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Corriere della Sera Rassegna Stampa
15.07.2013 Criticare è lecito, mettere in discussione l'esistenza di uno Stato, no
ma Sergio Romano, come al solito, confonde le due cose

Testata: Corriere della Sera
Data: 15 luglio 2013
Pagina: 29
Autore: Sergio Romano
Titolo: «I movimenti pacifisti non sono sempre pacifici»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 15/07/2013, a pag. 29, la risposta di Sergio Romano ad un lettore dal titolo " I movimenti pacifisti non sono sempre pacifici ".


Sergio Romano

Sergio Romano si arrampica sugli specchi e, di fatto, non risponde alla domanda posta dal lettore.
Romano scrive, giustamente "
Dietro il pacifismo vi è molto spesso un pregiudizio politico, un partito preso, una lealtà ideologica.", ma, da questa premessa, non giunge a conclusioni corrette. Infatti scrive : " Ma la tesi secondo cui ogni critica indirizzata a Israele sarebbe una manifestazione di antisemitismo mi sembra, nel dialogo fra punti di vista diversi, un'arma impropria, quasi un tentativo di chiudere la bocca a qualsiasi interlocutore critico. Non dimentichi che anche nel mondo ebraico il sionismo suscitò una forte opposizione e che gli ebrei critici di Israele sono ancora oggi numerosi.". Le critiche a Israele sono lecite e permesse, a patto, però, che non mettano in dubbio l'esistenza dello stesso Israele.
Gli inviti ai boicottaggi, le flotille, le proteste contro Gerusalemme capitale, non sono 'critiche', ma tentativi di delegittimare Israele.
Israele esiste da 65 anni, accettando questa premessa, qualunque critica pacifica è possibile. La proaganda filo palestinese di cui sono imbevuti i 'pacifisti' non riconosce questo punto di partenza.
Ecco lettera e risposta:

Sono indignato dal fatto che i «pacifisti» si agitino quasi esclusivamente quando si tratta di episodi che riguardano Israele. Viceversa, silenzio assoluto quando si tratta di episodi estremamente più efferati in cui Israele non è coinvolta. Trovo inaccettabile che questi signori scendano in piazza e scrivano frasi virulente contro Israele per l'episodio della nave Mavi Marmara che causò purtroppo la morte di 9 attivisti, mentre nessuna manifestazione di sdegno si dispieghi per episodi infinitamente più cruenti: vogliamo parlare degli 80.000 uomini, donne e bambini massacrati in Siria? Così come nessun sdegno di fronte all'assassinio di un prete copto davanti alla sua chiesa in Egitto. E omertà assoluta di fronte al massacro di 42 studenti cristiani in Nigeria. E si potrebbe citare un'infinità di altri tristi casi simili: stragi in Iraq, lapidazioni in Iran, ecc. Agli occhi di qualsiasi osservatore imparziale risulta evidente che Israele è oggetto di una odiosa discriminazione. Mi sembrerebbe lecito che le persone o i «movimenti» venissero definiti dai media con una definizione appropriata: nel caso specifico non ipocritamente «pacifisti», ma semplicemente «anti-israeliani (e di conseguenza antisemiti).
Franco Cohen
 
franco.cohen@yahoo.it

 Caro Cohen,

II pacifismo di massa risale agli anni Trenta del secolo scorso ed è il risultato dell'impatto della Grande guerra sulle generazioni successive. Film come «All'ovest niente di nuovo», dal romanzo di Erich Maria Remarque, «Westfront 1918» di G. W. Pabst e «La Grande illusione» di Jean Renoir contribuirono, soprattutto nelle grandi democrazie, alla nascita di una pubblica opinione che rifiutava la guerra come mezzo per la risoluzione delle controversie internazionali Uomini come il francese Aristide Briand e il tedesco Gustav Stresemann (entrambi insigniti del Premio Nobel per la pace nel 1926) ebbero il merito di costruire progetti politici che cercavano di realizzare quegli obiettivi. Sin dagli inizi fu chiaro, tuttavia, che nel pacifismo di massa vi era una componente ideologica. Chi manifestava contro la guerra ne attribuiva la responsabilità alla classe dirigente degli Stati borghesi, capi-talisti, autoritari o pseudo-democratici. Il fenomeno divenne ancora più evidente all'epoca dell'aggressione italiana contro l'Etiopia e della guerra civile spagnola. Non furono pochi i pacifisti che corsero ad arruolarsi nelle Brigate internazionali per combattere contro i franchisti. Più tardi, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, i pacifisti trovarono una nuova motivazione ideale nella campagna antinucleare. Ma di lì a poco ci accorgemmo che i loro cappelli e manifesti erano firmati da intellettuali comunisti o filo-sovietici e che Mosca stava facendo del suo meglio per favorire le loro agitazioni. Di fatto, quindi, erano semplicemente contrari alla bomba atomica americana in un momento in cui l'Unione Sovietica non era ancora riuscita a dotarsi della stessa arma. Il fenomeno si ripetè in altre forme e circostanze quando l'Urss, verso la fine degli anni Settanta, cominciò a stanziare nuovi missili nucleari nei suoi territori occidentali. La Nato annunciò che avrebbe fatto altrettanto in cinque Paesi dell'Alleanza e il pacifismo europeo scese in piazza per manifestare, anche violentemente. Ma l'obiettivo della sua indignazione erano i missili della Nato, non quelli dell'Urss. Dietro il pacifismo, quindi, vi è molto spesso un pregiudizio politico, un partito preso, una lealtà ideologica. Non è escluso quindi che dietro certe manifestazioni contro la politica israeliana nei territori occupati vi sia una ostilità preconcetta contro lo Stato d'Israele. Ma la tesi secondo cui ogni critica indirizzata a Israele sarebbe una manifestazione di antisemitismo mi sembra, nel dialogo fra punti di vista diversi, un'arma impropria, quasi un tentativo di chiudere la bocca a qualsiasi interlocutore critico. Non dimentichi che anche nel mondo ebraico il sionismo suscitò una forte opposizione e che gli ebrei critici di Israele sono ancora oggi numerosi.

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