la giornalista di Haaretz.
«Ma il primo ministro dell’epoca disse che non era possibile: le loro canzoni avrebbero corrotto la gioventù israeliana...».
Ma Tel Aviv, invece? «C’è chi dice che qui viviamo in una bolla e forse è vero», risponde Gavron. «Mentre noi parliamo, da Gaza sparano missili su qualche parte di Israele». Quasi come quel che lui stesso descrive in Idromania,
uscito in questi giorni in Italia per quelli di Giuntina (ma edito in Israele nel 2008 e precedente a The Hilltop che verrà tradotto l’anno prossimo da noi): un thriller ambientato in un futuro prossimo e immaginario, condizionato dalla mancanza di acqua, con lo stato ebraico ridotto ai minimi termini geografici. «Nella scrittura ho volutamente tolto le emozioni al concetto di stato di Israele e le ho attribuite alle persone», spiega. «Perché penso che la terra, chiunque ne detenga il controllo, il concetto stesso di nazione non sono così importanti. Quel che conta sono le persone e le loro vite».
Per raccontarci la sua, Etgar Keret, 45 anni — ultimo libro pubblicato "All’improvviso bussano alla porta" tradotto in Italia da Feltrinelli — ci aspetta a un tavolino del Mersand Cafè, dove Tel Aviv incontra la vista del mare. Lui è «fondatore e potenziale esterno di centrocampo» della squadra. «Nel 2007 uno scrittore tedesco, Klaus Doring, mi scrisse per organizzare una partita, ma in quel periodo ero molto impegnato, così presi i contatti ma infine chiesi ad Assaf, che in queste cose è più bravo di me, di occuparsene». Da allora, niente più pallone per Keret che, quando gli chiedi dello “strappo” avvenuto nella letteratura israeliana, risponde con due date. «Il periodo compresso tra gli accordi di pace di Oslo nel 1993 e l’assassinio di Rabin nel 1995: sembrava fosse possibile vivere in pace, smettemmo di essere soldati e diventammo esseri umani ». Come questo sia entrato tra le pagine dei libri, lo spiega così: «Oz, Yehoshua e Grossman erano parte integrante del paesaggio israeliano: mentre lo raccontavano lo definivano. Ho un grande rispetto per loro, ma da ragazzo mi ritrovavo a leggere libri i cui protagonisti erano sempre migliori di me. Inavvicinabili. Da qui la voglia di raccontare esistenze ai margini, storie minimali in cui i perdenti avessero un ruolo». E il conflitto, che attraversa e condiziona la società israeliana? «Nelle mie storie è lo sfondo. Incombente. Qui il problema è che ogni uomo, o donna, è stato addestrato per combattere e uccidere. Il mio agopuntore, la persona più pacifica e rilassata che possiate immaginare, per esempio: è stato nei reparti speciali, ogni notte attraversava il confine con il Libano per uccidere qualcuno. Questa è la nostra società, bipolare, che ora si stupisce perché scopre la violenza urbana, tra i ragazzi».
Quegli stessi che invadono ogni mattina le spiagge di Tel Aviv. Da Frishman Street a Banana beach. Dove incontriamo Nir Baram, in partenza per l’ennesimo viaggio a Berlino. E impegnato, dopo il successo di
Brave persone (Ponte alle Grazie, 2011) a finire il nuovo romanzo «in cui cerco di raccontare la globalizzazione attraverso le vicende di un gruppo di persone, tra Londra e il resto del mondo». Il viaggio, dunque: elemento che accomuna i
nuovi protagonisti della letteratura israeliana. Lo stesso Baram, 46 anni, sente «il bisogno frequente di uscire da quell’incertezza sul futuro che sembra attanagliare Israele». Ma sui temi trattati dalla letteratura ha le idee chiare. «I lettori più tradizionali vogliono storie realistiche e psicologiche, voi europei chiedete sempre del conflitto palestinese. In mezzo, ci siamo noi». A calcio Baram gioca da attaccante, anzi giocava: «Tre anni fa mi sono ritirato, dopo aver vinto contro i tedeschi e gli inglesi. Ero felice così».
Chi invece in squadra è entrato da poco è Dror Mishani: 38 anni, centrocampista. Ed esordiente con "Un caso di scomparsa" ( Guanda): «Sono un autore di genere, ho creato una serie che ha per protagonista un detective», ci spiega. «Roba che in Israele non esisteva». Perché? «Voglio scrivere in modo internazionale, oltretutto vengo da una famiglia sefardita. Non sono mai stato in un kibbutz, ma cresciuto nella periferia di Tel Aviv, dove le persone se ne fottono dell’identità ebraica e pensano a sopravvivere ». Mishani indica le parole chiave per comprendere il filo, non solo calcistico, che lo unisce a Gavron, Keret, Baram e gli altri. «La contaminazione, ovunque nei nostri libri: per me le influenze vanno da Pasolini a Tarantino, passando per il rock alternativo. E poi la tecnologia. Può sembrare scorretto, ma lo dico: in questi anni l’iPhone e Facebook per noi sono stati più rilevanti del conflitto palestinese ». Ma torniamo al calcio. «Assaf mi chiamò dicendomi che la squadra aveva bisogno di autori tradotti all’estero. Il campo dove ci alleniamo ogni domenica sera è nel quartiere dove sono cresciuto, Holon. Ci divertiamo come ragazzini». Sorride, prima di aggiungere: «E negli spogliatoi parliamo di letteratura».
"Internet è la nostra memoria, siamo globali, senza legami"
Intervista a Shani Boianjiu ( m.math)
Shani Boianjiu, 27 anni, esordiente di successo con "La gente come noi non ha paura "(Rizzoli) risponde cosl alle domande sulla memoria e sul senso di appart'nenza alla scena letteraria israeliana.
Perché il suo Iibroè stato scritto in inglese e pubblicato prima all'estero?
«E andata cosl. Noi mi siedo a chiedermi in che lingua lo farò. Ma ora sto lavorando alla traduzione e il romanzo sarà pubblicato in autunno in Israele». Racconta di tre soldatesse, cosa pensa davvero dell'esercito?
«Per me, per noi, è normale. Non riuscirei a immaginarci senza. La leva? Sei molto giovane e devi sperimentare come funziona il sistema. Con tutte le conseguenze del caso»
La National Book Foundation americana l'ha inserita tra i cinque migliori autori under35: che impatto ha avuto con il successo?
Ho realizzato un'indipendenza economica che per un po' di tempo mi garantirà di poter scrivere e basta. E viaggio dove ho sempre desiderato andare: dalla Svezia agli Usa, da Londra a Budapest. A settembre verrò in Italia: Mantova e Roma».
Ma come si relaziona agli altri scrittori israeliani?
«Non ho legami particolari. Oltre tutto quelli che per voi sono"nuovi" in realtà sono molto più vecchi di me...».
Ci faccia almeno dei nomi dl autori che l'hanno influenzata?
«David Grossman ed Etgar Keret. Soprattutto Keret: amo il suo modo di scrivere. L'ebraico è così complicato: lui ha trovato soluzioni semplici e interessanti a livello linguistico. Ma non posso sentirmi parte della scena di scrittori a cui lui appartiene. Quando Keret pubblicò il suo primo libro, ne1992, avevo poco più di 4 anni...». (m. math.)
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